2 aprile 2008

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Giovanni Paolo II uomo di preghiera e di perdono

La misericordia in eredità

In qualità di giornalista vaticanista di agenzia, ho seguito giorno per giorno il lungo pontificato di Giovanni Paolo II. Mi restano molti ricordi. Alcuni personali, altri condivisi con tanti. Di fronte a Papa Wojtyla è stato difficile l'equilibrio informativo, senza adulazione e senza pregiudizio. Ora che il tempo aiuta a leggere con passioni attenuate il suo non semplice pontificato, ci si rende conto di quanto l'imparzialità continui a essere importante per una lettura libera della sua eredità.

Giovanni Paolo II si è intrecciato in profondità con il mondo dei media come mai era prima capitato a un pontefice. È stato tanto mediatico che a volte si rischiava di lui un'immagine virtuale, lontana dalla realtà. Non a caso più raramente si evidenzia ciò che lo ha reso indimenticabile: la prova di umanità e la straordinaria fede cristiana vissuta nella vita ordinaria.

E in questo modo ha contribuito grandemente a svecchiare l'ufficio petrino e a concentrare i cattolici sull'essenziale. Se la sua capacità di comunicazione è stata enorme, tanto da raggiungere moltissimi anche lontani dalla Chiesa, ancora più grande mi è parsa la sua capacità di comunicare con il mistero cristiano. Ha lasciato un ricordo indelebile di un papa che prega, che perdona e sa chiedere perdono. Fin dai primi mesi di pontificato la sua preghiera apparve un punto di forza per intravedere con una certa attendibilità gli sviluppi futuri.
Trovai conferma a questa intima convinzione in un'intervista con padre Adam Boniecki, responsabile della prima edizione in lingua polacca de "L'Osservatore Romano", una delle prime da lui rilasciate. Egli confermò che di Wojtyla non si sarebbe capito nulla senza cogliere il primato della preghiera nella sua vita e nel suo programma pastorale.
Un riscontro lo si ebbe in occasione dell'attentato del 13 maggio 1981 che portò il papa sull'orlo della morte prematura. Un uomo forte, che sprizzava vitalità e che il mercato informativo tentava di arruolare quale "sciatore di Dio", era ridotto a persona debole e provata come ogni malato sul letto di ospedale. Le sue prime parole furono invece rivelatrici di un animo lontano dal personaggio vincente che piaceva ai media: non parlava di rivincita o di castigo esemplare. Perdonava l'aggressore e pregava per lui. Parole più potenti della pallottola che lo aveva quasi ammazzato. Nel clamore dell'incredibile attentato subito, il papa aveva il primo pensiero per il suo mancato assassino, considerandolo un fratello. Parlava di pregare e perdonare, due elementari componenti dell'essere cristiani.
Rimasi ugualmente colpito appena lo stesso pontefice uscì dalla cella di Ali Agca nel carcere di Rebibbia. Mi avvicinai a lui con il registratore, spezzando l'incantesimo del momento. Anche in quell'occasione, subito Giovanni Paolo II parlò di preghiera e di perdono con molta naturalezza e nessuna enfasi.
Tra le conseguenze della forza della sua vita spirituale, vorrei ricordare anche la sua estraneità alla strumentalizzazione politica. Mi è parso di cogliere la sua costante preoccupazione di dovere e volere incontrare le persone anziché i sistemi politici e di muoversi in piena coerenza con la dottrina sociale della Chiesa nella lettura degli eventi, alcuni straordinari, che ne segnarono il pontificato. Sono sempre restato meravigliato di quanto silenzio scendesse nei giornali occidentali intorno ai suoi interventi ordinari, attinenti la giustizia sociale, la pace e il primato della persona e del lavoratore rispetto al denaro e all'impresa.
Fuori dal mito che opposte letture hanno cercato di accreditare, Giovanni Paolo II è stato ancora più importante nella storia della Chiesa, perché ha contribuito con la sua umanità e la sua spiritualità a diffondere l'idea che anche oggi sia possibile essere cristiani vivendo una fede fondata sull'amore e la misericordia anziché sul rigorismo. Un anno prima che gli sparassero scrisse la sua seconda enciclica. Parlava della misericordia. Quando venne pubblicata nessuno ebbe sentore che la fede nella misericordia sarebbe stata messa a dura prova nei successivi eventi del mondo e del pontificato. Stava per finire un'era. Papa Wojtyla parlò di misericordia quando fu colpito, ne parlò alla caduta del muro, ne parlò evocando episodi amari di responsabilità ecclesiastiche. L'ha lasciata come sua eredità più duratura, raccolta da Benedetto XVI.

c. d. c.

(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2008)


In Papa Wojtyla la liturgia è stata comunicazione con il mistero cristiano

Quel colloquio interiore che precedeva ogni messa

Konrad Krajewski
Cerimoniere Pontificio

Ho conosciuto di persona Giovanni Paolo II nel 1998, anno in cui ho iniziato a lavorare nell'Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice.
Quando era il mio turno di assisterlo durante le celebrazioni, insieme con il maestro monsignor Piero Marini, rimanevo sempre colpito da ciò che accadeva nella sagrestia prima e dopo la celebrazione. Quando il Papa veniva nella sagrestia e restavamo soltanto noi due, si metteva in ginocchio o, negli ultimi anni del Pontificato, rimaneva sulla sua sedia, e pregava in silenzio. Questa preghiera durava dieci, quindici o anche venti minuti e, durante i viaggi apostolici, perfino di più. Sembrava che il Pontefice non fosse presente tra di noi. Quando il momento di preghiera sembrava protrarsi troppo a lungo, entrava monsignor Stanislaw Dziwisz, tentando di suggerire al Papa di prepararsi: spesso il Pontefice non rispondeva a questa chiamata. A un certo momento, alzava la mano destra, e noi ci avvicinavamo per cominciare a vestirlo in assoluto silenzio. Sono convinto che Giovanni Paolo II, prima di rivolgersi alla gente, si rivolgeva - o, per dire meglio, parlava - a Dio. Prima di rappresentarLo, chiedeva a Dio di poter essere la Sua immagine vivente davanti agli uomini. Lo stesso accadeva dopo la celebrazione: appena deposte le vesti sacre, si metteva in ginocchio nella sagrestia, e pregava. Avevo sempre la stessa impressione, che non fosse presente tra di noi.
Di tanto in tanto, durante i viaggi, entrava il suo segretario e sfiorandolo con delicatezza lo esortava a uscire dalla sagrestia, perché la gente lo aspettava per salutarlo (presidenti, sindaci, autorità...), ma quasi mai il Papa reagiva: rimaneva sempre in profonda preghiera e di nuovo, a un certo momento, si alzava da solo, o dava a noi un segnale per essere aiutato. Questi momenti di preghiera, prima e dopo l'azione liturgica, mi colpivano sempre profondamente. Quando lo assistevo, ponevo la mitra, passavo il fazzoletto, ero sicuro di toccare una persona non solo straordinaria, ma veramente santa.
Negli ultimi anni del Pontificato ero cerimoniere stabile del Pontefice: seguivo tutte le celebrazioni stando accanto al Papa, vedevo la sua sofferenza e le sue difficoltà in ogni movimento. Una volta, quando egli stava molto male, durante una celebrazione sul sagrato della basilica di San Pietro, inchinandomi, mi sono permesso di dire: "Santità, posso aiutarla in qualche modo? Forse qualcosa le fa male?". Egli mi ha risposto: "Ormai tutto mi fa male, ma deve essere così...". Ero sicuro e profondamente convinto che assistevo e toccavo una persona santa.
Mi sentivo così indegno di stare accanto a quest'uomo e di servirlo, che negli ultimi anni del suo Pontificato, prima di ogni celebrazione, andavo a confessarmi, anche se avevamo due o tre celebrazioni alla settimana. Così facevo un po' arrabbiare i confessori della basilica di San Pietro, ma sentivo profondamente il bisogno di essere totalmente "pulito" quando mi avvicinavo al Papa. Dopo tanti anni di servizio, e dodici viaggi all'estero, sono giunto a questa conclusione: tanti milioni di persone che partecipavano alle celebrazioni liturgiche presiedute dal Pontefice accorrevano per incontrare Gesù, che era rappresentato da Giovanni Paolo II, e presente proprio in lui, nella sua parola predicata, nei suoi gesti e nei suoi atteggiamenti liturgico-mistici. Per questo motivo la gente piangeva. Diceva: "Ha parlato solo a me, ha guardato me, ha cambiato la mia vita...". Come era possibile ciò, quando qualcuno durante la celebrazione stava lontano dal Pontefice centinaia di metri o, addirittura, chilometri (come succedeva durante i viaggi)? Come poteva dire: "Ha visto me", "ha parlato proprio a me"?
Anch'io, personalmente, devo testimoniare che la mia vita sacerdotale è cambiata totalmente, da quando ho cominciato a lavorare accanto a Giovanni Paolo II.
Vorrei ancora sottolineare alcuni momenti molto significativi, che mi hanno colpito profondamente durante l'ultima celebrazione del Corpus Domini presieduta dal Papa.
Ormai il Pontefice non camminava più. Il maestro delle celebrazioni e io lo abbiamo issato con la sedia sulla piattaforma della macchina appositamente preparata per la processione: davanti al Papa, sull'inginocchiatoio, era posto l'ostensorio con il Santissimo Sacramento. Durante la processione il Pontefice si è rivolto a me in polacco, chiedendo di potersi inginocchiare. Sono rimasto imbarazzato da tale domanda, perché fisicamente il Papa non era in grado di farlo. Con grande delicatezza, ho suggerito l'impossibilità di inginocchiarsi, poiché la macchina oscillava durante il percorso, e sarebbe stato molto pericoloso compiere un gesto simile. Il Papa ha risposto con il suo famoso dolce "mormorio". Trascorso un po' di tempo, all'altezza della Pontificia Università "Antonianum", ha ripetuto di nuovo: "Voglio inginocchiarmi!", e io, con grande difficoltà nel dover ripetere il rifiuto, ho suggerito che sarebbe stato più prudente tentare di farlo nelle vicinanze di Santa Maria Maggiore; e di nuovo ho sentito quel "mormorio". Tuttavia, dopo qualche istante, giunti alla curia dei padri Redentoristi, ha esclamato con determinazione, e quasi gridando, in polacco: "Qui c'è Gesù! Per favore...". Non era più possibile contraddirlo. Il maestro è stato testimone di quei momenti. I nostri sguardi si sono incontrati, e, senza dire nulla, abbiamo cominciato ad aiutarlo a inginocchiarsi. Lo abbiamo fatto con grande difficoltà, e quasi lo abbiamo messo di peso sull'inginocchiatoio. Il Papa si aggrappava al bordo dell'inginocchiatoio e cercava di sorreggersi; tuttavia le ginocchia non lo reggevano più, e abbiamo dovuto subito rimetterlo sulla sedia, tra difficoltà che non erano solo fisiche, ma erano dovute anche all'ingombro dei paramenti liturgici.
Avevamo assistito a una grande dimostrazione di fede: anche se il corpo non rispondeva più alla chiamata interiore, la volontà rimaneva salda e forte. Il Pontefice aveva mostrato, nonostante la sua grande sofferenza, la forza interiore della fede, che voleva manifestarsi attraverso il gesto di inginocchiarsi. Non contavano nulla i nostri suggerimenti di non compiere quel gesto. Il Papa ha sempre ritenuto che, davanti a Cristo presente nel Santissimo Sacramento, bisogna essere molto umili ed esprimere questa umiltà attraverso il gesto fisico.
Infine, voglio sottolineare che, attraverso il mio semplice servizio al Romano Pontefice, anch'io sono diventato migliore, come uomo e come sacerdote. Egli ci ha insegnato che "il vero amico è colui grazie al quale io divento migliore": allora posso dire che, secondo tale definizione, Giovanni Paolo II era il mio vero amico.
Attraverso la sua testimonianza mi sono avvicinato ancora di più a quel Dio, che veniva rappresentato da Giovanni Paolo II. Ho potuto vedere come, durante la sua vita, egli si dedicava e si abbandonava totalmente a Dio in occasione delle celebrazioni liturgiche, e in tale stato di dedizione si è spento.
Quando è morto, io camminavo nelle logge vaticane, esercitando la mia funzione di Cerimoniere Pontificio, e piangevo. Forse per la prima volta nella mia vita di adulto non mi vergognavo delle lacrime. Tuttavia erano lacrime per me stesso: perché non sono come lui, perché non sono un santo sacerdote, perché non mi sono offerto fino in fondo al Signore, perché non sono totus tuus...
Non ricordo completamente che cosa pensavo portando l'evangeliario davanti alla semplice bara di Giovanni Paolo II. Volevo solo portarlo con dignità, così come si porta il più importante libro della vita: il libro della vita di Giovanni Paolo II.
Questo libro l'ho deposto con il maestro sulla bara, e sentivo come ero indegno di questo gesto. Mi sentivo così piccolo e così peccatore... Pregavo il Signore di poter portare il libro del Vangelo nella mia vita, così come lo aveva portato Giovanni Paolo II. E di non chiuderlo mai.
Da quando Giovanni Paolo II è tornato alla casa del Padre, ogni giorno vado a confessare nella chiesa di Santo Spirito in Sassia alle 15, l'"ora della misericordia" nella quale tanta gente canta la coroncina della misericordia e segue la Via Crucis. Mi è capitato parecchie volte di suggerire a diverse persone di andare alla tomba del servo di Dio Giovanni Paolo II a pregare. Perché egli superava se stesso. Superava il proprio corpo, le proprie sofferenze. Quando si affacciava alla finestra, e ormai aveva smesso di parlare, tutti sapevamo che cosa avrebbe voluto dirci. Quando alzava con difficoltà la mano, facevamo subito il segno della croce, perché sempre lui ci benediceva. Mentre finivo di dire queste parole, tanti mi rispondevano: "Ma io vengo proprio dalle Grotte Vaticane, dalla tomba di Giovanni Paolo II, e perciò mi confesso. Non sapevo neppure che a quest'ora ci si potesse confessare...".

(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2008)

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