7 luglio 2007

La persecuzione dei Cristiani...parliamone!


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SINISTRA, DIFENDI I CRISTIANI

Viviamo strane stagioni e, una volta tanto, il clima non c’entra. Il quattro luglio le patrie cronache hanno registrato due eventi.
Il primo è stato la commemorazione ufficiale del bi-centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi. Il secondo, una manifestazione romana affollata da politici del centrodestra, che ha co-memorato, reso cioè comune alla nostra memoria, la drammatica situazione in cui versano le comunità cristiane autoctone, soprattutto quelle cattoliche e ortodosse, che vivono nei Paesi islamici.
Nell’ultima decade di giugno, un imprecisato «rapporto dei servizi segreti britannici» ha quantificato il numero di battezzati sui quali incombe, oltre alla negazione dei diritti più elementari, un’oggettiva minaccia per la loro vita: sono circa duecento milioni.

Servizi segreti a parte, chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire sa bene che la stessa notizia viene data, tra la disattenzione generale, da almeno due decenni, ogni anno, dall’apposita Commissione Onu che monitorizza la libertà religiosa sul nostro pianeta. Vale la pena di fare alcune annotazioni importanti. Quello che subiscono i cristiani in Medioriente riguarda anche centinaia di migliaia di islamici discriminati e perseguitati, magari solo perché «minoranza» teologica, persino in Turchia e in Israele. E ciò che succede ai cristiani nei Paesi islamici impallidisce di fronte a quello che stanno subendo, cristiani e musulmani, in tutti gli Stati indiani a orientamento induista, i quali ormai da almeno vent’anni sono ostinatamente dediti a dotarsi di una legislazione «anticonversione» tanto pretestuosa quanto infame. Lo stesso accade nel Sudest asiatico, in quei Paesi buddisti che i bonaccioni nostrani continuano a descrivere come animati unicamente da pace, amore e pratiche sessuali non colpevolizzanti.
Di Garibaldi, il 4 luglio scorso, nessuno ha ricordato che al suo seguito combattevano indistintamente preti cattolici, rabbini, pastori valdesi e metodisti. E che le sue conquiste, quando vengono lette correttamente alla luce dell’ideologia risorgimentale, sono un tassello importante di quella breccia morale che ha rapidissimamente iniziato a imporre, nell’Italia unificata, il superamento delle legislazioni antiebraiche e antiprotestanti degli stati preunitari. Per dirla in breve, la battaglia per la libertà religiosa è stata parte integrante del Dna di quel «socialismo umanitario» garibaldino che, a distanza di due secoli, ancora permette a buona parte delle forze del nostro centrosinistra di idealizzare la camicia rossa dell’eroe dei due mondi. Nonostante l’ottima occasione, il 4 luglio scorso nessuno ha portato Garibaldi a piazza Ss. Apostoli. Peccato, perché a una manifestazione indetta da un musulmano, con i rabbini in prima fila a chiedere libertà per i cristiani, è molto probabile che il buon Giuseppe avrebbe partecipato volentieri.
Così, nell’immaginario mediatico, la battaglia per la libertà religiosa a favore dei cristiani privi di diritti, «il più numeroso gruppo umano perseguitato» secondo fonti Onu, da fiore all’occhiello della sinistra liberale sta diventato il cavallo di battaglia del centrodestra.

In un’Italia dove l’ateismo è in calo e dove, quando cresce il livello di istruzione cresce anche il desiderio di religione, la maggioranza dei cattolici elettori (che non sono mai stati democristiani), eredita la religiosità popolare ma si dota anche di una religiosità «raggiunta», conseguita come effetto di diverse cause scatenanti, spesso colta, matura, curiosa, a volte intrisa di misticismo, sempre bisognosa di osmosi con la realtà sociale dei bisogni. Sono coloro che non hanno mai creduto a quel «conflitto di civiltà» che torna di moda ogni volta che, per alchimia politica e per irenismo petrolifero, qualcuno sceglie l’ennesimo Paese dove inviare bombardieri a esportare democrazia; ma sono anche coloro che non amano espellere la loro fede religiosa dagli scenari sociali e politici dove, con enorme fatica, l’Occidente crede di poter combattere la battaglia per i diritti umani. Consegnando la difesa dei cristiani perseguitati al centrodestra, accettando senza rimpianti questo mutamento profondo del proprio Dna, la sinistra liberale non rischia di rinchiudere le sue belle teorie sui «diritti per tutti» nelle retrovie di un pensiero filosofico e sociale sgangherato e antistorico?

© Copyright La Stampa, 7 luglio 2007


L´INCHIESTA

Quando la fede cristiana vuol dire persecuzione

FEDERICO RAMPINI

PECHINO

Dov´è finito il vescovo Wu Qinjing, 39 anni, scomparso all´improvviso il 18 marzo scorso? È vero quel che dicono nella sua diocesi, che da quel giorno è rinchiuso in un campo di rieducazione, sottoposto a sedute di tortura mentale? Pechino manda segnali di cauta disponibilità a papa Benedetto XVI dopo la sua "lettera ai cinesi" e riparte il negoziato per riallacciare i rapporti tra la Repubblica popolare e il Vaticano interrotti da 56 anni.
Ma il governo rifiuta di rispondere ai 60mila cattolici di Zhouzhi, cittadina della provincia di Shaanxi nel cuore della Cina, che disperano per la sorte del loro giovane vescovo. L´ultima volta che ebbero notizie di Wu fu l´8 aprile in una lettera autografa: «Ai miei amati cattolici chiedo che ricordino la costrizione della mia libertà nelle loro preghiere, nel giorno in cui Cristo ha sofferto, è morto ed è risorto nella gloria». Hanno pregato per lui a Pasqua e in tutte le domeniche successive da quattro mesi. Continuano a chiedere la sua liberazione alle autorità di Zhouzhi. Sanno che Wu – colpevole solo di essere legato alla Chiesa di Roma – non sarà rilasciato finché non avrà firmato un´autocritica, autodenunciandosi come un vescovo "illegittimo" e rinunciando per sempre al suo sacerdozio. «Preghiamo Dio perché lo protegga – ha detto uno dei suoi fedeli – perché tenga duro nelle sue convinzioni e non ceda alle pressioni». Possono immaginare che cosa sta soffrendo perché non è la prima volta che viene messo alla prova. L´11 settembre scorso la polizia fece irruzione nella sua cattedrale dell´Immacolato Cuore di Maria. Dopo cinque giorni Wu era in ospedale con un trauma cranico. Il lento disgelo diplomatico con la Santa Sede per ora non garantisce una vita migliore ai cattolici cinesi. Anzi, per le logiche arcane del regime comunista può accadere perfino il contrario. Ne è la prova la provincia dello Hebei, roccaforte della Chiesa con un milione di fedeli, a poca distanza dalla capitale. Quando era imminente la divulgazione urbi et orbi della lettera papale - che il Vaticano aveva rivelato con largo anticipo ai leader di Pechino per sondarli - proprio nello Hebei il nervosismo del potere è salito alle stelle. Il vescovo Jia Zhiguo, 73 anni, è stato arrestato dalla polizia il 5 giugno e detenuto per 17 giorni. Forse per evitare che "fomentasse disordini" in una zona sensibile, dove le autorità locali sembrano ossessionate dalla forza dei cristiani. Monsignor Jia è una vittima prediletta della repressione: nella sua vita ha collezionato nove arresti e un totale di 20 anni fra carceri, laogai (campi di lavori forzati), "scuole di rieducazione". In uno dei periodici giri di vite, nel novembre 2005 ci fu una retata: 18 preti arrestati in varie località dello Hebei, incluso il rettore del seminario di Zhaoxian che è stato sequestrato dai poliziotti e sottoposto a un "corso sulla politica religiosa del partito". Sempre nello Hebei, proprio pochi giorni fa e quando l´apertura del papa era già nota ai vertici del regime, è scattata la distruzione del più popolare santuario: la Madonna del Carmine di Tianjiajing edificata nel 1903, un luogo sacro dove ogni anno il 16 luglio affluiscono 40.000 pellegrini. Il santuario sarà fatto saltare con la dinamite, le ruspe demoliranno le 14 stazioni della Via Crucis lungo la strada di accesso. Per evitare manifestazioni di protesta il governo provinciale ha chiamato l´esercito, organizzando manovre militari attorno alla Madonna del Carmine. «Quello che hanno fatto è stupefacente - ha dichiarato un fedele all´agenzia AsiaNews del Pontificio istituto per le missioni all´estero - i quadri comunisti locali non conoscono nemmeno le leggi sulla politica religiosa del governo centrale, e creano pericolose tensioni». Nello Hebei come a Roma alcuni sono persuasi, altri vogliono sperare, che le vessazioni della nomenklatura comunista locale non hanno necessariamente l´imprimatur dei vertici di Pechino.
Non c´è solo lo Hebei tra le provincie pericolose dove gli abusi contro i cattolici sono all´ordine del giorno. Nel Guangdong, la zona più ricca del paese con metropoli cosmopolite come Canton e Shenzhen, alla fine dell´anno scorso due sacerdoti colpevoli di essere stati in Europa furono arrestati al rientro in patria. Nella loro stessa diocesi (Wenzhou) il vescovo Lin Xili, anziano e malato, è confinato dentro la cattedrale da otto anni, di fatto agli arresti domiciliari. Quando Romano Prodi nel settembre 2006 venne in visita ufficiale a Tianjin, grande città portuale a un´ora e mezza di treno da Pechino, le autorità lo portarono nello storico quartiere italiano sorto agli inizi del Novecento, ma gli nascosero che proprio lì era avvenuta poco tempo prima un´aggressione contro i credenti che si opponevano allo sfratto della loro diocesi.
Certo la condizione dei cattolici - come quella dei protestanti, dei buddisti o dei musulmani - è migliorata molto rispetto agli anni più duri dell´ateismo di Stato imposto da Mao Zedong con persecuzioni di massa. Nella Cina maoista dal 1949 al 1976 il numero dei cattolici rimase pressoché fermo a tre milioni, per molti vivere sotto il comunismo fu un calvario, chi poteva fuggì a Hong Kong o in Occidente. Dagli anni Ottanta a oggi una graduale liberalizzazione della pratica religiosa ha coinciso con un´esplosione della fede: oggi si stima che vi siano dai 12 ai 15 milioni di cattolici (in parallelo sono tornati a riempirsi i templi buddisti e le moschee nelle regioni islamiche come lo Xinjiang). Le statistiche ufficiali del Congresso del Popolo riconoscono "oltre centomila conversioni al cattolicesimo ogni anno". Ma non tutti i credenti hanno diritto allo stesso trattamento. Dopo la rottura delle relazioni col Vaticano nel 1951 il regime ha creato la sua Chiesa, cosiddetta ufficiale o patriottica, i cui vescovi e sacerdoti prestano giuramento di fedeltà alla Repubblica popolare e vengono nominati dal governo. I fedeli di questa Chiesa, cinque milioni, hanno vita più facile. Gli altri, stimati fra gli otto e i 12 milioni, continuano a riconoscere nel papa l´autorità religiosa e affollano le messe celebrate dai sacerdoti ordinati dal Vaticano: è la Chiesa della penombra, clandestina e illegale, contro cui tuttora la repressione può accanirsi a piacimento.
Questo "scisma" non è solo figlio della rivoluzione comunista. Per capire le profonde incomprensioni tra Roma e Pechino bisogna risalire ad antecedenti ben più antichi. Il gesuita maceratese Matteo Ricci, il più importante missionario nella Cina del XVI secolo, cercò di fondere i Vangeli col confucianesimo e adattò ai costumi locali anche i riti e le liturgie. Venne ripudiato da papa Clemente XI e nel 1715 i "riti cinesi" furono sconfessati provocando l´indignazione della dinastia Qing che espulse i missionari. L´evangelizzazione fece il suo ritorno nell´Ottocento grazie alla politica delle cannoniere e alla Guerra dell´Oppio (1842) con cui le potenze imperialiste occidentali conquistarono l´accesso ai mercati cinesi. In episodi cruciali della storia moderna, dalla rivolta dei Boxer del 1900 alla guerra civile tra i nazionalfascisti di Chiang Kai-shek e i comunisti, la Chiesa si schierò dalla parte degli oppressori e degli interessi economici più forti. A riprova che il controllo del Vaticano sulle missioni aveva un´impronta coloniale, ancora nel 1949 la stragrande maggioranza dei vescovi in Cina erano bianchi. Le ferite di quel passato sono servite al partito comunista per legittimare la fondazione di una Chiesa patriottica, tutta cinese e non comandata dall´estero. Poi, mentre il maoismo sprofondava nell´arbitrio e inseguiva la creazione dell´"uomo nuovo" anche i cattolici filogovernativi finirono vittima delle epurazioni e delle campagne di terrore. Ma degli errori storici della Chiesa era consapevole Giovanni Paolo II che nel 2001 chiese solennemente perdono alla Cina "per i peccati commessi da alcuni missionari cattolici" durante il periodo coloniale. Papa Wojtyla, forte della sua esperienza nella Polonia comunista, sapeva anche che non tutti i vescovi e sacerdoti della Chiesa patriottica (tantomeno i fedeli) erano per forza traditori collaborazionisti. Esemplare è la parabola di Jin Luxian, il 91enne vescovo della Chiesa patriottica di Shanghai, che Mao condannò a trent´anni di lager. «Sono entrato in carcere giovane e ne sono uscito vecchio», racconta Jin. Quando tornò libero nel 1982 e scelse di entrare nella Chiesa governativa, ricorda il vescovo, «alcuni mi trattarono come un Giuda». I confini tra le due Chiese invece non sono così netti. Alcuni sacerdoti hanno giurato fedeltà allo Stato perché gli sembrava l´unico modo per continuare a garantire una presenza e una voce ai loro fedeli. Non mancano zone di solidarietà discreta, "clandestini" ospitati e aiutati dai "governativi". Da anni io vedo le chiese ufficiali di Pechino e Shanghai stracolme ogni domenica, vibranti di una religiosità appassionata: nessuno può definire quei fedeli dei cattolici di serie B solo perché non scelgono la guerra col regime. Oggi papa Benedetto XVI propone la riconciliazione e la fusione tra le due Chiese cinesi, è pronto ad accettare i vescovi che furono nominati dal governo. Ha detto perfino in modo chiaro che la Chiesa non farà mai nulla contro lo Stato, un messaggio per rassicurare il partito cinese che non ha mai digerito l´alleanza fra cattolicesimo e Solidarnosc per far cadere il comunismo polacco.
Il papa può avere la tentazione di sfruttare in fretta un finestra di opportunità irripetibile. Al regime cinese fa gola incassare prima delle Olimpiadi del 2008 un riconoscimento che sarebbe un trionfo internazionale; il Vaticano è l´ultima potenza universale che ha ancora le relazioni diplomatiche con Taiwan. Fin dove è disposto ad arrivare Benedetto XVI nelle sue concessioni? Per concludere la riappacificazione con Pechino c´è il rischio che la Chiesa debba abdicare alla difesa dei diritti umani. Com´è chiaro nel trattamento che riserva al Dalai Lama, il regime non ammette autorità spirituali esterne su cui non esercita il controllo. Un vescovo dei cattolici clandestini, Wei Jingyi della provincia di Heilongjiang, traccia un confine da non superare: «L´unificazione tra le due Chiese è il nostro fine ultimo ma dovremo raggiungerlo quando la Cina avrà una vera libertà religiosa». Ma avere dei preti che dal pulpito parlino di pena di morte, di tortura e di libertà di espressione, non è un rischio che la nomenklatura è disposta a correre. Domenica scorsa durante le cerimonie per il decennale del ritorno di Hong Kong alla Cina, il cardinale dell´ex colonia britannica, Zen Ze-kiun, è sceso in piazza nella contro-manifestazione per la democrazia. Pechino lo ha subito accusato di «fomentare l´instabilità». Hong Kong ha conservato uno Stato di diritto, altrimenti il cardinale oggi non sarebbe a piede libero. Se per ristabilire le relazioni diplomatiche si deve mettere la museruola ai credenti della tempra di Zen, sarà un prezzo alto da pagare.

© Copyright Repubblica, 7 luglio 2007

TRANQUILLI, SIGNORI DI REPUBBLICA! Papa Benedetto non abdichera' MAI alla difesa de diritti umani. State sereni. Del resto, chi ha avuto il coraggio di pronunciare il discorso di Ratisbona sul rifiuto, assoluto, dell'imposizione della fede con la spada?
E' stato Papa Benedetto o l'Europa stanca e ripiegata? E' stato Papa Ratzinger o certi giornalisti che hanno accusato il Papa di avere "parlato troppo" salvo poi denigrare Pio XII per avere taciuto? Riflettiamo...

Raffaella


«Martiri» gli 800 cristiani uccisi a Otranto

di Andrea Tornielli

Benedetto XVI ha approvato ieri mattina il decreto che sancisce il martirio di Antonio Primaldo e dei suoi concittadini (in tutto ottocento) uccisi «in odio alla fede» dai turchi il 13 agosto 1480 ad Otranto. E in un futuro prossimo gli ottocento martiri potrebbero essere anche canonizzati, se sarà riconosciuto un miracolo attribuibile alla loro intercessione.

In realtà i «martiri» di Otranto erano già definiti tali perché al termine del processo aperto nel 1539 e concluso nel 1771 la Chiesa aveva autorizzato il culto degli ottocento uomini uccisi. Con l’entrata in vigore delle nuove norme, in vista di una possibile canonizzazione, il processo è stato interamente rifatto con un’accurata e approfondita inchiesta storica. Che ha finalmente confermato in pieno il risultato della precedente. Va precisato che la Congregazione delle cause dei santi ha condotto questa «ricognizione canonica» su richiesta della diocesi di Otranto.

Qual è dunque la storia di questi martiri, le cui ossa sono esposte in alcune teche conservate in una delle cappelle laterali della cattedrale della città salentina? È una vicenda terribile. Dopo aver raggiunto il suo massimo splendore nei secoli X-XV, Otranto rimase vittima della conquista di Gedik Ahmed Pascià, inviato da Maometto II. I cittadini resistono all’assedio dopo aver visto arrivare via mare l’armata turca composta da 90 galee e 18mila soldati. Per giorni le bombarde degli assedianti rovesciano sulla città centinaia di palle di pietra, e all’alba del 12 agosto 1480 riescono a sfondare aprendo una breccia sulle mura: «I cittadini resistendo ritiravansi strada per strada combattendo, talché le strade erano tutte piene d’homini morti così de’ turchi come de’ cristiani er il sangue scorreva per le strade come fusse fiume, di modo che correndo i turchi per la città perseguitando quelli che resistevano e quelli che si ritiravano e fuggivano la furia non trovavano da camminare se non sopra li corpi d’homini morti».

Uomini, donne e bambini cercano rifugio nella cattedrale, ma anche qui i turchi sfondano il portale e si ritrovano davanti il vescovo Stefano Pendinelli, che brandisce la croce: «Sono il rettore di questo popolo e indegnamente preposto alle pecore del gregge di Cristo», dice. Gli invasori, dopo avergli invano intimato di non nominare più Gesù, lo decapitano con un solo colpo di scimitarra. Il giorno successivo, il pascià chiede la lista di tutti gli abitanti fatti schiavi, ad esclusione delle donne e dei bambini sotto i 15 anni. Sono circa ottocento. Un prete apostata, per volere del comandante turco, invita a tutti ad abbandonare la fede cristiana per abbracciare quella islamica. Se non lo faranno, verranno trucidati. Uno dei prigionieri, Antonio Primaldo, un vecchio sarto, risponde: «Crediamo tutti in Gesù, figlio di Dio, siamo pronti a morire mille volte per lui». E aggiunge: «Fin qui ci siamo battuti per la patria e per salvare i nostri beni e la vita: ora bisogna battersi per Gesù Cristo e per salvare le nostre anime». Il pascià chiede anche agli altri che cosa intendono fare, e questi, dandosi l’un l’altro coraggio, gridano di essere pronti a subire qualsiasi morte pur di non rinnegare Cristo. Vengono tutti condannati a morte, a cominciare proprio dal sarto che per primo aveva parlato.

Il 14 agosto ha inizio la tremenda carneficina delle decapitazioni: il colle della Minerva rimane rosso di sangue, coperto quasi del tutto dagli ottecento corpi. Tra i vari eventi prodigiosi che raccontano le cronache, c’è il fatto che nonostante la decapitazione, il tronco di Primaldo sarebbe rimasto fermo in piedi, al suo posto. Un fenomeno che provocherà la conversione di uno degli esecutori della strage, a sua volta impalato dai commilitoni.

L’effetto psicologico dell’eccidio è devastante: il Papa Sisto IV, appresa la notizia, inizia i preparativi per fuggire ad Avignone. Ma il destino dell’Europa non è segnato. Otranto viene infatti riconquistata dagli Aragonesi un anno dopo, i corpi dei martiri sono ritrovati, sempre stando alle cronache antiche, incorrotti, con il volti sorridenti e gli occhi rivolti al cielo, e il 13 ottobre 1481 vengono trasportati all’interno della cattedrale cittadina e della chiesa di Santa Caterina a Formiello, a Napoli.

I fedeli cominciano quasi subito a invocare gli ottocento come santi martiri. Che secondo la tradizione si sarebbero impegnati per evitare alla città nuovi sbarchi di turchi.

© Copyright Il Giornale, 7 luglio 2007

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