27 ottobre 2008

Perché in Orissa e in Iraq perseguitano i Cristiani (Il Foglio)


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Perché in Orissa e in Iraq perseguitano i cristiani

di Valentina Fizzotti

“Sbaglia chi attribuisce agli scontri in Orissa un valore ideologico e fondamentalista. Gli attacchi sanguinari ai cristiani non sono opera di un’al Qaida indù, qui si parla di cose più concrete, come l’economia e la politica”.
A dirlo al Foglio è padre Bernardo Cervellera, missionario del Pime e direttore dell’agenzia stampa Asia News. Cervellera, che da settimane denuncia il “pogrom” indiano contro i fedeli di religione cristiana, ha contribuito alla stesura del nuovo rapporto annuale dell’associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre sulla libertà religiosa nel mondo.
La fotografia dettagliata dello studio mostra una situazione in cui resta ancora molto da fare, ma si ferma alla fine del 2007. Da allora centinaia di cristiani sono scappati dall’irachena Mosul e decine sono stati massacrati nel nord dell’India. “Sappiamo che chi professa la religione cristiana in Orissa, e ancor peggio chi osa convertirsi, è sottoposto a umiliazioni bestiali. La verità – spiega – è che i gruppi indù sono armati da chi vuole mantenere le classi più deboli in schiavitù”.

Perché a convertirsi in India – dove a essere induisti ci si guadagna parecchio – sono principalmente gli strati più bassi della società, i paria, gli intoccabili. Quelli che, abbracciando la fede cristiana, scoprono che tutti gli uomini sono uguali, con gli stessi diritti politici e sociali.

“Si vogliono bloccare queste persone al lavoro nei campi o allo sfruttamento in fabbrica. Come sarebbe altrimenti possibile spiegare perché gli assalitori hanno sempre armi a disposizione e scorrazzano indisturbati anche nelle ore di coprifuoco?”. La storia poi ha radici politiche: ci sono in ballo le elezioni. L’Orissa è terrorizzata all’idea di replicare i risultati elettorali degli stati limitrofi, dove la maggioranza indù nel Parlamento locale è stata fortemente ridimensionata.
L’amministrazione dell’Orissa ci ha impiegato un mese per aprire un’inchiesta sul massacro e il governo centrale sembra disarmato davanti alle autorità locali: “Il premier Singh ha fatto molto bene a deplorare l’accaduto – dice Cervellera – ma non è mai stato in grado di garantire la sicurezza dei cristiani, né dei fedeli né dei religiosi. E’ una brava persona, uno studioso, ma in fondo anche lui ci tiene a vincere le elezioni”.
E’ un caso particolare, quello dell’India, in cui islamici e cristiani si trovano a formare un’asse solidale per richiedere più garanzie e maggiore libertà religiosa nella democrazia più grande del mondo.

Dove invece l’ideologia fa ancora la parte del leone, come conferma il rapporto dell’ACS, è in Cina.
La lettera di Benedetto XVI ha avuto un effetto forte sulle comunità di fedeli e i tentativi di dialogo del Vaticano cercano una via d’uscita dall’insostenibile situazione delle due chiese del paese, ma i problemi sono tutt’altro che risolti.
L’unica chiesa permessa resta ancora quella di stato, mentre il Partito è in allarme – durante le Olimpiadi era davvero in fibrillazione – per qualsiasi manifestazione religiosa pubblica. E usa le relazioni diplomatiche della Santa Sede con Taiwan – dove vige invece la piena libertà religiosa – per ricattare il Vaticano.

“Durante i Giochi abbiamo visto la facciata tersa di Pechino ma non il retrobottega violento”, commenta padre Cervellera. Lo stesso si potrebbe dire per Cuba, dove è proclamato l’ateismo di stato ma Fidel Castro si mostrò alle televisioni alla Messa celebrata da Giovanni Paolo II nel’98. A l’Havana il problema è che l’atteggiamento del governo allontana i giovani dalla religione e dalle sue battaglie per la vita e il valore della famiglia. Il rapporto riscontra paradossalmente i maggiori miglioramenti in fatto di libertà religiosa nei paesi islamici: nel 2007 alcuni stati arabi hanno permesso la costruzione di chiese sul loro suolo. Nelle ultime settimane, però, è tornato l’allarme in Iraq. Migliaia di famiglie sono state costrette ad abbandonare le loro case a Mosul per rifugiarsi a nord, nella piana di Ninive. “Credo fermamente che questo sia un piano preciso per frantumare l’Iraq – dice Camille Eid, docente libanese ed esperto di paesi arabi che ha partecipato alla stesura del rapporto – Quello che si sta volutamente creando è una sorta di ghetto cristiano. Dal 2004 a oggi sono 50 mila i cristiani di tutte le confessioni che hanno lasciato le loro case, mentre il ministero della Difesa di Baghdad parla di un centinaio per minimizzare il fenomeno. Spesso i cristiani decidono di non denunciare nemmeno le angherie subite”. Perché anche in Iraq si parla di voti e di garantire seggi alle minoranze: “Se si cerca di convincerli – racconta Eid – ci si sente rispondere che non vogliono essere il capro espiatorio in vista delle elezioni”.

© Copyright Il Foglio, 25 ottobre 2008 consultabile online anche qui.

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