23 settembre 2008
Benedetto XVI-L’altare e i fratelli: "Un richiamo alla coerenza e alla giustizia" (Sir)
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BENEDETTO XVI - L’altare e i fratelli
Un richiamo alla coerenza e alla giustizia
Quando il 19 aprile del 2005 si affacciò dalla loggia centrale della basilica vaticana di San Pietro, Benedetto XVI, appena eletto Papa, si definì semplice, umile lavoratore nella vigna del Signore. Lo ricorda all’Angelus da Castelgandolfo; ricorda quel suo definirsi operaio, e cita il Vangelo di Matteo. Ricorda e spiega, la parabola, innanzitutto, e quel padrone che a diverse ore del giorno chiama operai a lavorare nella vigna e la sera a tutti la stessa paga, un denaro.
Poco sindacale, qualcuno potrebbe osservare, come sistema. Ma come sappiamo le cose del Signore non usano il nostro metro. La paga non è importante come cifra. Conta, e molto, perché rappresenta il dono che Dio fa a tutti: la vita eterna. E allora già essere chiamati, e non importa se ultimi, è giusta ricompensa: “anzi – dice il Papa – proprio quelli che sono considerati ‘ultimi’, se lo accettano, diventano ‘primi’, mentre i ‘primi’ possono rischiare di finire ‘ultimi’. Un primo messaggio di questa parabola sta nel fatto stesso che il padrone non tollera, per così dire, la disoccupazione: vuole che tutti siano impegnati nella sua vigna”. Ecco, allora, l’esserci che è già ricompensa; collaborare alla sua opera è premio inestimabile “che ripaga da ogni fatica”. Lo capisce chi ama il Signore e il suo regno, ricorda il Papa: “chi invece lavora unicamente per la paga non si accorgerà mai del valore di questo inestimabile tesoro”. Ricorda, dunque, Matteo. Anche lui, benché pubblicano e dunque considerato pubblico peccatore, escluso cioè dalla vigna del Signore, è stato chiamato e ha risposto subito. Dio non esclude; così quando Gesù passa accanto al banco delle imposte dice a Matteo: seguimi. Matteo da “ultimo” diventa in un certo senso “primo”. La parabola trova così una immagine suggestiva che spiega ancor più chiaramente il senso di quel compenso uguale per chi si trova a lavorare nella vigna. E questo perché la logica di Dio “per nostra fortuna, è diversa da quella del mondo. I miei pensieri non sono i vostri pensieri – dice il Signore per bocca del profeta Isaia – le vostre vie non sono le mie vie”. E dopo Matteo, Paolo. Anche lui un “ultimo”, persecutore della chiesa, che diventa l’apostolo delle genti, rispondendo alla chiamata del Signore; dunque diventa un “primo”.
Seguimi! Una parola che più volte abbiamo ascoltato; che per ben sei volte l’allora cardinale Joseph Ratzinger pronuncia nel tracciare un ricordo del suo predecessore, Giovanni Paolo II, durante la celebrazione delle esequie, sul sagrato della basilica di San Pietro. Un “seguimi” che è stato risposta piena al Signore; affidarsi, anzi abbandonarsi, alla sua volontà. Mettersi al servizio del Signore significa non solo riconoscere che il dono più grande è l’essere chiamati, ma chiede anche di essere attenti all’altro, saper accogliere, e rispondere alle attese e alle speranze di chi oggi è meno fortunato. E questo ci viene ricordato ogni volta che ci accostiamo all’altare per la celebrazione eucaristica: dobbiamo aprirci al perdono e alla riconciliazione fraterna, ricorda a tutti Benedetto XVI in occasione della dedicazione dell’altare della cattedrale di Albano. Ma anche pronti a quell’impegno che coniuga insieme solidarietà e fraternità. Che devono prevalere, dice ancora il Papa, su ogni altra ragione quando intere popolazioni sono colpite da disastri come i violenti cicloni che si sono abbattuti su alcuni paesi caraibici.
Solidarietà significa aiuti umanitari che devono giungere tempestivamente, soccorsi che devono raggiungere le zone maggiormente danneggiate.
E forse non è un caso che il Papa si rivolga proprio ai leaders del mondo che il 25 settembre si ritroveranno a New york, nel Palazzo di vetro delle Nazioni unite per una sessione tesa a verificare gli obiettivi che nella Dichiarazione del Millennio le nazioni avevano stabilito di raggiungere. Così Benedetto XVI rinnova il suo invito “affinché si prendano e si applichino con coraggio le misure necessarie per sradicare la povertà estrema, la fame, l’ignoranza e il flagello delle pandemie, che colpiscono soprattutto i più vulnerabili. Un tale impegno, pur esigendo in questi momenti di difficoltà economiche mondiali particolari sacrifici, non mancherà di produrre importanti benefici sia per lo sviluppo delle Nazioni che hanno bisogno di aiuto dall’estero sia per la pace e il benessere dell’intero pianeta”.
Tornano alla mente le parole pronunciate in occasione della sua visita all’Onu, lo scorso 18 aprile, e nelle quali affermana “come il rispetto dei diritti e le garanzie che ne conseguono siano misure del bene comune che servono a valutare il rapporto fra giustizia ed ingiustizia, sviluppo e povertà, sicurezza e conflitto”. E così la promozione dei diritti umani “rimane la strategia più efficace per eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali, come pure per un aumento della sicurezza. Certo, le vittime degli stenti e della disperazione, la cui dignità umana viene violata impunemente, divengono facile preda del richiamo alla violenza e possono diventare in prima persona violatrici della pace”.
Ancora, Papa Benedetto ricordava ai leader del mondo che “questioni di sicurezza, obiettivi di sviluppo, riduzione delle ineguaglianze locali e globali, protezione dell’ambiente, delle risorse e del clima, richiedono che tutti i responsabili internazionali agiscano congiuntamente e dimostrino una prontezza ad operare in buona fede, nel rispetto della legge e nella promozione della solidarietà nei confronti delle regioni più deboli del pianeta”. Il pensiero del Papa era rivolto all’Africa e a altre parti del mondo, che, diceva, “rimangono ai margini di un autentico sviluppo integrale, e sono perciò a rischio di sperimentare solo gli effetti negativi della globalizzazione”.
Allora quel seguimi vissuto nella sua pienezza significa anche riconoscere che c’è una “correlazione fra diritti e doveri, con cui ogni persona è chiamata ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte, fatte in conseguenza dell’entrata in rapporto con gli altri”. Come dire, seguire Cristo non è soltanto accogliere e rispettare alcune regole, quasi fosse un contratto stipulato tra due persone, ma un trasformare il proprio modo di essere: Matteo il pubblicano, l’esattore che lascia tutto; Paolo il persecutore della chiesa che diventa l’apostolo delle genti.
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