1 agosto 2008

La nuova edizione critica dell'«Historia ecclesiastica gentis Anglorum» di Beda: "Quando gli Angli divennero angeli" (Osservatore R.)


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La nuova edizione critica dell'«Historia ecclesiastica gentis Anglorum» di Beda

Quando gli Angli divennero angeli

di Paolo Garbini
Università di Roma La Sapienza

Sconfinati nell'impero romano durante il V secolo e giunti di fronte al passato maestoso e rovinato di quella civiltà, i popoli germanici sentirono presto l'esigenza di situarsi a loro volta non solo nello spazio, ma anche nel tempo latino-cristiano. Nacquero allora la storie etniche, in ciascuna delle quali genti disparate - germaniche ma non solo - inventarono la propria tradizione e riconobbero la propria identità. Si tratta di storie scritte in latino, in omaggio al mezzo di comunicazione principe del frantumato impero e quasi a sancire una fratellanza antica con l'ammirata civiltà romano-cristiana.
Così, al seguito di queste storie-totem, i Germani fecero il loro ingresso nella Storia: L'Historia Gothorum di Cassiodoro (secolo VI), perduta ma riassunta da Giordane nel De originibus actibusque Gothorum (secolo VI); l'Historia Francorum di Gregorio di Tours (secolo vi) proseguita dallo Pseudo-Fredegario (secolo VII); l'Historia Gothorum, Vandalorum, Sueborum di Isidoro di Siviglia (secolo vii); l'Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda (secolo viii); l'Historia Langobardorum di Paolo Diacono (secolo viii). Sono capolavori che formano nell'insieme una stagione straordinaria della storiografia del Medioevo; uno scaffale di racconti preziosissimi non solo e non tanto per ricostruire le vicende delle etnie nordiche, quanto per comprendere con quali occhi e motivazioni qualcuno, dal suo presente, guardò il passato del suo popolo. Tra questi classici altomedievali si staglia per originalità di sguardo l'anglo Beda (Northumbria 672/73-Jarrow 735) che trascorse l'intera esistenza nei monasteri di Wearmouth e Jarrow, a pochi chilometri di distanza dal Vallo di Adriano, nel settentrione più remoto dell'antico impero romano, a un passo dal confine con l'ignoto. Giunge perciò graditissimo il primo volume di questa eccellente edizione della Fondazione Valla: Beda, Storia degli Angli (Historia ecclesiastica gentis Anglorum), i (Libri I-II), a cura di Michael Lapidge, traduzione di Paolo Chiesa (Milano, Mondadori, 2008, pagine CLXXXVI+400, euro 27). È questa la prima edizione critica dopo quella dovuta a Roger Aubrey Baskerville Mynors (Oxford 1969), della quale costituisce un sicuro progresso grazie al lavoro filologico sottile e paziente di Michael Lapidge, cui si devono anche le preziose note di commento; alla perizia filologica e linguistica di Paolo Chiesa va il merito di una traduzione precisa quanto godibile, che rende il testo di Beda davvero contemporaneo.
Si ha insomma per le mani un libro di rara qualità, pregevole come solido strumento di lavoro, avvincente come proposta di lettura. Sì, avvincente, perché Beda con il suo latino un po' rustico ma scorrevole ha qualità di scrittore eccezionalmente ricco e complesso.
Nell'ultimo capitolo dell'Historia ecclesiastica gentis Anglorum Beda ci offre una breve autobiografia: "Sono nato nel territorio di Wearmouth-Jarrow, sono entrato in monastero a sette anni e vi sono rimasto tutta la vita. Mi è sempre piaciuto imparare, insegnare e scrivere. A diciannove anni diacono, a trenta prete, fino a oggi che ne ho cinquantanove e ho scritto".
E segue un elenco di una trentina di titoli, frutto della sua erudizione meditata, della sua avida curiosità intellettuale, della sua larghezza di interessi, del suo amore per la scuola, nonché della sua intensa ricerca spirituale.
Per tutto questo Beda fu ammirato e venerato da contemporanei e posteri al punto da procurarsi alcuni altissimi riconoscimenti nel corso della storia, non solo medievale: il titolo di doctor admirabilis (concilio di Aquisgrana dell'836); un posto tra i dodici "ardenti spiri" che formano la corona dei beati nel decimo canto del Paradiso (vv. 130-131); infine, nel 1899, il titolo di Dottore della Chiesa conferitogli da Papa Leone XIII.
Un'altra insegna a suo modo onorifica Beda l'ha ricevuta nel 1982, allorché uno dei massimi letterati del Novecento, Jorge Luis Borges, gli dedicò alcune pagine appassionate (Dante e i visionari anglosassoni) relative ad alcuni racconti di visioni ultramondane riferiti da Beda nella sua Historia ecclesiastica gentis Anglorum.
Per la grandezza di entrambi, il medievale e il moderno, vale la pena di leggere le righe conclusive di Borges: "Che Dante conoscesse o meno le visioni registrate da Beda è meno importante del fatto che questi le incluse nella sua opera storica, giudicandole degne di memoria. Un grande libro come la Divina Commedia non è l'isolato o casuale capriccio di un individuo; molti uomini e molte generazioni tesero ad esso. Investigarne i precursori non significa incorrere in un miserabile compito di carattere giuridico o poliziesco; significa indagare i movimenti, i tentativi, le avventure, i barlumi e le premonizioni dello spirito umano" (Tutte le opere, II, Milano, Mondadori, 1986, p. 1293).
Ma si diceva dell'originalità dello sguardo storico di Beda. Alla storia egli aveva già dedicato due scritti, il De temporibus liber (703) e il De ratione temporum (725) in cui ai problemi teorici della cronologia - si impone da qui in Inghilterra il sistema della datazione a partire dalla nascita di Cristo proposto nel VI secolo da Dionigi il Piccolo - aveva saputo unire la narrazione storica delle età del mondo e delle serie degli eventi.
Nel 731, dedicandola al re Ceolwulf, Beda conclude l'Historia ecclesiastica gentis Anglorum, in cinque libri: un colpo di genio nel campo della storiografia. Beda ricalca infatti il titolo sull'Historia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, tradotta dal greco da Rufino. In questo modo l'aggettivo ecclesiastica orienta l'opera in una regione culturale dove nessuno si era ancora mai spinto.
Beda scrive infatti una storia nazionale, "insulare" certamente, ma non soltanto nella prospettiva terra-popolo, come avevano già fatto Cassiodoro e Giordane per i Goti, Gregorio di Tours per i Franchi, Isidoro per i Visigoti e come farà Paolo Diacono per i Longobardi.
La novità è che degli Angli, Beda scrive appunto la storia "ecclesiastica", cioè religiosa. Il senso della storia degli Angli è dunque nel loro farsi cristiani. Il prima è solo un antefatto cronologico, ineliminabile ma quasi da sorvolare, tant'è che della cultura e della mitologia pagane della sua gente nulla è riportato da Beda. Al contrario, Paolo Diacono, all'indomani della sconfitta dei Longobardi a opera dei Franchi, troverà proprio nel passato ancestrale l'energica promessa di avvenire del suo popolo, capace di irrompere luminoso nella storia provenendo dalle lunghe notti scandinave.
Il destino di conversione degli Angli è invece tutto nella leggendaria esclamazione "Angeli, non Angli!" dovuta al futuro Papa Gregorio Magno - personaggio centrale del primo libro dell'Historia ecclesiastica gentis Anglorum - quando vide degli splendidi schiavi inglesi nel Foro di Roma. Diamo una scorsa all'opera. Nella lettera prefatoria al re Ceolwulf, Beda dichiara le sue fonti: la principale è il venerando e dottissimo Albino, che si formò nella famosa scuola di Canterbury fondata dai grandi Teodoro e Adriano, i missionari inviati nel settimo secolo da Papa Vitaliano; al contributo di Albino si affiancano opere di scrittori precedenti e attendibili testimonianze orali dei fedeli delle varie regioni dell'isola.
L'opera si apre quindi classicamente con una accurata panoramica geografica della Britannia e dell'Irlanda e una rapida scheda antropologica sui loro primi abitatori, i Britanni, i Pitti, gli Scoti.
Quindi siamo già al primo dei cinque grandi sbarchi che secondo il reverendo inglese Arthur P. Stanley (1854) fecero la storia dell'isola, quello di Giulio Cesare che, scrive Stanley "per primo ci rivelò al mondo civilizzato, e rivelò il mondo civilizzato a noi" (Fabrizio Conti, "Studi Romani", 53, 2005, p. 460). Diciamo subito che degli altri quattro sbarchi elencati da Stanley due sono presenti e fondamentali nell'opera di Beda: quello dei fratelli Hengist e Horsa, che condussero gli Angli sull'isola, e quello di Agostino, il monaco inviato da Papa Gregorio Magno a Canterbury per evangelizzare l'isola - gli ultimi due, per completezza di citazione, sono quello del 1066 del normanno Guglielmo il Conquistatore e infine quello dell'olandese Guglielmo iii, re d'Inghilterra dal 1689 al 1702.
Il racconto di Beda procede serrato, conciso, mai sbrigativo. Le sorti della Britannia seguono quelle del continente, e così dopo la cristianizzazione dei Britanni a opera del re Lucio, si avvicendano le persecuzioni di Diocleziano e poi la follia ariana. Costretti a difendersi dalle continue scorrerie di Pitti e Scoti, i Britanni chiamano in aiuto i Romani, che costruiscono il vallo; dopo una memorabile carestia segue un'abbondanza di raccolti che porta però agiatezza, lassismo e una conseguente peste punitiva: i Britanni non riescono più ad opporsi ai nemici e così il re Vortigern nel 449 invoca gli Angli, che arrivano insieme a Iuti e Sassoni.
Ben presto i nuovi venuti da amici si trasformano in nemici e i Britanni, al seguito del re Ambrogio, li affrontano e li sconfiggono. Nel mezzo di questa vicenda di stridente integrazione interviene Germano, vescovo di Auxerre, il quale con l'aiuto divino riesce a debellare l'eresia pelagiana, che però rinasce. E il caos dei Britanni si moltiplica anche per via di sanguinose lotte civili. La storia è pronta per lo snodo decisivo, e a partire da questo momento, fino alla fine del primo libro (capitoli XXIII-XXXIII) entra in scena, con dettagliato racconto, Papa Gregorio Magno promotore della prima missione evangelizzatrice presso gli Angli, affidata al monaco Agostino: al centro di questa sezione "gregoriana" sta il lungo capitolo ventisettesimo, costituito da un fitto dialogo in cui Agostino chiede istruzioni al Papa su urgenti questioni di vita cristiana, relative tanto ai vescovi e ai chierici quanto ai fedeli: si tratta in realtà della riproduzione, all'interno dell'Historia ecclesiastica gentis Anglorum, del Libellus responsionum di Gregorio Magno, un opuscolo autentico che aveva una sua circolazione autonoma ed era già noto a Beda nel 720-725.
In quel libretto erano raccolte le risposte di Papa Gregorio Magno alle domande di Agostino, riferite al Pontefice - a Roma - dai monaci Lorenzo e Pietro. È un intermezzo di grande interesse, che apre su concreti problemi di fede, di liturgia, di diritto, di amministrazione ecclesiastica, di comportamento quotidiano, e a leggerlo sembra davvero di sentir riecheggiare quelle due voci così intente a impiantare il cristianesimo - con il corredo di dubbi, quesiti e tabù derivati dalla religione giudaica - nella periferia dell'estremo nord del vecchio impero.
Leggiamo alcune domande incalzanti rivolte da Agostino al Pontefice (I, XXVII, 18): "Domanda di Agostino: Una donna incinta può essere battezzata? Dopo quanto tempo una puerpera può entrare in chiesa? Dopo quanti giorni il neonato può ricevere il sacramento del battesimo, onde evitare che sopravvenga la morte? Dopo quanto tempo il marito può unirsi carnalmente alla puerpera? Se è nella fase mestruale, una donna può entrare in chiesa e ricevere la comunione? Se un uomo si unisce alla moglie, può entrare in chiesa prima di purificarsi con l'acqua, e anche accostarsi al sacramento della comunione? Tutto questo è necessario far sapere al popolo degli Angli, che è ancora ignorante!". A ciascuna di queste domande Gregorio Magno risponde con serena, dispiegata autorevolezza.
Il capitolo conclusivo, il trentatreesimo, chiude il primo libro sulla vittoria ottenuta dal re di Northumbria, Æthelfrith sugli Scoti, definitivamente cacciati dai territori degli Angli, a preparare un futuro radioso: "Da allora e fino ai nostri giorni nessun re degli Scoti di Britannia ha più osato scendere in battaglia contro il popolo degli Angli". Il secondo libro si apre con la morte di Gregorio Magno e prosegue con il racconto delle controversie religiose - o meglio dei tentennamenti di un cristianesimo ancora così vacillante al punto da non impedire per esempio il ritorno all'idolatria - che agitano l'isola. Articolato è quindi il resoconto dei pressanti tentativi evangelizzatori organizzati da Papa Bonifacio v durante il regno di Edwin, tra i quali oltre a due lunghe lettere di incitamento alla fede inviate dal Papa a Edwin e a sua moglie Æthelburg, si conta anche l'efficace operato di Paolino, ordinato vescovo nel 625.
In seguito a una visione celeste colma di speranza avuta durante una notte passata in preda all'angoscia a causa dei destini del suo regno, il re Edwin è sospinto verso la fede; la vittoria contro un minaccioso nemico gli dimostra la veridicità della visione, e così Edwin stabilisce di aderire alla fede di Cristo e viene battezzato da Paolino.
Famosa è la pagina in cui Beda rievoca l'assemblea dei maggiorenti durante la quale Edwin decide la conversione, e per come il racconto vi trascolora dall'esposizione di motivazioni utilitaristiche in fascinazione di immagine poetica, merita di essere letta (II, XIII): "Con l'approvazione di Paolino il re fece quanto aveva detto: riunì i suoi saggi e chiese personalmente a ognuno cosa pensasse di quella religione fino ad allora sconosciuta e del nuovo culto che si andava predicando. Rispose Coifi, il primo dei suoi sacerdoti: "Giudica tu, mio sovrano, il valore della religione che ci viene oggi predicata. Per parte mia, posso assicurare per esperienza, senza tema di smentita, che la religione che abbiamo seguito finora non ha alcun potere o utilità. Nessuno dei tuoi sudditi ha profuso maggiore impegno di me nel venerare i nostri dèi; eppure ci sono molti che ricevono da te maggiori benefici e più alti onori di quanti ne ricevo io, e che hanno maggior fortuna in tutto quello che progettano di fare o di ottenere. Se questi dèi valessero qualcosa, favorirebbero piuttosto me, che mi sono maggiormente impegnato a servirli. In conclusione, se questa nuova religione che ci viene ora predicata sembra al tuo attento esame migliore e più potente, accogliamola subito senza esitazioni". In seguito si convertono anche gli Angli orientali, e si intensificano i rapporti con i pontefici Onorio e Giovanni. Con l'uccisione di Edwin nella battaglia di Hatfield e il ritorno di Paolino nel Kent si conclude il secondo libro. La storia degli Angli raccontata da Beda è insomma la storia di una disponibilità, quella di un popolo germanico a farsi cristiano: "Beda ha dato la sua interpretazione della "barbarie" anglosassone e ha scritto il più bell'epitaffio sul passato pagano del suo popolo (...) Beda sorprende i suoi protagonisti pagani non nell'atto di invocare un dio più forte o di richiamarsi alla morale dei padri ma nel lungo atto di essere disponibili (...) E allora il tono dell'Historia ecclesastica si spiega globalmente nelle sue paci, miracoli, conversioni, serene attese per una certezza e una speranza la cui perennità va oltre il dogma perché appartiene forse alla natura stessa degli uomini" (Gustavo Vinay, Alto Medioevo latino, Napoli 2003, pp. 103-104).
La messa a fuoco sull'aspetto religioso della storia non impedisce a Beda di osservare con lucidità anche le vicende politiche. Già questi primi due libri dell'Historia ecclesastica gentis Anglorum sono infatti bastevoli a cogliere un'intuizione, quasi una profezia dello storico, che vede concorrere alla formazione di un'unica nazione tutti gli abitanti dell'isola: i Britanni, i Pitti e gli Scoti, che erano già lì, e gli invasori germanici, gli Angli, gli Iuti e i Sassoni, i quali tutti, sebbene divisi da inimicizie e guerre, saranno comunque uniti nella fede cristiana. Beda è in certa misura dunque l'antefatto di quell'unificazione culturale che sarebbe stata realizzata da Alfredo il Grande nella seconda metà del nono secolo.
Nel secondo volume troveremo altre pagine indimenticabili, come quelle in cui Beda riporta i racconti delle visioni ultraterrene che colpiranno Borges o quella preziosa e celebre in cui lo storico avvia di fatto la storia letteraria anglosassone traducendo un memorabile inno inglese di Cædmon - seconda metà del settimo secolo - un umile e timido lavorante della fattoria del monastero di Whitby - narra Beda - che ricevette all'improvviso, dall'alto, il dono di diventare ispirato ed estemporaneo poeta religioso.
È ormai tempo di chiudere, e in attesa di poter leggere l'intera Historia ecclesiastica gentis Anglorum, ascoltiamo le parole con cui Beda, a sigillare la lettera prefatoria, chiede spirituale ricompensa della sua fatica ai lettori del suo libro, lontani e posteri, dunque anche a noi: "Infine, scongiuro tutti gli uomini del nostro popolo cui giungerà questa Storia, perché la ascolteranno o la leggeranno, che si ricordino di intercedere sempre presso la clemenza celeste per le mie debolezze, della mente e del corpo. Essi mi ripaghino, ciascuno nella loro regione, con questa ricompensa: come io ho posto attenzione a scrivere, per ogni regione e ogni località insigne, ciò che mi è parso più degno di menzione e più gradito agli abitanti, così possa io trovare presso tutti loro il frutto della loro devota intercessione".

(©L'Osservatore Romano - 1 agosto 2008)

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