13 marzo 2008
A colloquio con l'arcivescovo Louis Kébreau, presidente della Conferenza episcopale di Haiti (Osservatore)
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A colloquio con l'arcivescovo Louis Kébreau, presidente della Conferenza episcopale di Haiti
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La rassegnazione è il pericolo più immediato che minaccia la popolazione di Haiti. Rassegnazione davanti alla miseria; rassegnazione davanti all'ingiustizia sociale; rassegnazione davanti al degrado dell'istituto familiare; rassegnazione davanti alla mancanza di prospettive per i giovani; rassegnazione davanti agli episodi di violenza.
Per la Chiesa in Haiti la rassegnazione rappresenta una vera e propria sfida cui dare urgente e immediata risposta. Ne abbiamo parlato con monsignor Louis Kébreau, arcivescovo metropolita di Cap-Haïtien, presidente della Conferenza episcopale, alla vigilia dell'incontro con il Papa per la visita ad limina.
Come può la Chiesa restituire al popolo haitiano la speranza in un periodo in cui sembrano prevalere atteggiamenti di violenza e di conflittualità?
Occorre arrendersi all'evidenza che i conflitti sono sempre esistiti. L'uomo porta in sé una parte di competitività: se non è contento di coabitare con se stesso, avrà sempre la tendenza a volersi proiettare sugli altri. La Chiesa che ha la missione di salvezza, di annunciare la buona novella del Vangelo, porta una parola capace di sanare la vita dell'uomo nella misura in cui l'uomo l' accoglie fiducioso di poter ritrovare la pace e la serenità interiore. Molto spesso ci fissiamo sulle cose esteriori. Invece la pace è nelle mani di Dio, non proviene dall'uomo, è una grazia. E dunque non si potrà mai arrivare alla pace se non si arriva a scoprire quello che c'è nel più profondo del cuore stesso dell'uomo. È molto importante mettere l'accento sull'essere; invece spesso lo mettiamo sull'avere. Ecco cosa cerchiamo di insegnare: fintanto che non riporteremo l'attenzione sul nostro essere figli di Dio, sarà difficile giungere a quella pace e a quella serenità che la nostra società cerca continuamente.
In quale modo cercate di far capire ai giovani haitiani quali sono le radici della pace?
A questo proposito, abbiamo vissuto nel mese di luglio scorso, una bellissima esperienza in questo senso. Nella città di Cap-Haïtien seimila giovani si sono riuniti per discutere sul tema "Imparare a camminare secondo lo spirito". Con questi giovani abbiamo vissuto un'esperienza molto simile a quella delle Giornate Mondiali della Gioventù. Dunque c'è stata l'occasione per molti vescovi di accostarli e di parlare con loro. Abbiamo poi adottato alcune iniziative particolari come Conferenza episcopale, poiché abbiamo la consapevolezza che i giovani sono per noi un capitale di speranza. Avendo ascoltato le loro grida e le loro richieste, abbiamo promosso una commissione di pastorale dei giovani. A capo della commissione vi è un vescovo e un sacerdote è il segretario. Cerchiamo di accompagnare i giovani nel loro cammino, di essere molto attenti ai loro desideri e alle loro aspirazioni. Del resto il nostro è un paese estremamente giovane. Le statistiche rivelano che il 62% della popolazione si attesta sui 24 anni e che nel giro di dieci anni, la maggioranza della popolazione avrà quindici anni. Si tratta quindi di avvertire e rispondere a questa urgenza per preparare un avvenire per i giovani e con i giovani.
Dalla partecipazione alla Conferenza di Aparecida quali indicazioni avete tratto in questo senso?
Ho avuto la gioia di vivere l'esperienza di Aparecida in Brasile. Al ritorno, ne ho parlato con i miei fratelli vescovi e ci siamo messi al lavoro. Abbiamo così deciso di avviare la Grande Missione in mezzo al popolo haitiano proprio per rendere concrete le indicazioni di Aparecida. Abbiamo costituito una commissione composta da tre vescovi. A livello di diocesi ci sono gruppi distaccati che lavorano in collaborazione con questa commissione e la stessa cosa avviene per le diverse realtà parrocchiali. Si tratta di una missione di evangelizzazione, ossia di annuncio del kérygma: Gesù morto e risorto. Proprio attraverso questa missione daremo il via ad una pastorale di vicinanza che aiuti il nostro popolo ad operare una vera e propria conversione del cuore. Il nostro sarà l'atteggiamento del buon samaritano, per curare le ferite dell'uomo di oggi. Diffonderemo in modo più capillare possibile una Parola capace di cicatrizzare molte di queste ferite, perché l'uomo possa veramente ritrovare il gusto della speranza. Aparecida è esattamente una grande sfida che dobbiamo raccogliere se veramente vogliamo vivere in profondità il cristianesimo, non farne solo un discorso teorico, ma ritrovare la praticità del Vangelo alla maniera di quel pedagogo che è stato Gesù, maestro che istruiva, educava, incoraggiava, rivelava e cicatrizzava e ridava il gusto di vivere in pienezza.
Quali sono le sfide più urgenti che la Chiesa di Haiti deve affrontare?
Direi che vi è la problematica dell'educazione perché, noi lo ripetiamo spesso, la salvezza di Haiti è nell'educazione. È una grande sfida. Lo scorso mese abbiamo organizzato un congresso sull'educazione in cui abbiamo presentato il P.E.C., il Progetto dell'educazione Cattolica. La Conferenza episcopale ha tracciato le grandi linee di questo progetto educativo: un uomo nuovo, uno studente nuovo e anche l'importanza della comunità educativa all'interno di questa processo a livello di educazione. Il problema dell'educazione è una sfida.
Come le ho detto, la formazione dei seminaristi e la formazione dei laici sono sfide che la Chiesa deve raccogliere. Qualcosa si sta delineando ma occorre avere un sguardo in profondità. È ciò che io chiamo la secolarizzazione del cuore. Sì, oggi si parla di secolarizzazione ma il problema per me è questa secolarizzazione del cuore che fa sì che si assuma un atteggiamento di diffidenza, di aridità e che si banalizzi la vita. Tutto ciò è frutto della cultura che ci circonda, una cultura estremamente pericolosa perché, in fondo, non accorda importanza all'uomo. Anche questa è una sfida da raccogliere, una lotta da condurre ogni giorno affinché l'uomo sia degno della condizione umana. Mi ricollego a quello che ha detto il Papa domenica all'Angelus: gli haitiani devono costruire una città degna dell'uomo e degna della fede cristiana. Noi abbiamo bisogno di unire le forze perché per costruire bisogna gettare le fondamenta, bisogna scavare.
Qual è l'impegno della Chiesa per aiutare e sostenere i più poveri e più bisognosi?
Le strutture sociali che abbiamo creato ci aiutano ad assistere i poveri. Abbiamo per esempio la Caritas e diverse istituzioni caritative. Vi è tutta la messa in pratica della dottrina sociale della Chiesa. Tutti questi elementi ci aiutano ad assistere i più poveri e ad aiutarli a divenire degni della condizione umana, nel campo dell'educazione, della cultura e della salute. A tale proposito nella nostra diocesi abbiamo diversi ambulatori. Abbiamo collaboratori del nostro paese o stranieri che ci offrono il loro aiuto, e tale collaborazione ci fa scoprire la spiritualità samaritana, come ho già detto, per aiutare veramente il povero nella sua situazione di miseria, nella sua situazione di sofferenza. Vi sono anche congregazioni caritative che si occupano dei poveri. Ad esempio, le suore di Madre Teresa che svolgono un lavoro meraviglioso per i poveri, in un silenzio, con un'abnegazione e una disponibilità degna del cuore di Madre Teresa, la quale nutriva un amore folle per i poveri e anche il desiderio, la sete di servirli. È così che pure noi cerchiamo di assistere il povero e di aiutarlo a divenire qualcuno.
Di cosa parlerete con Benedetto XVI?
Intanto, ricorderemo alcuni eventi per noi fondamentali. La prima cosa è l'avvenimento che abbiamo celebrato domenica scorsa ricordando il 9 marzo 1983, un momento storico: la visita di Giovanni Paolo II ad Haiti. Anche la comunità haitiana in Roma ha celebrato con gioia questo evento. In questi ultimi giorni, poi una frase di Benedetto XVI mi ha colpito particolarmente: "gli anziani devono costruire una città degna dell'uomo e degna della fede cristiana". Ciò è estremamente importante per noi.
Un altro evento che ricorderemo è il 15o° anniversario del concordato tra stato e Chiesa cattolica, che celebreremo tra due anni. Dobbiamo confrontarci anche sui problemi attuali, che la conferenza d'Aparecida ha sollevato, affinché diveniamo discepoli di Gesù in questo mondo colmo di violenza, in un mondo che ha bisogno di un rinnovamento interiore, un mondo che ha bisogno di un supplemento d'anima. La missione indetta riveste un'importanza molto importante e Benedetto XVI ne ha parlato più volte, sia ad Aparecida, sia altrove. È una missione che ci conduce a una conversione pastorale che ci interpella e ci chiede una sorta di distacco da noi stessi per imparare a guardare in altro modo la realtà. E non è una conversione morale o una risoluzione da prendere, è molto più un lavoro interiore per cercare di guardare il mondo o guardare gli uomini con lo sguardo di Dio, e saper discernere allo stesso tempo, qual è il disegno e la volontà di Dio. Si tratta di un lungo apprendistato che richiede da noi un'educazione, che non abbiamo ricevuto ma che dovremmo compiere. Credo che le indicazioni ci vengono offerte da Benedetto XVI, soprattutto, quando insiste sulla lectio divina , cioè come la Parola di Dio deve illuminarci, deve guidare i nostri passi, deve condurci a questa purificazione interiore di modo che, liberi, possiamo guardare la vie e gli uomini come Dio li guarda.
Quale sarà il ruolo dei laici in questa grande missione evangelizzatrice?
Sappiamo bene che con la Christifideles laici di Giovanni Paolo II, ci sono stati indicati dei criteri per decidere qual è il ruolo e la missione dei laici. nella nostra Chiesa, abbiamo messo un grande impegno per la formazione dei laici. Ci rendiamo conto che occorre una collaborazione con i laici aiutandoli a scoprire la loro missione nel mondo di oggi. In quanto battezzati, hanno ricevuto una sacerdozio battesimale da esercitare, e a ridare all'azione tutta la sua dimensione divina. Si tratta di un immenso lavoro di coscientizzazione da fare, affinché parlare dei laici, non è parlare di un elemento a parte, è parlare dell'uomo, è parlare di una donna che ha anche una missione e una vocazione. Occorre riportare queste persone a scoprire ciò che Dio vuole da loro, perché la loro testimonianza possa veramente aiutare la società a divenire più umana, più giusta, vivendo i fermenti del Vangelo che devono incarnare nella loro vita e trasmettere agli altri fratelli.
Qual è la situazione delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata?
Dobbiamo rendere grazie a Dio per il fatto che in mezzo a noi vi sono vocazioni, vi sono molte vocazioni. A Port-au-Prince abbiamo il seminario interdiocesano con due sezioni, quella di teologia e quella di filosofia, dove vi sono molti seminaristi. A livello di comunità religiose, vi sono anche vocazioni alla vita consacrata. L'elemento fondamentale è la formazione. Come condurre questi giovani all'incontro con Dio, poiché il fondamento stesso della vocazione è questo incontro con Dio, come vediamo nel Vangelo con Pietro e tutti gli Apostoli. L'esperienza più forte è quella di Paolo: vediamo come un incontro può sconvolgere la vita di qualcuno. Tutta la problematica della formazione, seguendo naturalmente le grandi linee della Pastores dabo vobis, e a partire da ciò cerchiamo di affrontare il problema della formazione a livello umano, spirituale e intellettuale, poiché proprio nella linea di Aparecida siamo chiamati a formare i discepoli di Gesù. Divenire discepoli di Gesù, significa prima di tutto essere con Lui, saper ascoltarlo. È in questa prospettiva che tracciamo le grandi linee della formazione per avere veramente domani uomini e donne consacrati, radicati in una fede profonda e che, giorno dopo giorno, vivano questo incontro facendo la lettura della fede per scoprire attraverso il povero, l'abbandonato e il ferito della vita, che Dio è lì presente e che l'uomo è un miracolo di Dio, e in questo rifiorire della fede, dobbiamo andare al di là dell'apparenza per raggiungere la profondità dell'essere.
(©L'Osservatore Romano - 13 marzo 2008)
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