12 settembre 2007

Il Papa a Loreto ha dimostrato che la Chiesa può essere sia madre sia maestra


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Loreto, la Chiesa in Italia ed il problema educativo

Intervista a monsignor Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro

ROMA, martedì, 11 settembre 2007 (ZENIT.org).- Non si è ancora spenta l’eco dell’incontro dei 400.000 giovani con il Papa, tenutosi agli inizi di settembre a Loreto, e molte sono le riflessioni che stanno emergendo nell’ambito della Chiesa italiana.

In un mondo in cui sembra difficile coinvolgere i giovani in progetti impegnativi, la partecipazione vasta e sentita di Loreto è stata avvertita come un segno che si oppone a nichilismo ed edonismo.

Secondo monsignor Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro, le giornate di Loreno “hanno rinnovato la necessità di una Chiesa che, per essere veramente madre, deve essere educatrice”.
Il presule ha inoltre aggiunto che la sfida che interpella oggi la Chiesa è quella di riuscire ad accompagnare quotidianamente i giovani nell'esperienza di Cristo come sola risposta alla domanda di senso.

Lei ha partecipato all’Agorà, l’incontro dei giovani a Loreto. Che cosa può dirci in proposito?

Monsignor Negri: L’incontro dei giovani con il Papa a Loreto è stato certamente un grande evento per tutti coloro che vi hanno partecipato. È stato un evento perché, come mi ha insegnato don Giussani tanti anni fa, evento è qualcosa che tocca il cuore delle persone, o meglio è qualcosa che disvela il volto vero del cuore. Indubbiamente Benedetto XVI ha aiutato queste centinaia di migliaia di giovani ad interessarsi del proprio cuore, inteso come domanda di senso, di verità, di bellezza, di giustizia, come desiderio di amore, di costruttività nella vita. Guardando quei giovani tutti protesi con lo sguardo e con il corpo verso il Papa si vedeva che erano un unico soggetto vivente, come un unico uomo che stesse di fronte al testimone privilegiato di Cristo.
Il Papa li ha aiutati a disvelare il loro cuore e ha portato di fronte a questo cuore la grande ed unica proposta di salvezza che è legata alla presenza di Cristo. Questo è stato l’evento. Il contesto può anche non avere del tutto facilitato questo evento, come alcune parti del concerto della sera, come certe enfatizzazioni sul Creato. Comunque, è stato l’incontro con Cristo oggi. Anche gli adulti, anche coloro che sono avvezzi a queste cose, sono stati positivamente sconvolti. Nel settore dei Vescovi durante la concelebrazione c’era un clima di letizia giovanile, come se anche tutti noi fossimo stati contagiati da questo evento. Il Papa ha incontrato i giovani. Gesù Cristo oggi ha incontrato i giovani. È un evento di proporzioni straordinarie.

Mi sono chiesto durante tutta la concelebrazione che ne sarebbe stato di questo evento per la vita di ciascun giovane, parte di quel popolo. Non era, infatti, una massa, non era la massa delle manifestazioni canore, non era la massa degli stadi, era un popolo dove paradossalmente si sarebbe riusciti ad individuare le caratteristiche singolari di ciascuno.

È indubbio che ci sono state migliaia di giovani segnati positivamente. Alcuni dei trecentocinquanta giovani che la nostra diocesi, per quanto piccola, ha saputo ospitare grazie alla generosità delle famiglie, hanno fatto riferimento al cambiamento di vita che si era operato in loro durante la Giornata della Gioventù di Parigi, piuttosto che di Denver, piuttosto che di Czestokowa.
È un evento che segna. Mi chiedo, però, come questo incontro può diventare cammino nel quotidiano, diventare approfondimento della coscienza, maturazione del cuore, disponibilità a fare di questo incontro con Cristo il fondamento della propria esistenza e il respiro della propria vita quotidiana. È una domanda grave che soprattutto i genitori, gli educatori, i sacerdoti, i Vescovi, le persone impegnate quotidianamente nella vita delle parrocchie e dei gruppi non possono non porsi.
Anche ciò che si è vissuto come incontro si potrebbe ridurre progressivamente al ruolo di un fatto commovente, che lentamente il tempo che passa ridurrà a una cosa fra le altre. Questo sarebbe accaduto agli stessi apostoli, come è stato per moltissimi di quelli che hanno incontrato Gesù Cristo. Per molti non fu che un incontro della cui esistenza forse venti, trenta, quarant’anni dopo avrebbero dubitato, come molti di noi si sono dimenticati gli incontri fatti nella fanciullezza. Per alcuni, invece, fu l’incontro della vita. Tornando a casa mi chiedevo come aiutare questi giovani a far sì che questo incontro diventi l’incontro della vita.

L’evento di Loreto fa seguito al IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, segnato dal discorso di Benedetto XVI. Quali sono gli elementi di continuità?

Monsignor Negri: Il discorso che il Papa ha pronunciato a Verona durante il Convegno della Chiesa Italiana ha avuto un impatto nella vita della Chiesa Universale molto più ampio di quanto immediatamente non si potesse pensare. Nel viaggio in America latina in luglio ho potuto constatare che nelle fasce più sensibili e intelligenti dell’episcopato latino-americano il discorso di Verona è stato colto come un discorso straordinario.
È straordinario perché è stato un discorso educativo, o meglio perché, dopo aver rigorosamente richiamato la Chiesa italiana alla assoluta responsabilità di una nuova missione, di una nuova presenza della Chiesa come popolo di Dio nel contesto della vita sociale, culturale e politica, il Papa ha sottolineato che questa rinnovata presenza dipende dalla capacità educativa della Chiesa soprattutto nei confronti delle nuove generazioni.
Questi, come ha detto il Papa a Loreto, saranno i protagonisti della missione del terzo millennio, e quindi i possibili collaboratori della nascita di una società diversa da questa un po’ infame in cui viviamo quotidianamente. La Chiesa deve recuperare la sua capacità di maternità, la sua capacità di educazione.
Questo è certamente un fatto affettivo, ma prima e fondamentalmente è un fatto culturale. Occorre che la Chiesa in tutte le sue articolazioni, quali la famiglia, la parrocchia, i gruppi, i movimenti, le associazioni, si renda conto che deve aiutare i giovani a svolgere nel quotidiano ciò che don Giussani chiamava una verifica. L’educazione è la verifica che l’avvenimento di Cristo e la vita, che Egli rende possibile, rispondono più profondamente alle esigenze dell’uomo che non le diverse formulazioni ideologiche, religiose, sentimentali, filosofiche, sociologiche.
La Chiesa deve aiutare i giovani a capire che Cristo è la verità, perciò è il criterio con cui percepire tutta la propria vita e tutti i propri valori; aiutare a capire che Cristo è la carità, cioè la dimensione autentica del cuore dell’uomo, il criterio vero di rapporti con gli altri uomini; aiutare a capire che Cristo apre la vita a una dimensione di testimonianza che deve essere spinta fino agli estremi confini del mondo.
Bisogna che il quotidiano faccia fare questa esperienza di corrispondenza vitale fra la fede e la vita. Se non aiutiamo i giovani a fare questa esperienza, noi ci sottraiamo al nostro compito missionario e, storicamente e umanamente parlando, colpiamo al cuore la nostra identità ecclesiale. Questo era già stato detto da Giovanni XXIII nella Mater et Magistra, in cui aveva affermato che la tragedia della Chiesa moderna è la separazione astratta fra fede e vita, fra fede e impegno sociale, culturale e politico.
Dunque le giornate a Loreto hanno rinnovato la necessità di una Chiesa che, per essere veramente madre, deve essere educatrice, una Chiesa che accompagni i giovani a fare quotidianamente esperienza che Cristo è il fatto vincente della vita personale e della storia umana e sociale.

Quali prospettive, ma soprattutto quali compiti vede lei per il nostro cammino futuro? Quali sono le luci e le ombre?

Monsignor Negri: Allora dove sta la difficoltà per la quale noi Vescovi e preti non ci tiriamo dietro le folle che riesce a tirarsi dietro ora Benedetto XVI e prima Giovanni Paolo II? Quando tutto questo vasto mondo che segue il Papa ritorna nelle singole parrocchie o nei movimenti diventa numericamente quasi irrilevante. Dove sta la difficoltà per cui tanta vita ecclesiale invece di essere il luogo dell’educazione reale alla vita di fede, cioè alla pienezza dell’umanità, finisce per essere una realtà a carattere associativo che si colora di caratteristiche psicoaffettive?
Quanti gruppi sono una psicoanalisi “fai da te” o si colorano di caratteristiche moralistiche o di impegno solidaristico, ma non hanno l’integralità della proposta cristiana! Questi gruppi finiscono per essere delle sottolineature tendenzialmente esaurienti, perciò diseducative, perché soltanto una proposta integrale educa, mentre un particolare assolutizzato è diseducativo. Qui si apre il discorso sulla adeguatezza del mondo ecclesiastico italiano a questo grande compito educativo.
Evidentemente non è un problema di coerenza morale e neanche di intenzionalità, è un problema culturale e metodologico. L’ecclesiasticità rischia di frenare questo impeto educativo. Il mondo ecclesiastico fa fatica ad assumersi un vero compito educativo e quindi a vivere fino in fondo questa responsabilità. Permangono nella ecclesiasticità italiana le fatiche di una formazione teologica che mostra difficoltà gravi a cui in qualche modo la Conferenza Episcopale Italiana ha risposto con la promulgazione di un documento sulla formazione dei candidati al sacerdozio.
Nella stagione della mia formazione teologica nella grande scuola di Venegono, che negli anni Settanta raggiungeva forse la sua massima espressione, la teologia era il tentativo di arrivare alla coscienza critica e sistematica dell’esperienza cristiana. Il fattore promozionale di questo movimento stava in quella sintesi preziosa di Parola di Dio, di Tradizione e di Magistero che metteva in moto la domanda teologica. Poiché la sintesi di Parola, Tradizione e Magistero era dentro al popolo cristiano, la teologia si faceva lì dentro e aveva come preoccupazione quella di far crescere la coscienza della fede dell’intero popolo.
Da un certo punto in poi anche nel campo della formazione teologica italiana è passato un principio errato, quello che nel fare teologia il principio promozionale debba essere o astrattamente la Parola, nella sua riduzione di parola scritta, o la cultura mondana. Così fattore promozionale è diventata da una parte l’esegesi, che si pretende oggettiva e pura, invece, come ha dimostrato Benedetto XVI, è subalterna ad opzioni di carattere filosofico, antropologico e sociale, dall’altra parte le parole d’ordine della cultura mondana: l’ermeneutica, la lotta per la giustizia sociale, il progresso scientifico-tecnologico, il pensiero debole, ecc.
Una teologia che si fa sotto la spinta esclusiva di un’esegesi la quale corre il gravissimo rischio di ridurre la fede ad analisi di testi, oppure una teologia che è preoccupata di essere accolta dall’ideologia mondana, non può diventare un fatto entusiasmante, non può comunicare ai giovani l’entusiasmo critico della fede.
La questione della ecclesiasticità italiana è fondamentalmente una questione culturale. In questo senso la nostra Chiesa deve un grande debito di gratitudine al Cardinale Ruini, che soprattutto attraverso il progetto culturale della Chiesa italiana ha ridato all’intero popolo di Dio la coscienza della propria identità culturale. Occorre che questo movimento dell’intelligenza e del cuore verso una comprensione più profonda del mistero della fede sia il movimento del cuore dei pastori e dei preti. Su questo punto c’è moltissimo ancora da fare e moltissimo da chiedere al Signore.
L’ecclesiasticità può guidare la Chiesa come movimento educativo solo se il mondo ecclesiastico è composto di uomini che hanno una cultura nata dalla fede e proprio per questo sono capaci di educare e di portare i giovani e gli adulti a un confronto critico e sistematico con le altre culture. Diversamente noi non creiamo degli uomini capaci di dialogare, ma uomini che finiranno per essere subalterni alla cultura dominante.
Per terminare offro due brevi considerazioni. Mi pare che non siamo ancora usciti da quella terribile confidenza di Paolo VI a Jean Guitton: “Vedo affermarsi nella Chiesa un pensiero non cattolico e lo vedo diffondersi in un modo consistente. Può essere che ci siano giorni in cui questo pensiero non cattolico sia il più diffuso numericamente nella Chiesa, ma non sarà mai il modo di pensare della Chiesa”.
Non è ancora superata questa profonda e drammatica delineazione del problema che Paolo VI aveva tracciato, insieme alla certezza granitica che il modo di pensare non cattolico, anche se molto diffuso, non potrà mai ottenere avvallo e riconoscimento da chi guida la Chiesa. Mi pare che si possa uscire da questa situazione di crisi e assumerci la responsabilità che la storia ci dà soltanto seguendo effettivamente il Papa.
La seconda considerazione è che alcuni teologi ed esegeti dicono di essersi convertiti alla posizione del Papa, superando posizioni anche molto lontane. Spero che sia così, anche se fino ad ora non ho elementi per dire che siano state tutte conversioni adeguate e non interessate.

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