24 agosto 2008

"Per chi suona la campana del Papa": il commento di Enzo Bianchi alle parole del Papa contro il razzismo (La Stampa)


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Per chi suona la campana del Papa

ENZO BIANCHI

Quando un appello particolarmente accorato si leva da persone cui è riconosciuta un’autorevolezza di respiro universale, due tentazioni contrapposte si presentano ai destinatari immediati del messaggio e, più in generale, a chiunque lo ascolti.

Da un lato la reazione anestetica di chi si chiama fuori con la convinzione, o più facilmente con l’opportunismo, di non essere tra i destinatari dell’appello: la questione sollevata può essere davvero drammatica, ma «io non c’entro... si riferiva ad altri e, poi, cosa potrei mai fare?».

D’altro lato la tentazione di ridurre la portata universale del messaggio a uno strumento da usare contro gli avversari nel proprio angusto orticello, cedendo a un meschino provincialismo partigiano: è il classico «tirare per la giacca» chi gode di un’autorità morale o istituzionale.

Questo purtroppo ha l’unico effetto di svilire la portata dell’appello: se infatti si riduce un intervento di alto valore etico a semplice opinione di parte non solo se ne mina l’efficacia pratica, ma si rischia di screditare la fonte stessa anche in prospettiva futura.

Un esempio significativo lo abbiamo avuto nei giorni scorsi in Italia, a seguito del discorso di papa Benedetto XVI sul «superamento del razzismo», «una delle grandi conquiste dell’umanità», e sul fatto che di questo male endemico «si registrano in diversi Paesi nuove manifestazioni preoccupanti».

Nel nostro Paese non sono bastati trent’anni di presenza di un non italiano sulla sede del successore di Pietro a vescovo di Roma per far prendere consapevolezza che quando il Papa sente il dovere di lanciare un appello su un tema che riguarda «scelte rispettose della dignità di ogni essere umano» non lo fa guardando semplicemente al di là del Tevere, come fosse affetto da miopia prospettica.

E questo respiro universale si nutre di due elementi, connessi tra loro anche se uno riveste una connotazione più geopolitica e l’altro una dimensione più rivelativa e spirituale.
Innanzitutto, la diffusione del cattolicesimo in tutto il mondo fa sì che l’orizzonte che ha di fronte il Papa nel suo ministero di comunione abbraccia Paesi e realtà estremamente diversi, con problematiche sociali e pastorali variegate in cui si intrecciano attese e sofferenze che non conoscono frontiere. A questa sensibilità globale ma attenta al particolare offre un contributo fondamentale anche la rete di contatti con le singole Chiese locali: un tessuto vitale fatto non solo e non tanto di rappresentanze diplomatiche, ma di presenza sul terreno, di relazioni personali con vescovi e clero locale, missionari, religiose, laici impegnati giorno dopo giorno a rendere testimonianza a Gesù Cristo e al suo Vangelo nel concreto di un tessuto sociale, economico e politico preciso.
L’altro elemento universalistico, forse ancor più fondamentale, è costituito dall’essere il cristianesimo una fede che riguarda l’essere umano nella sua interezza e complessità, nella sua specificità e nelle sue relazioni: riguarda ogni uomo e tutto l’uomo. Al cristiano sta a cuore il bene profondo, il ben-essere della persona e della società, sta a cuore che venga difesa e salvaguardata l’immagine di Dio impressa in ogni creatura umana, che niente e nessuno attenti alla dignità cui ciascuno ha diritto per il solo fatto di essere venuto al mondo con un corpo e un’interiorità uniche e irripetibili.

È quella «universalità della missione della Chiesa, costituita da popoli di ogni razza e cultura» cui si riferiva domenica scorsa papa Benedetto XVI nel suo messaggio all’Angelus, una universalità dalla quale «proviene la grande responsabilità della comunità ecclesiale, chiamata a essere casa ospitale per tutti, segno e strumento di comunione per l’intera famiglia umana».

Non si tratta allora di scandagliare se ciò che ha spinto Benedetto XVI a metter in guardia contro il rinascere del razzismo siano state determinate politiche anti-immigratorie o episodi di disordini razziali o la discriminazione di minoranze etniche in questo o quel Paese. È molto più importante che ciascuno - quale che sia il posto che occupa nella società, e anche a prescindere dall’essere o no cristiano - si interroghi sul proprio atteggiamento mentale e sul conseguente comportamento concreto verso lo straniero, l’altro, il diverso, specie quando questi è in una situazione di maggior debolezza e vulnerabilità. In gioco non c’è infatti l’affermarsi di una dottrina particolare, né il successo di una parte politica su un’altra, ma la qualità della vita umana e della convivenza, la dignità di ogni persona, la vivibilità della nostra terra.
Di questo si fanno carico i pastori della Chiesa nel loro ministero e nella loro sollecitudine che sa dilatare lo sguardo oltre i confini dell’appartenenza a un determinato popolo, nazione, cultura o religione. Spetterà poi ai laici cristiani quotidianamente impegnati in campo sociale e politico cercare e trovare - nel dialogo e nel confronto dialettico con chi non condivide le stesse scelte di fede - le soluzioni più indicate per tradurre in gesti, progetti, legislazioni concrete il comune assillo per una vita comune nella giustizia e nella pace.

Nessuno, quindi, ha il diritto di chiamarsi fuori da questo esame approfondito sui moti del proprio cuore e sui comportamenti quotidiani nei confronti dei propri simili: se una voce come quella del Papa ha suonato la campana per allertarci sul pericolo di un ritorno del razzismo, non dobbiamo chiederci «per chi suona la campana?». La campana suona anche per noi, per ciascuno di noi.

© Copyright La Stampa, 24 agosto 2008 consultabile online anche qui.

1 commento:

Anonimo ha detto...

“... la tentazione di ridurre la portata universale del messaggio a uno strumento da usare contro gli avversari nel proprio angusto orticello, cedendo a un meschino provincialismo partigiano...”.

Credo si possa dire, cara Raffaella, che c’è modo e modo di esprimere – da cattolico credente – la propria vocazione “progressista”. A confronto con l’ignobile articolo di Giuseppe Campione, che sembra mettere la fede (e l’intelligenza) al servizio del progressismo, questo contributo di Enzo Bianchi (di cui per certi aspetti non condivido altre prese di posizione) dimostra come si possa porre l’istinto progressista al servizio della fede (e della ragione). Tanto da risultare convincente anche per chi (infischiandosene di tutti gli “ismi”), ascoltando le parole del Papa si sente “cattolico e basta”.