13 settembre 2007

Messa tridentina: il commento di Civilta' Cattolica


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MESSA IN LATINO: GESUITI FIDUCIOSI, UN FATTO STORICO

I gesuiti della Civilta' Cattolica difendono il motu proprio sulla messa in latino. La decisione del Papa, spiegano in una nota, rappresenta un fatto storico "da cui non potra' prescindere ne' lo studioso dei riti che si occupa del cammino della riforma liturgica, ne' il pastore o il semplice fedele che si preoccupano della verita' della celebrazioone". Sul motu proprio, rilevano, c'erano state anticipazioni giornalistiche che non hanno facilitato una corretta comprensione del testo, "disponendo gli uni a un'accettazione gioiosa, gli altri a un'opposizione dura". Per i gesuiti, entrambi questi atteggiamenti sono frutto di preconcetti, in quanto assunti prima di leggere il documento. "Adesso che lo conosciamo, lo vogliamo accogliere con animo grato e fiducioso, certi che lo spirito della liturgia da tutti ricercato riuscira' a comporre in unita' di vedute posizioni per il momento ancora distanti", afferma l'articolo firmato "La Civilta' Cattolica", che sara' pubblicato come editoriale sul prossimo numero e analizza approfonditamente il documento di Benedetto XVI. "Il Missale Romanum rinnovato da Paolo VI nel 1970 rimane la forma ordinaria - ricorda la rivista - mentre il 'Missale Romanum' del 1962 potra' essere usato come forma straordinaria in favore di gruppi di fedeli ancora legati all'uso antico, che ne facciano richiesta", ricorda tra l'altro la nota, sottolineando che "il Papa rassicura 'i fratelli nell'episcopato' sull'infondatezza dei timori che il provvedimento potrebbe suscitare".


PAPA/ 'CIVILTA' CATTOLICA' RICORDA: MESSA LATINO NON E' FOLKLORE
Domani entra in vigore il Motu proprio di Benedetto XVI

Città del Vaticano, 13 set. (Apcom) - Domani entra in vigore il Motu proprio con il quale il Papa ha voluto liberalizzare il messale preconciliare (la cosiddetta messa in latino) e il quindicinale dei gesuiti italiani 'Civiltà cattolica', in uscita sabato, dedica al tema un articolo con il quale ne ricorda i contenuti, fugando possibili equivoci.
Sottolineando che il provvedimento papale stabilisce che a chiedere la messa col rito antico sia un gruppo di fedeli tradizionalisti "stabilmente" ("continenter") presente nelle parrocchie, l'editoriale della rivista commenta: "La precisazione espressa dall'avverbio 'contienter' esclude che la richiesta del 'ritus antiquior' non possa essere determinata da curiosità per il diverso, da ricerca di folklore religioso e - come si legge nella lettera accompagnatoria (del Motu proprio scritta dal Papa, ndr.) - 'da aspetti sociali indebitamente vincolati all'attitudine dei fedeli'".
I gesuiti ricordano anche che, sempre nella missiva di accompagnamento, "è lo stesso Pontefice a non far mistero" dei "contrapposti sentimenti" che avevano preceduto la pubblicazione del Motu proprio, "un progetto il cui contenuto in realtà non era conosciuto". "Adesso che lo conosciamo - proseguono, sempre citando la lettera del Papa, i gesuiti italiani - lo vogliamo accogliere 'con animo grato e fiducioso', certi che lo spirito della liturgia da tutti ricercato riuscirà a comporre in unità di vedute posizioni per il momento ancora distanti".

3 commenti:

Blog creator ha detto...

Raffaella visto che, poi di sicuro ci saranno anche cavillagini estrose sulla 'forma' (già espresse), in anticipo si legga la nota degli Acta della Santa Sede di tempo fà, cosi che essendo ben informati si può meglio ribattere ai 'cavillatori'.

CONGREGATIO PRO CULTU DIVINO
ET DISCIPLINA SACRAMENTORUM,
I,
Responsum Congregationis
die 25 septembris 2000
Prot. No. 2036/00/L
Quaesitum
È stato chiesto alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti se l'enunciato del n° 299 dell'Institutio Generalis Missalis Romani costituisca una normativa secondo la quale, durante la liturgia eucaristica, la posizione del sacerdote versus absidem sia da considerarsi esclusa.
La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, re mature perpensa et habita ratione dei precedenti liturgici, risponde:
Negative et ad mentem.
La mens comprende diversi elementi di cui tenere conto.
Innanzitutto si deve aver presente che la parole expedit non costituisce una forma obbligatoria, ma un suggerimento che si riferisce sia alla costruzione dell'altare a pariete seiunctum, sia alla celebrazione versus populum. La clausola ubi possibile sit si riferisce a diversi elementi, come, per esempio, la topografia del luogo, la disponibilità di spazio, l'esistenza di un precedente altare di pregio artistico, la sensibilità della comunità che partecipa alle celebrazioni nella chiesa di cui si tratta, ecc. Si ribadisce che la posizione verso l'assemblea sembra più conveniente in quanto rende più facile la comunicazione (cf. Editoriale di Notitiae 29 [1993] 245-249), senza escludere però l'altra possibilità.
Tuttavia, qualunque sia la posizione del sacerdote celebrante, è chiaro che il Sacrificio Eucaristico è offerto a Dio uno e trino, e che il sacerdote principale, Sommo ed eterno, è Gesù Cristo, che opera attraverso il ministero del sacerdote che presiede visibilmente quale Suo strumento. L'assemblea liturgica partecipa alla celebrazione in virtù del sacerdozio comune dei fedeli, che ha bisogno del ministero del sacerdote ordinato per esservi esercitato nella Sinassi Eucaristica. Si deve distinguere la posizione fisica, relativa specialmente alla comunicazione tra i vari membri dell'assemblea e l'orientamento spirituale e interiore di tutti. Sarebbe un grave errore immaginare che l'orientamento principale dell'azione sacrificale sia la comunità. Se il sacerdote celebra versus populum, ciò che è legittimo e spesso consigliabile, il suo atteggiamento spirituale dev'essere sempre versus Deum per Iesum Christum, come rappresentante della Chiesa intera. Anche la Chiesa, che prende forma concreta nell'assemblea che partecipa, è tutta rivolta versus Deum come primo movimento spirituale.
A quanto sembra, la tradizione antica, anche se non unanime, era che il celebrante e la comunità orante fossero rivolti versus orientem, punto dal quale viene la luce che e Cristo. Non sono rare le antiche chiese, la costruzione delle quali era "orientata" in modo che il sacerdote ed il popolo nell'atto di fare la preghiera pubblica si rivolgessero versus orientem.
Si può pensare che quando ci furono difficoltà di spazio o di altro genere, l'abside idealmente rappresentava l'oriente. Oggi l'espressione versus orientem significa spesso versus absidem, e quando si parla di versus populum non si pensa all'occidente, bensì verso la comunità presente.
Nell'antica architettura delle chiese, il posto del Vescovo o del sacerdote celebrante si trovava al centro dell'abside e, seduto, di lì ascoltava la proclamazione delle letture rivolto verso la comunità. Ora quel posto presidenziale non viene attribuito alla persona umana del Vescovo o del presbitero, né alle sue doti intellettuali e nemmeno alla sua personale santità, ma al suo ruolo di strumento del Pontefice invisibile che è il Signore Gesù.
Quando si tratta di chiese antiche o di gran pregio artistico, occorre, inoltre, tenere conto della legislazione civile al riguardo dei mutamenti o ristrutturazioni. Un altare posticcio può non essere sempre una soluzione dignitosa.
Non bisognerebbe dare eccessiva importanza ad elementi che hanno avuto cambiamenti attraverso i secoli. Ciò che rimarrà sempre è l'evento celebrato nella liturgia: esso è manifestato mediante riti, segni, simboli e parole, che esprimono vari aspetti del mistero, senza tuttavia esaurirlo, perché li trascende. L'irrigidirsi su una posizione e assolutizzarla porrebbe diventare un rifiuto di qualche aspetto della verità che merita rispetto ed accoglienza.
Dal Vaticano, 25 settembre 2000.
Jorge A. Card. Medina Estévez Prefetto
+ Francesco Pio Tamburrino Segretario

da "Communicationes" Pontificium Consilium de legum textibus 32, 2000, pp. 171-173

Blog creator ha detto...

Raffaella invio un articolo dei Gesuiti della Civiltà Cattolica del 2003. Dico che è un articolo molto molto bello e ponderato.
Come l'Aquinate posso dire che centra nel mezzo i problemi.
Siccome è lungo, cancella il mio messaggio, e metti, se vuoi e se puoi, il testo.
Sono 4 paginette da leggere, ma eficaci. Davvero. Un saluto.

LA COSTITUZIONE "SACROSANCTUM CONCILIUM":
IL PRIMO GRANDE DONO DEL VATICANO II°
da Quaderno "La Civiltà Cattolica", n. 3684 del 20/12/2003

CESARE GIRAUDO S.J.

Tutti sanno che la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II ha realizzato un rinnovamento nel modo di celebrare, ma pochi sono oggi in grado di coglierne l’entità, o perché, nati dopo gli anni Sessanta, non conoscono la realtà anteriore, o perché, polarizzati sul presente, non sanno ricordare. Proviamo, per qualche istante, a richiamare alla memoria questo passato, cronologicamente non molto lontano, ma di fatto lontanissimo se misurato col metro del cambiamento di sensibilità. Tale evocazione consentirà, per contrasto, di porre in evidenza i tratti salienti della riforma liturgica e i rischi che una sua comprensione superficiale sta facendo correre.

Uno sguardo alla liturgia prima del Concilio
Immaginiamo di entrare, durante la celebrazione della messa, in una chiesa, non importa se di città o di campagna, in una domenica qualunque, poniamo, a metà degli anni Cinquanta, o Quaranta, o anche Trenta. La fisionomia celebrativa di questi decenni è sempre la stessa, né si discosta sostanzialmente da quella dell'intero millennio cui appartengono. Notiamo subito che i fedeli hanno preso posto tutti nella navata, che una barriera, spesso munita di cancelli quasi sempre chiusi, separa dallo spazio riservato al sacerdote. Oltre quella barriera, denominata "balaustra", nell’area che chiamano "presbiterio", durante i riti i laici non possono andare, soprattutto le donne. Fanno eccezione gli appartenenti a quel clero in miniatura che sono i chierichetti.
I fedeli risultano rigorosamente divisi in gruppi, per età e per sesso. Ognuno di questi, rispettando una prassi collaudata, si vede assegnato un settore preciso. Nei primi banchi si notano i più piccoli: da una parte i bambini, dall'altra le bambine. Alle loro spalle stanno i più grandi: ragazzi di qua e ragazze di là. Più indietro prendono posto le donne, numerose. D'altronde, fin dal tempo di san Paolo (cfr. At 16,13), si sa che era proprio la donna, forse perché istintivamente più religiosa, a dare corpo alle assemblee liturgiche. Tutti restano quasi sempre in ginocchio; si siedono soltanto per ascoltare la predica. Pure la comunione, distribuita alla balaustra sia prima sia dopo la messa — sia, ma non sempre, durante la messa —, è ricevuta in ginocchio.
"E gli uomini, dove sono gli uomini?", ci domandiamo. Alziamo lo sguardo e li vediamo in fondo alla chiesa, appoggiati alla porta o come incollati alle pareti. Gli uomini infatti sono abituati a scrutare l'altare da lontano. La sede del celebrante non la vedono neppure, perché nessuno ha mai detto loro che è importante; e poi, anche se c'è, di fatto il sacerdote non vi si siede mai. Comunque gli uomini non sono numerosi. Li abbiamo visti entrare alla spicciolata, perlopiù in ritardo. Sono là, sul limitare della loro chiesa, un po' annoiati, in piedi, pronti a uscire, pronti a ubbidire al sacerdote non appena avrà detto Ite, missa est. Ite vuol dire "Andate": questo latino lo capiscono bene. A dire il vero, in chiesa c'è pure un altro piccolo drappello di uomini, che però non riusciamo a scorgere perché hanno preso posto nel coro, cioè dietro la parete dell’altare monumentale, da dove poco sentono e nulla vedono.
Che cosa fanno i fedeli? Quando c'è da cantare, cantano. Se la messa è in gregoriano, cantano tutti, con slancio, quei vocalizzi che sanno a memoria. A volte, nelle ricorrenze solenni, sono costretti a tacere, perché interviene la corale, magari quella della parrocchia accanto, con pagine grandiose, sempre a più voci. Quando non si canta, le persone semplici pregano il rosario. A quelle più progredite nelle vie dello spirito si consiglia di collegare i singoli momenti della messa con altrettanti momenti della
passione del Signore. Per designare questo genere di messa meditata, alcuni parlano di "messa drammatica", altri di "messa allegoristica", altri ancora di missa picta, ovvero di "messa dipinta", in quanto spesso nei libri di devozione la spiegazione è agevolata da appositi disegni che collegano i singoli momenti della messa ad altrettanti momenti della passione.
II sacerdote, davanti all'altare, volgendo le spalle ai fedeli, "dice" messa, in latino, perlopiù con un tono di voce così sommesso che non giunge neppure agli orecchi del chierichetto di turno, inginocchiato a poca distanza. I gesti del celebrante sono calcolati, misurati. Quando dice Dominus vobiscum, allarga le braccia e subito le richiude; quando benedice, a volte sembra che fenda l'aria, con la mano di taglio e con angolazioni da goniometro.
La messa è governata da una normativa precisa, che ogni sacerdote conosce a perfezione. Tutti celebrano allo stesso modo. Non c'è spazio per qualche adattamento. I sacerdoti neppure si sognano di poter apportare una modifica sia pur minima a quanto è stabilito. Si sono formati tutti sugli stessi manuali di rubriche, quelli cioè che contengono le regole della celebrazione. Nessuno ha studiato liturgia, perché la liturgia non è una scienza. Ai futuri sacerdoti si ripete che la liturgia è un'arte pratica, da imparare bene da qualcuno che la sa, per poi fare esattamente come fa lui. Infatti i chierici dell'ultimo anno, nei quindici giorni che precedono l'ordinazione sacerdotale, seguono un piccolo apprendistato, che alcuni chiamano corso di liturgia, nel quale imparano appunto a "dire" messa. Il sacerdote che stiamo osservando è talmente abituato a fare, che fa tutto lui: legge le letture, ovviamente in latino, spesso limitandosi a muovere le labbra; canta con voce sicura, perché le melodie le conosce bene; poi traccia tanti segni di croce.
Non è necessario diffondersi in ulteriori dettagli. Quelli che abbiamo evocato bastano per farci un'idea abbastanza precisa di come i sacerdoti "dicevano" messa e di come i fedeli "ascoltavano" la messa. Si tratta di espressioni assai comuni, tuttora attestate nel linguaggio parlato. Mentre il ruolo del sacerdote era affidato, a seconda dei casi, alle locuzioni "dire messa" o "cantare messa", quello dei fedeli era descritto da una colorita rosa di espressioni, quali "ascoltare messa", "sentire messa", "udire messa", "stare a messa", "assistere alla messa", "prendere messa", "prendere un pezzo di messa". È comunque doveroso riconoscere che allora i sacerdoti "dicevano" messa con grande devozione e i cristiani "ascoltavano" la messa con sincera pietà. La fede dei nostri vecchi si è nutrita così per oltre mille anni. Anche se il richiamare alla memoria questa loro prassi può farci abbozzare un sorriso, esso non sminuisce affatto l'ammirazione e la venerazione che dobbiamo avere verso quanti ci hanno trasmesso la fede.
Fatta questa doverosa precisazione, possiamo mostrare i gravi limiti di tale modo di celebrare. Il primo consisteva nell'iper-protagonismo del celebrante e nella conseguente passività imposta ai fedeli. Stante l'ordinamento rituale e l'indiscussa recezione che lo accreditava, lo scarto tra i ruoli non era in alcun modo colmabile. La stessa separazione del presbiterio dalla navata lo ribadiva con l’evidenza delle leggi fisiche. Il secondo limite era rappresentato dall’uso esclusivo della lingua latina, conosciuta dai sacerdoti e, in varia misura, anche dalle persone colte, ma inesorabilmente carica di mistero per i più. Il terzo limite era collegato all'applicazione scrupolosa e quasi meccanica delle rubriche, sentite come il bastone rassicurante su cui si appoggiava la mancata formazione liturgica del clero. Questa adesione incondizionata a una normativa vincolante e minuziosa faceva della prassi celebrativa una "liturgia di ferro".
Le cose non potevano andare avanti così. Ne erano convinti quei liturgisti e pastori illuminati che hanno dato vita al movimento liturgico del XX secolo. Pur trovando sulla loro strada veri macigni rappresentati da un'adesione acritica alla prassi, da un attaccamento viscerale a ciò che sempre si era fatto, dalla paura del nuovo, grazie a un impegno paziente di ricerca e di riflessione essi hanno saputo preparare il terreno sul quale è cresciuta e fiorita la riforma liturgica di cui godiamo oggi i frutti. Ci limitiamo a citare alcuni grandi nomi: in Francia Prosper Guéranger, in Belgio Lambert Beauduin, in Germania Romano Guardini e Odo Casel, in Austria Pius Parsch eJosef Andreas Jungmann, in Italia Emmanuele Caronti, Ildefonso Schuster, oggi beato, Giacomo Lercaro, Mario Righetti, e tanti altri.
Insoddisfatti degli usi ai quali ci si era affezionati, hanno scoperto che questi corrispondevano spesso alla prassi radicatasi nel secondo millennio, ma divergevano molte volte dalla Tradizione (con la "T" maiuscola) che, maggiormente modellata sull'insegnamento dei Padri della Chiesa, aveva governato le celebrazioni nel primo millennio.
Allora le cose non andavano così. Allora i fedeli partecipavano attivamente alla messa. Allora "celebravano" la messa con il loro sacerdote: lui in forza del sacerdozio ordinato, essi in forza del comune sacerdozio battesimale. Allora, ad esempio, san Giovanni Crisostomo diceva: "II sacerdote non celebra affatto l'eucaristia da solo (oude […] eucharistei monos), ma pure l’intero popolo [la celebra con lui]… Perciò non gettiamo tutto sui sacerdoti..." (1).
Allora i fedeli capivano quello che si leggeva nelle letture, quello che il sacerdote diceva nelle preghiere, in particolare nella preghiera eucaristica. Al tempo di Agostino, all’Amen del popolo che segue la dossologia finale era riconosciuto il valore della firma che sola avvalora e suggella il documento precedentemente scritto (2). Al tempo di Gerolamo, nelle chiese di Roma l’Amen rimbombava come un tuono dal cielo (3). I fedeli approvavano con slancio, perché avevano compreso bene quanto il presidente dell'assemblea aveva detto a Dio Padre in nome loro.
Furono proprio gli studi dei grandi liturgisti citati a sensibilizzare a poco a poco la Chiesa, fino a condurla, prima, a modo di assaggio, alla riforma — voluta da Pio XII — della Veglia pasquale nel 1951 e dell'intera Settimana santa nel 1955, poi alla grande riforma liturgica del Concilio Vaticano II.

La costituzione "Sacrosanctum Concilium" e la riforma liturgica
Non è possibile riassumere in poche righe ciò che rappresenta per la Chiesa di oggi la costituzione Sacrosanctum Concilium (SC). Essa ha indubbiamente dischiuso orizzonti velati da tempo. Ci ha ricordato, ad esempio, che "la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua forza" (SC 10). Ha sottolineato a più riprese la necessità che tutti i fedeli vengano formati "a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche che è richiesta dalla natura stessa della liturgia" (SC 14; cfr 11. l9. 21. 27. 30. 41. 48. 49. 50. 79. 113. 114. 121).
Per avviare questo processo di rinnovamento, la costituzione ha riconosciuto alla liturgia lo statuto di disciplina accademica, stabilendo che "nei seminari e negli studentati religiosi la sacra liturgia va computata tra le materie necessarie e più importanti e, nelle facoltà teologiche, tra le materie principali" (SC 16). Si è preoccupata anzitutto della speciale formazione di "coloro che sono destinati all'insegnanento della sacra liturgia" (SC 15), i quali a loro volta dovranno trasmettere ai chierici "una formazione spirituale a carattere liturgico" (SC 17) e dovranno aiutare i sacerdoti che già lavorano nella vigna del Signore "a penetrare sempre più il senso di ciò che compiono nelle sacre funzioni" (SC 18).
La costituzione ha poi affermato a chiare lettere che "la santa madre Chiesa […] desidera fare un'accurata riforma generale della liturgia", riconsiderando "l’ordinamento dei testi e dei riti […], in modo tale che le realtà sante, da essi significate, siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano per quanto possibile, possa capirle facilmente e parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria" (SC 21). Essa ci ha inculcato che "la celebrazione comunitaria, caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli", è da preferire, per quanto possibile, "alla celebrazione individuale e quasi privata […] soprattutto della messa, salva sempre la natura pubblica e sociale di qualsiasi messa" (SC 27). Ha prospettato il ministero, non più come il protagonismo esasperato di uno solo, bensì come una compagine articolata di funzioni, ricordando al singolo ministro che dovrà limitarsi "a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza" (SC 28). Ha escluso che nella celebrazione si possano fare preferenze in rapporto tanto a persone singole quanto a condizioni sociali (cfr SC 32).
Ha espressamente voluto che nelle sacre celebrazioni "sia disposta una lettura della sacra Scrittura più abbondante, più varia e medio scelta" (SC 35). Ha raccomandato vivamente l’omelia, come parte integrante dell'azione liturgica, con lo scopo preciso di presentare "i misteri della fede e le norme della vita cristiana, attingendoli dal testo sacro" (SC 52). Ha ripristinato "l’orazione comune, detta anche dei fedeli" (SC 53), "una perla - come dirà più tardi Annibale Bugnini - che era andata perduta e che ora era stata ritrovata in tutto il suo splendore" (4).
A sua volta, il desiderio di aprire i tesori della Bibbia si è tradotto nella preoccupazione di renderne comprensibile la proclamazione, sulla base di una constatazione tanto semplice quanto coraggiosa. Cosi recita il n. 36: "L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. Dato però che, sia nella messa sia nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua volgare può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda ad essa una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti". La questione della lingua liturgica ritorna al n. 54, che recita: "Nelle messe celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla lingua volgare, specialmente nelle letture e nell'orazione comune […]. Tuttavia si abbia cura che i fedeli possano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell'ordinario della messa che spettano ad essi". Inoltre la costituzione sulla Liturgia ha raccomandato molto "quella partecipazione più perfetta alla messa, nella quale i fedeli […] ricevono il corpo del Signore con il pane consacrato in quello stesso sacrificio" e ha stabilito che, "fermi restando i princìpi dogmatici stabiliti dal Concilio di Trento, la comunione sotto le due specie si può concedere sia ai chierici e religiosi sia ai laici" (SC 55). Ancora: ci ha ridato "la concelebrazione, che manifesta in modo appropriato l'unità del sacerdozio" (SC 57).
Nell'impossibilità di illustrare ognuna di queste numerose sfaccettature, vogliamo soffermarci su quella che giustamente può essere considerata la decisione basilare della riforma liturgica: l'introduzione della lingua parlata nelle celebrazioni, benché il Concilio non volesse abolire l'uso del latino nelle celebrazioni. Si è trattato di un cambiamento storico, che, se fu accolto con entusiasmo da chi meglio riuscì a comprenderne il significato e a prevederne gli effetti, non mancò di suscitare apprensioni, disturbare abitudini consolidate, destare nostalgie profonde. Ma in che lingua si deve pregare? Alcuni se l'erano chiesto già in epoche lontane.
Gli storici della liturgia ci informano che la questione della lingua con la quale rivolgersi a Dio venne sollevata per la prima volta quando i fratelli Costantino-Cirillo e Metodio furono costretti a giustificarsi davanti ai prelati di Venezia. Ciò avvenne nell'anno 867, durante il loro viaggio a Roma compiuto per portare al Papa le reliquie di san Clemente e ottenere da lui l'uso liturgico della lingua slava. Così leggiamo nel capitolo 16 della Biografia slava di san Cirillo: "Mentre si trovava a Venezia, si radunarono contro di lui vescovi e presbiteri e monaci, come corvi contro un falco, e sollevarono l'eresia delle tre lingue, dicendo: "Ehi, tu: dicci, perché ora tu hai composto un alfabeto per gli Slavi e lo insegni, cosa che nessun altro prima escogitò, né gli Apostoli, né il Papa di Roma, ne Gregorio Magno, ne Gerolamo, ne Agostino? Noi conosciamo soltanto tre lingue nelle quali è lecito lodare Dio: l’ebraica, la greca e la latina"" (5). L'immagine del falco — l'uccello forte che non teme avversari, il rapace sicuro della sua preda — già anticipa che il vincitore della contesa sarà proprio lui, Costantino-Cirillo, nei confronti del quale i suoi avversari altro non sono che uno stormo di corvi gracchianti. Nel seguito del racconto egli risponde paragonando la lingua in cui pregare alla pioggia che Dio fa cadere su tutti ugualmente, al sole che risplende su tutti allo stesso modo (cfr Mt 5, 45) e all'aria nella quale tutti respiriamo. In tal modo afferma che l'uso liturgico della propria lingua è un diritto per ogni popolo che si affaccia al Vangelo.
Possiamo immaginare che qualcuno degli accusatori avrà sussunto: "Non ha importanza che noi comprendiamo o meno quello che si dice nella liturgia: sufficit ut intellegat Deus". Coloro che così pensavano assolutizzavano una tradizione o, meglio, una prassi, come se quella dovesse essere l'unica. In concreto: assolutizzavano l’usus receptus di una o due lingue (6) come se quello fosse davvero esclusivo. Insomma: non avevano il senso della Tradizione, quella che a partire dal giorno della Pentecoste aveva inaugurato la predicazione della Parola di Dio — e di certo anche la liturgia — nelle lingue dei popoli (7). Invece, per i santi fratelli di Salonicco, la questione della lingua liturgica non era affatto marginale: essa costituiva un elemento irrinunciabile della Tradizione. Nel capitolo 18 della Biografia slava si legge che Costantino morente — che ormai aveva preso il nome monastico di Cirillo — invocava ancora: " […] fa' rovinare l'eresia delle tre lingue!" (8).
Sette secoli dopo, la questione della lingua liturgica tornò alla ribalta ad opera dei Riformatori, i quali pretendevano che la messa dovesse essere celebrata necessariamente nella lingua volgare, cosicché tutti potessero capire. Al quesito An missa nonnisi in lingua vulgari, quam omnes intelligant, celebrari debeat, il teologo spagnolo Francisco De Sanctis, esperto al Concilio di Trento per conto del vescovo di Salamanca, così rispondeva: "[…] la messa non deve essere celebrata in lingua volgare, ma o in latino o in greco o in ebraico, che sono le tre lingue scritte sul titolo della croce, destinate a diffondere il Vangelo di Dio. Infatti nella conversione della Gallia e della Germania mille anni or sono la messa fu sempre celebrata in latino, per “non gettare le perle ai porci” (cfr Mt 7, 6), per non rivelare al volgo i misteri di Dio e per non esporli allo scherno […]. Potrebbe tuttavia il Sommo Pontefice stabilire il contrario, qualora lo ritenesse opportuno" (9).
Anche a non voler insistere sulle motivazioni che, secondo il teologo De Sanctis, avrebbero indotto le Chiese della Gallia e della Germania a adottare per la messa l’uso esclusivo del latino, non possiamo fare a meno di notare che, a quel tempo, l’aristocrazia dell’intelletto guardava dall’alto in basso le masse, considerate del tutto incapaci di comprendere e quindi irrimediabilmente condannate all’ignoranza. In bocca al teologo tridentino, la stessa citazione evangelica, estrapolata dal contesto originario, non suona certo apprezzamento per le esigenze e le capacità del "volgo". Raffrontata con la convinzione dei prelati di Venezia, questa dichiarazione rappresentava comunque un passo avanti. Infatti, pur appellandosi all’argomento delle tre lingue, il De Sanctis aggiungeva che il Papa potrebbe decidere altrimenti, qualora lo ritenesse opportuno. D’altronde, al Papa di Roma, Adriano II, si erano appellati Cirillo e Metodio, visto che con le loro argomentazioni non riuscivano a far breccia sui loro irriducibili oppositori.
La storia attesta che Trento non poté accogliere la rivendicazione dei Riformatori e che il latino rimase l’unica lingua liturgica della Chiesa d’Occidente. Ci sono voluti quattro secoli, c’è voluto un altro Concilio, perché il progetto di parlare con Dio nella propria lingua ? un progetto finalmente svestito di contrapposizione polemica e purificato da ogni spirito di rivendicazione minacciosa per l’unità della fede ? giungesse in porto. È proprio questo che ha fatto il Vaticano II con la costituzione Sacrosanctum Concilium e con i documenti attuativi che l’hanno portata ad esecuzione.
Oggi siamo più che convinti della necessità che urgeva alla Chiesa del nostro tempo di restituire al discorso tra l’assemblea e Dio le risonanze profonde del linguaggio di ogni popolo. Di conseguenza abbiamo l’impressione che , a partire da quello storico 7 marzo 1965 ? data che inaugurà l’impiego del volgare nella liturgia -, ciò sia avvenuto come d’incanto per tutte le parti della celebrazione liturgica. Tentando di riandare con la memoria alle intense emozioni di quegli anni, ci sembra impossibile immaginare uno svolgimento diverso dei fatti. Ma la memoria inoppugnabile dei documenti ci convince che, proprio in questo ambito vitale e delicato per la vita della Chiesa, il principio della gradualità fu scrupolosamente osservato e sapientemente dosato, come risulta dai tre grandi documenti che hanno scandito il cammino della riforma liturgica: l'istruzione Inter oecumenici del 29 settembre 1964, l'istruzione Tres abhinc annos del 4 maggio 1967 e infine l'istruzione Eucharisticum mysterium del 25 maggio 1967.

A 40 anni dalla "Sacrosanctum Concilium": il punto sulla situazione
La riforma liturgica è indubbiamente il primo e grande dono del Vaticano II, dono dello Spirito, non solo alla Chiesa romana, ma alle Chiese d'Oriente e d'Occidente 10. È stata una scelta provvidenziale, il cui valore traspare dai rapidi cenni che abbiamo appena fatto ad alcuni paragrafi della Sacrosanctum Concilium. Ma qualcosa non ha funzionato, come denuncia anche la voce autorevole di Giovanni Paolo II, che nella recente enciclica Ecclesia de Eucharistia, accanto alle "luci" e ai "grandi vantaggi" apportati dalla riforma liturgica, segnala l'esistenza di "ombre" e perfino di "abusi"".
Dinanzi a queste sbavature che hanno offuscato e purtroppo continuano a offuscare la liturgia, alcuni si scandalizzano, vanno in crisi e dicono: "Non c'è più fede!". Altri accusano la riforma liturgica e contrappongono polemicamente al Messale di Paolo VI il Messale di Pio V. Altri invocano il ritorno all'uso del latino come rimedio sicuro ai malanni della stagione postconciliare. Altri vorrebbero girare di nuovo l'altare contro il muro. Altri ancora rivedrebbero volentieri le balaustre anche nelle chiese di nuova costruzione. Sogni di inguaribili nostalgici? Certamente sì, ma al tempo stesso spie di un malessere liturgico-pastorale da non sottovalutare, anzi da interpretare. Prima abbiamo evocato i vantaggi che la riforma liturgica doveva apportare. Soffermiamoci ora sugli inconvenienti che si sono verificati, per stimolarci a riflettere e allarmarci tutti nella giusta misura.
Spesso, chi sa cantare in qualche modo, canta, magari improvvisando. Chi sa suonare in qualche modo, suona, dimenticando che la musica ha pure le sue esigenze di preparazione. Nelle celebrazioni intervengono strumenti nuovi, una vera invasione. Intanto i nostri preziosi organi dormono sotto la polvere, cosicché chi vuol vedere organi ben tenuti e organisti capaci alla consolle deve programmare un viaggio, ad esempio, nei Paesi germanici. I canti in lingua latina sono ostracizzati.
Spesso, nelle nostre chiese, chi vuole leggere, legge come può, e allora fioccano gli errori, la punteggiatura non è rispettata la dizione è confusa. Oppure, se si chiede all'aspirante lettore "Lei è abituato a leggere in chiesa?", quello si risente e subito esibisce i suoi titoli di studio, come se il ministero del lettore non richiedesse una formazione specifica. A volte si presenta all'ambone un lettore infante e suscita tenerezza vederlo compitare con fatica e diligenza testi che la sua immaturità non gli permette di comprendere. Chi deve fare l’omelia, la fa a braccio e non di rado tralascia ogni riferimento alle letture appena proclamate. Così pure chi propone le intenzioni della preghiera dei fedeli spesso prolunga la lista delle esperienze dei singoli o della comunità evocando le situazioni più disparate, a prescindere dal messaggio delle letture. Inoltre, chi deve proclamare la preghiera eucaristica perché è presbitero, la prende a caso o, meglio, prende quella che scelgono tutti, attratti, più ancora che dalla sua bellezza, dalla sua brevità. Non parliamo poi di quei sacerdoti che, talvolta e in taluni luoghi, si arrogano il diritto di utilizzare preghiere eucaristiche selvagge, o di comporne lì per lì il testo o parti di esso.
Spesso, chi ama battere le mani, perché lo vede fare nei comizi o nei concerti, avvia e scatena applausi plateali anche in chiesa, con il conseguente grave rischio talvolta di non riuscire più a distinguere tra chiesa e piazza. Che dire poi del muoversi imperturbato di fotografi, cineoperatori, fioristi e scenografi durante la liturgia? Perlomeno che non rispettano la disciplina del sacro. Ma non possiamo prendercela con professionisti desiderosi di far bene il loro mestiere. Qui a mancare e il presidente dell’assemblea che, in virtù del suo ruolo e della sensibilità liturgica che dovrebbe aver acquisito, ha l’obbligo di innalzare i giusti paletti nei momenti opportuni, operando con tatto, ma con determinazione.
Insomma, da un quadro rigido siamo passati a un quadro libero. Più precisamente: siamo passati da un quadro eccessivamente rigido a un quadro eccessivamente libero. Se prima c’erano fissità, sclerosi di forme, innaturalezza, che rendevano la liturgia di allora una "liturgia di ferro", oggi ci sono naturalezza e spontaneismo, indubbiamente sinceri, ma spesso fraintesi, malintesi, che fanno ? o perlomeno rischiano di fare ? della liturgia una "liturgia di caucciù", sgusciante, glissante, saponosa, che a volte si esprime in ostentato affrancamento da ogni normativa rubricale.
La responsabilità di tutto ciò non è della riforma, bensì della sua applicazione, cioè della nostra incapacità di comprenderla e di valorizzarla. Evidentemente la riforma è stata fatta a livello dei "testi" liturgici, ma non è ancora penetrata a sufficienza nelle nostre "teste". Questa spontaneità fraintesa, che si identifica di fatto con l’improvvisazione, la faciloneria, il pressapochismo, il permissivismo, è il nuovo "criterio" che affascina innumerevoli operatori della pastorale, sacerdoti e laici. È il culto prestato a questo nuovo idolo che scatena oggi la reazione ? ingiustificata certo, ma in parte comprensibile ? degli avversari della riforma liturgica, che giungono talvolta fino a rifiutare la stessa espressione "riforma liturgica".
Oggi il pericolo per la liturgia viene da due sponde opposte, un pericolo ugualmente insidioso: da una parte, "un malinteso senso di creatività e di adattamento" che ingenerano gli abusi cui allude Giovanni Paolo II nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia 12; dall’altra, un ritorno nostalgico, che talvolta echeggia il formalismo, alle tradizioni con la "t" minuscola. La tensione che scuote in questi anni la riforma liturgica è appunto tra una "liturgia di caucciù", che vorrebbero alcuni, e una "liturgia di ferro", che vorrebbero altri. Sbagliano gli uni, sbagliano gli altri, tutti per eccesso.
Sul piano somatico noi siamo quello che siamo, perché abbiamo una spina dorsale, cioè una struttura che ci sostiene e ci rende operativi. La nostra spina dorsale non è né di ferro né di caucciù. Essa è umana, ha una consistenza, rigida quando occorre, ma nello stesso tempo sa adattarsi mirabilmente alle nostre esigenze di vita e di azione. Così dev’essere per la liturgia: la sua spina dorsale dev’essere umana, deve saper comporre armonicamente fedeltà alla Tradizione e adattamento alle presenti situazioni di una Chiesa in perenne divenire.
È innegabile che gli abusi ci sono. Essi non dipendono dalla riforma liturgica, bensì dalla ricezione debole che tanti ne hanno avuto e dalla loro conseguente, seppure inconsapevole, impermeabilità pratica allo spirito della liturgia. Tali abusi non si correggono con le reprimende, Si correggono con quella formazione che i Padri conciliari non si non stancati di raccomandare: formazione dei docenti di liturgia, formazione liturgica dei giovani nei seminari e nelle facoltà, formazione permanente per tutti, sacerdoti e laici, che aiuti a penetrare sempre più profondamente nello spirito della Chiesa in preghiera.
Anche la recente (4 dicembre 2003) Lettera apostolica di Giovanni Paolo II nel XL anniversario della Sacrosanctum Concilium invita a compiere una verifica sul cammino compiuto, Essa, fra l’altro, si chiede: "È vissuta la Liturgia come “fonte e culmine” della vita ecclesiale, secondo l’insegnamento della Sacrosanctum Concilium? La riscoperta del valore della Parola di Dio, che la riforma liturgica ha operato, ha trovato un riscontro positivo all’interno delle nostre celebrazioni? Fino a che punto la Liturgia è entrata nel concreto vissuto dei fedeli e scandisce il ritmo delle singole comunità? È compresa come via di santità, forza interiore del dinamismo apostolico e della missionarietà eccelsiale?" (n. 6).

NOTE
1 - Giovanni Crisostomo, s., Homilia XVIII in 2 Cor [PG 61, 527]
2 - Cfr Agostino, s., Sermo "Hoc quod videtis" [PL 46, 835-836]
3 - Cfr Gerolamo, s., In epistolam ad Galatas 2, 3 [PL 26, 355 c]
4 - A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Roma, Ed.Liturgiche, 1997, II ed, p. 400.
5 - F. Grivec ? F. Tomsic (eds), Costantinus et Methodius Thessalonicenses, Fontes, Zagreb, Staroslavenski Institut, 1960, p. 205.
6 - I prelati di Venezia pensavano in primo luogo al latino, in secondo luogo al greco. È dubbio che pensassero anche al siriaco, lingua semitica affine all’ebraico.
7 - "L’atteggiamento dei due fratelli di Salonicco è rappresentativo, nell’antichità cristiana, di uno stile tipico di molte Chiese: la rivelazione si annuncia in modo adeguato e si fa pienamente comprensibile quando Cristo parla la lingua dei vari popoli, e questi possono leggere la Scrittura e cantare la liturgia nella lingua e con le espressioni che sono loro proprie, quasi rinnovando i prodigi della Pentecoste" (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Orientale lumen, n. 7)
8 - F. Grivec ? F. Tomsic (eds), Costantinus et Methodius, cit., p. 211.
9 - Societas Goerresiana, Concilium Tridentinum: Diariorum, Actorum, Epistularum, Tractatuum nova collectio, tomus 8, Actorum pars 5, Friburgi Br. 1919, pp. 743 e ss.
10 - "Tutte le Chiese cristiane si fondano sull’unico messaggio di Cristo e condividono necessariamente un patrimonio comune. Pertanto non pochi princìpi della Costituzione conciliare sulla sacra liturgia forniscono elementi validi universalmente per le liturgie di tutte le Chiese e devono essere applicati anche nelle celebrazioni di Chiese che non seguono il rito romano (Congregazione per le Chiese Orientali, Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, n. 4)
11 "Non c’è dubbio clhe la riforma liturgica del Concilio abbia portato grandi vantaggi per una più consapevole, attiva e fruttuosa partecipazione dei fedeli al santo Sacrificio dell'altare […]. Purtroppo, accanto a queste luci, non mancano delle ombre. Infatti vi sono luoghi dove si registra un pressoché completo abbandono del culto di adorazione eucaristica. Si aggiungono, nell’uno o nell’altro contesto ecclesiale, abusi che contribuiscono a oscurare la retta fede e la dottrina cattolica su questo mirabile Sacramento. Emerge talvolta una comprensione assai riduttiva del Mistero eucaristico. Spogliato del suo valore sacrificale, viene vissuto come se non oltrepassasse il senso e il valore di un incontro conviviale fraterno. Inoltre, la necessità del sacerdozio ministeriale, che poggia sulla successione apostolica, rimane talvolta oscurata e la sacramentalità dell'Eucaristia viene ridotta alla sola efficacia dell'annuncio. Di qui anche, una e là, iniziative ecumeniche che, pur generose nelle intenzioni, indulgono a prassi eucaristiche contrarie alla disciplina nella quale la Chiesa esprime la sua fede. Come non manifestare, per tutto questo, profondo dolore? L'Eucaristia è un dono troppo grande, per sopportare ambiguità e diminuzioni" (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia, n. 10; cfr n. 52).
12 "Occorre purtroppo lamentare che, soprattutto a partire dagli anni della riforma liturgica post-conciliare, per un malinteso senso di creatività e di adattamento, non sono mancati abusi, che sono stati motivo di sofferenza per molti. Una certa reazione al “formalismo” ha portato qualcuno, specie in alcune regioni, a ritenere non obbliganti le “forme” scelte dalla grande tradizione liturgica della Chiesa e dal suo Magistero e a introdurre innovazioni non autorizzate e spesso del tutto sconvenienti" (ivi, n. 52).

Anonimo ha detto...

Grazie Umberto! Sei una fonte preziosissima :-)