3 luglio 2007

Lettera del Papa alla Cina: due articoli de "Il Foglio"


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Roma. Sabato è stata finalmente pubblicata l'attesa lettera di Benedetto XVI alla chiesa cattolica nella Repubblica popolare cinese. Si tratta di un testo lungo in cui la spinosa situazione dei cattolici dell'ex Celeste impero viene trattata all'insegna del binomio "verità e amore". Verità nei confronti delle autorità civili, amore verso quegli ecclesiastici che sono sembrati a volte troppo collaborativi col regime di Pechino.

Papa Benedetto XVI esprime la sua intensa gioia per la fedeltà dei cattolici cinesi a Cristo e alla chiesa, "a volte anche a prezzo di gravi sofferenze". Il Pontefice quindi invia un messaggio chiaro alle autorità civili: la Santa Sede riafferma la disponibilità al dialogo e sottolinea di non voler interferire negli affari interni delle comunità politiche. Allo stesso tempo, però, Benedetto XVI ribadisce la posizione del Vaticano sulla libertà religiosa. "La soluzione dei problemi esistenti - scrive il pontefice - non può essere perseguita attraverso un permanente conflitto con le legittime autorità civili; nello stesso tempo, però, non è accettabile un'arrendevolezza alle medesime, quando esse interferiscano indebitamente in materie che riguardano la fede e la disciplina della chiesa".

Venendo agli aspetti più specificamente infraecclesiali, il Papa si sofferma sulla "situazione di forti contrasti che vede coinvolti fedeli laici e pastori" cinesi. Contrasti che vedono a volte contrapporsi le comunità clandestine, guidate da vescovi non riconosciuti dalle autorità civili, a quelle ufficiali, guidate da presuli riconosciuti dal regime. Il documento pontificio, come ha spiegato la Radiovaticana, sferra un duro attacco all'Associazione patriottica, che, "è un organismo voluto dallo Stato, estraneo allo struttura della chiesa, con la pretesa di porsi sopra i vescovi stessi e di guidare la comunità ecclesiale. Le sue dichiarate finalità di attuare i principi d'indipendenza e autonomia, autogestione e amministrazione della chiesa sono dunque inconciliabili con la dottrina cattolica, ed hanno, inoltre, `causato divisioni sia tra il clero sia tra i fedeli".

La lettera ribadisce inoltre che la nomina dei presuli spetta al Papa "a garanzia dell'unità della chiesa" e che un'ordinazione illegittima rappresenta una "dolorosa ferita alla comunione ecclesiale". Il documento auspica il raggiungimento di un accordo con il governo su questo delicatissimo tema. E' noto infatti che negli ultimi due anni i rapporti tra la Santa Sede e Pechino si sono deteriorati proprio per la consacrazione di vescovi senza il dovuto mandato pontificio.

Il Papa, infine, considerando alcuni positivi sviluppi della situazione della chiesa in Cina, comunica la revoca delle facoltà e direttive di ordine pastorale concesse in tempi particolarmente difficili per la chiesa. In pratica viene definitivamente stabilito che non ci possono essere consacrazioni di vescovi clandestini senza il permesso del Vaticano e che non hanno più valore le direttive speciali del 1988 che proibivano la comunione sacra mentale con i preti e i vescovi ufficiali. Questo provvedimento è dovuto al fatto che nel frattempo la quasi totalità di questi vescovi, validi ma illegittimi, hanno chiesto e ottenuto di essere in comunione con la Santa Sede.

Da Pechino finora sono due le risposte alla lettera. Fredda quella del portavoce del ministero degli Esteri, Qin Gang, il quale - in un comunicato rilasciato sabato - ha ribadito le condizioni di Pechino per un miglioramento delle relazioni (rompere ogni rapporto diplomatico con Taiwan e nessuna interferenza interna anche nelle nomine episcopali) e ha invitato il Vaticano a non creare "nuovi ostacoli". Apparentemente più aperta la dichiarazione rilasciata ieri alla France Presse dal leader dell'Associazione patriottica, il laico Antonio Liu Bainian, il quale ha apprezzato le "buone intenzioni" del Papa e il "tono nuovo" della missiva, ma ha ribadito che in attesa di accordi tra Santa Sede e governo "noi continueremo a nominare i vescovi".

© Copyright Il Foglio, 3 luglio 2007


A Hong Kong il cardinale Zen guida il movimento per la democrazia

C’era anche il vescovo di Hong Kong, cardinale Joseph Zen Ze-kiun, alla Marcia per la democrazia che domenica ha portato per le strade dell’ex colonia britannica oltre 68 mila persone. L’attesa lettera di Benedetto XVI “ai vescovi, ai presbiteri, alle persone consacrate e ai fedeli laici della chiesa cattolica nella Repubblica popolare cinese” diffusa sabato era stata il prologo della manifestazione, quest’anno carica di nuovi significati. Domenica, poche ore prima, il presidente cinese, Hu Jintao, e il primo ministro, Wen Jiabao, avevano partecipato ai festeggiamenti ufficiali per il decennale del “ripristino della sovranità” di Pechino su Hong Kong, dopo la rinuncia al territorio da parte del governo britannico.
La Marcia è iniziata subito dopo che i vertici politici cinesi sono ripartiti alla volta della capitale. Per le strade è scesa la “vera” Hong Kong, quella delusa per la democrazia che dopo dieci anni di dipendenza da Pechino ancora non arriva. Assieme al cardinale Zen hanno sfilato altre importanti personalità della vita politica ed economica della città, da Anson Chan, ex segretaria generale del governo, al sindacalista democratico Martin Lee Chu-ming, fino a Jimmy Lai Chee-ying, imprenditore cattolico e presidente del gruppo Next Media. Tutti a chiedere, guidati dal vescovo, il rispetto dei diritti umani e la garanzia delle libertà civili, come quella religiosa e quella politica, che dovrebbe concretizzarsi con la concessione del suffragio universale. L’elezione diretta del governatore è la principale “promessa” fatta a suo tempo dal governo centrale e prevista dalla Basic Law, la “costituzione speciale” che dopo il passaggio della sovranità da Londra a Pechino avrebbe dovuto tutelare i residenti garantendo loro la democrazia di cui godevano sotto i britannici.
Promessa non mantenuta: i sei milioni di abitanti dell’ex colonia non possono votare il loro rappresentante, che continua a essere scelto dal governo cinese. Come sottolineato recentemente dall’Economist, a marzo Donald Tsang è stato “rieletto” dalla “commissione elettorale” composta da 800 persone, ma si è trattato di un “voto farsa”, perché i membri della commissione vengono nominati direttamente da Pechino. In questo modo il Partito comunista può essere certo di avere un rappresentante politico “alleato”. La Basic Law che dovrebbe regolare la regione speciale di Hong Kong secondo il principio di “un paese, due sistemi”, prevedeva che dopo dieci anni, cioè nel 2007, tutti i cittadini sarebbero stati chiamati a eleggere il loro governatore.
Il cardinale Zen – che alla vigilia del 1° luglio aveva invitato i rappresentanti di tutte le religioni a manifestare – da anni si è fatto portavoce non soltanto della sempre più ristretta libertà confessionale che sta colpendo anche Hong Kong, ma anche difensore dei diritti civili dei suoi abitanti.
Ha più volte denunciato l’azione del governo di Pechino sul ricongiungimento familiare.
“Il governo ha ristretto il diritto di riunione delle famiglie, cioè il diritto dei figli di residenti di Hong Kong nati sul continente di vivere nell’ex colonia – riferisce l’agenzia di stampa cattolica Asianews – Si tratta di un diritto riconosciuto dalla Basic Law, ma il governo ottenne dal comitato permanente del Congresso del Popolo di dare un’interpretazione opposta della legge
e così di negare il diritto già riconosciuto anche dalla Corte suprema cinese”.
Dal 2003 la Marcia per la democrazia è diventata un appuntamento fisso per gli abitanti di Hong Kong. La manifestazione è nata come segno di protesta della politica fallimentare
del suo primo governatore, Tung Chee-hwa, un uomo d’affari di Shanghai voluto da Pechino per guidare il territorio e che lo stesso governo centrale ha poi destituito nel 2005. Domenica Donald Tsang ha giurato, davanti al presidente Jintao e poco prima della Marcia, per il suo terzo mandato, e si è impegnato a “migliorare le condizioni di vita della popolazione e sviluppare
gradualmente la democrazia”. Le stesse promesse fatte dieci anni fa.
Simona Verrazzo

© Copyright Il Foglio, 3 luglio 2007

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