22 novembre 2007
La rivoluzione delle staminali adulte: lo speciale di "Avvenire"
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La rivoluzione delle staminali adulte: esperimenti senza embrioni
SCIENZA & ETICA
Da Madison e Kyoto l’annuncio simultaneo di una scoperta che può mettere fuori gioco chi insiste nell’uso della vita umana appena formata Un’alternativa dalle grandi potenzialità
Ricerca senza embrioni, ora è possibile
Scienziati giapponesi e americani riescono a far «regredire» cellule umane adulte
DA MILANO ENRICO NEGROTTI
Imprevedibili e promettenti sviluppi per la ricerca sulle cellule staminali vengono dalla pubblicazione ieri su prestigiose riviste scientifiche di due lavori che dimostrano come sia possibile riprogrammare le cellule umane adulte facendole regredire a uno stadio molto simile a quello embrionale. I lavori dei gruppi di James Thomson (Università del Winsconsin-Madison, Stati Uniti) pubblicato su Science e di Shinya Yamanaka (Università di Kyoto, Giappone) pubblicato su Cell aprono piste di ricerca che, quando la tecnica sarà perfezionata, renderebbero superfluo l’utilizzo (e la distruzione) degli embrioni umani per ottenere cellule staminali per uso clinico. Con ovvia semplificazione del dibattito che da anni contrappone chi richiede alla ricerca anche un rispetto per la vita e chi invece predica la necessità di non porre limiti al progresso della conoscenza.
Il lavoro di Junying Yu e James Thomson (il pioniere degli studi sulle cellule staminali embrionali umane nel 1998) ha realizzato il proprio esperimento introducendo un gruppo di quattro geni in una cellula adulta (fibroblasto) della pelle umana. Si tratta di geni (Oct4, Nanog, Sox2 e Lin28) che sono «attivi» durante lo sviluppo embrionale e che vengono invece poi silenziati: i ricercatori li hanno selezionati tra molti altri «candidati» e li hanno inseriti nelle cellule utilizzando retrovirus. Il risultato è stato che le cellule sono regredite a uno stadio molto simile a quello embrionale, acquisendo la capacità di differenziarsi in moltissimi tessuti (pluripotenza) ma non in tutti (totipotenza). Sono state sviluppate otto nuove linee di staminali, alcune delle quali coltivate per 22 settimane.
Analogo risultato è stato ottenuto dal gruppo di Shinya Yamanaka, che già un anno fa aveva realizzato un esperimento simile con le cellule di topo. Ora si è ripetuto con le cellule umane: anche in questo caso sono stati selezionati alcuni geni (leggermente diversi: Oct 3/4, Sox2, Klf4 e c-Myc) e sono stati inseriti tramite un vettore virale nelle cellule adulte. Identico il risultato: si sono ottenute cellule staminali simili a quelle embrionali che sono state definite Ips (dalla sigla «Inducted pluripotent stem cells», cellule staminali pluripotenti indotte).
La scoperta di Yamanaka era stata «annunciata» sabato scorso quando un altro pioniere, l’inglese Ian Wilmut (che nel 1996 a Edimburgo coordinò gli esperimenti che portarono alla prima clonazione di un mammifero, la pecora Dolly) dichiarò in un’intervista a un quotidiano inglese di essere pronto a dedicarsi agli esperimenti che sta conducendo lo scienziato giapponese sulla riprogrammazione delle cellule adulte, proprio perché «più promettenti della clonazione e prive di risonanze socialmente ed eticamente negative». Infatti la portata degli esperimenti sta proprio nel superare la necessità di utilizzo degli embrioni nella ricerca sulle cellule staminali. Anche se, puntualizzano gli stessi scopritori delle nuove metodiche, ulteriori studi sono ovviamente ancora necessari perché non tutti i problemi della ricerca sono stati superati. «Da circa 50mila cellule umane – racconta Yamanaka – abbiamo ottenuto circa 10 cellule clonate Ips. Può sembrare poco, ma significa che da un solo esperimento si possono ottenere diverse linee di cellule Ips». I ricercatori, osserva Thomson, devono ancora individuare metodi per rimuovere i vettori, cioè i virus usati per portare i geni all’interno delle cellule adulte.
Giovanni Neri, direttore dell’Istituto di genetica medica dell’Università Cattolica di Roma, osserva che «le premesse sono buone» ma per arrivare a risultati clinici ci vorrà tempo. Comunque, aggiunge, «il fatto che due gruppi siano arrivati a uno stesso risultato attraverso ricerche e tecniche indipendenti è un po’ una 'prova del nove'».
© Copyright Avvenire, 21 novembre 2007
IL COMMENTO
Il microbiologo Pessina: «Una tecnica promettente per sviluppare nuovi farmaci»
Una scoperta importante, anche se «sulla riprogrammazione cellulare e le sue prospettive – ben più efficaci rispetto alla ricerca sulle cellule embrionali – stanno lavorando da molti anni diversi ricercatori in tutto il mondo, Europa compresa. Peccato che fino a ora non se ne sia parlato molto». Il primo commento di Augusto Pessina, microbiologo dell’Università degli Studi di Milano, sui risultati ottenuti da Yamanaka e Thomson suona così.
A riprova di una sensazione condivisa da molti scienziati, non solo italiani, in queste ore: che la notizia annunciata ieri su Cell e Science abbia gettato luce su una certezza troppo a lungo taciuta, e certo non per interessi scientifici.
«D’altra parte – continua Pessina – perché mai un 'furbacchione' come Ian Wilmut avrebbe dovuto improvvisamente fare marcia indietro sulla clonazione e l’impiego di embrioni nella ricerca? La verità è che queste tecniche non danno i successi sperati. E questo ha chiaramente influito sulla possibilità di ottenere finanziamenti. Chissà in quanti, dopo l’annuncio di ieri, dirotteranno i loro fondi dalla ricerca sulle staminali embrionali a quella sulle adulte...».
Leggi del mercato a parte, Pessina spiega i vantaggi che i risultati della scoperta sulla riprogrammazione cellulare potrebbero avere in tempi brevi: «Per ora metterei da parte la possibilità di successi sui pazienti: siamo ancora troppo lontani dalla capacità di gestire queste cellule ringiovanite, che proprio perché così simili alle embrionali presentano gli stessi problemi nell’essere gestite. Quello che invece potrebbe cambiare in breve – aggiunge il microbiologo – è la nostra conoscenza su determinate malattie e la capacità di sintetizzare farmaci capaci di curarle».
Già, perché se fino a ora scienziati e ricercatori avevano insistito sulla necessità di impiegare in laboratorio linee di cellule embrionali (comprate a caro prezzo sul mercato internazionale) per osservare lo sviluppo di malattie come il Parkinson o la Sla, e sperimentare eventuali farmaci, d’ora in poi sarà possibile ottenere gli stessi obiettivi senza distruggere embrioni, ma usando le cellule adulte riprogrammate.
© Copyright Avvenire, 21 novembre 2007
Nasce da motivi «pratici» la svolta nei laboratori
DI MICHELE ARAMINI
La notizia che Ian Wilmut, lo scienziato scozzese padre della pecora Dolly, ha deciso di abbandonare le sue ricerche sulla clonazione e la sperimentazione sugli embrioni umani è certamente motivo di soddisfazione. In pratica Wilmut ha rinunciato a servirsi dell’autorizzazione recentemente concessagli dal governo inglese di creare embrioni chimera uomo-animale.
La posizione etica di Wilmut sul valore della vita dell’embrione tuttavia non è cambiata: «Siamo contrari alla clonazione a scopo riproduttivo, ma l’embrione nei suoi stadi iniziali non è una persona. Non vi è nessun accenno di sistema nervoso e non lo avrà per settimane». È chiaro perciò che il motivo del suo nuovo orientamento di ricerca consiste nel fatto che la tecnica di riprogrammare le cellule adulte, per ottenere cellule con le stesse caratteristiche di quelle embrionali, è più conveniente rispetto al tentativo di indirizzare le embrio- nali a evolvere verso un determinato tipo di cellule. Una conversione etica che rispetti l’inviolabilità dell’embrione sarebbe stata auspicabile, ma al momento non c’è.
Il discorso vale sostanzialmente anche per i due team di ricercatori (Università di Kyoto e Università del Wisconsin- Madison) che sono riusciti a ottenere cellule staminali con caratteristiche simili a quelle delle cellule embrionali a partire da cellule dell’epidermide. Sono state le difficoltà insormontabili a programmare le cellule staminali nel senso voluto che hanno spinto questi ricercatori a percorrere un’altra strada.
La vicenda di cui ci occupiamo ripropone due questioni decisive. La prima è la superficialità con cui ci si è sbarazzati della qualità umana dell’embrione e della necessità di difendere la sua esistenza, in nome di esigenze pratiche. La motivazione utilitarista- terapeutica continuamente invocata per il bene dell’uomo viene troppo facilmente applicata contro l’uomo: l’utilità dei forti a scapito dei deboli. È necessario richiamare gli scienziati al fatto che la scienza è un’impresa etica se si mette a servizio di tutti gli uomini. Per motivi utilitaristici non si può declassare il valore della vita di nessun essere umano.
La seconda questione è quella dell’autonomia della scienza e della ricerca. Sul punto è bene richiamare che la ricerca scientifica non è quasi mai libera, non tanto per la supposta influenza opprimente della Chiesa, quanto perché risponde agli obiettivi dei finanziatori, e non può fare altrimenti.
Un valore etico fondamentale come la difesa della vita e della dignità dell’uomo non può essere considerato come un limite alla ricerca. Anzi: esso deve valere come stimolo a percorrere nuove vie di ricerca. Le recenti scoperte di cui parliamo in queste pagine sarebbero forse avvenute prima se si fosse puntato decisamente, per tempo, alla salvaguardia dell’embrione e allo studio delle staminali adulte. La comprensione della vicenda delle cellule staminali, fino a questi ultimi sviluppi, ci mostra come anche la ricerca scientifica possa trasformarsi facilmente in ideologia. Infatti da molto tempo è chiaro che la via delle staminali adulte è la più promettente. Eppure si è insistito sulle embrionali con una sicurezza che è andata molto al di là del ragionevole. Perciò è necessario mantenere un’attenzione critica nei confronti del progetto scientifico, perché mantenga il suo valore etico. La scienza è condotta eticamente solo se si pone veramente a servizio di tutte le persone umane. Senza eccezioni.
I ricercatori hanno verificato che la nuova tecnica è più efficace e dà risultati sinora impossibili. Dunque una «conversione» non dettata dall’etica
© Copyright Avvenire, 21 novembre 2007
«È ideologico perseverare sugli embrioni»
intervista
Kenner, docente a Vienna: «Chi insiste su questa strada lo fa per interessi diversi da quelli scientifici»
DAL NOSTRO INVIATO A VIENNA
RICCARDO CASCIOLI
«È la conferma che la ricerca sugli embrioni non ha futuro, come peraltro dimostra la ricerca stessa di questi decenni. Chi insiste su questa strada lo fa per altri interessi». È lapidario il professor Lukas Kenner, uno dei massimi esperti europei di cellule staminali, nel commentare l’annuncio del 'padre' di Dolly e la scoperta annunciata ieri.
Professore all’Istituto di Patologia Clinica dell’Università di Vienna, Kenner ha fondato con altri 5 colleghi l’Istituto Ludwig Boltzmann per la ricerca sul cancro; dal 2005 è consulente scientifico dell’arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schoenborn, e del Parlamento tedesco per le cellule staminali.
Da quest’anno è anche membro della Pontificia Accademia per la Vita.
Professor Kenner, quali possono essere gli interessi legati alla ricerca sugli embrioni?
Sono convinto che si tratti soprattutto di interessi ideologici, connessi al significato della clonazione che è il vero obiettivo di tale ricerca. Altrimenti non si spiegherebbe tanta insistenza su una strada che è un vicolo cieco.
Bisogna aver chiaro che qualsiasi tentativo di collocare l’inizio della vita in un momento diverso dalla fusione dell’ovulo con lo spermatozoo da un punto di vista biologico non è giustificabile. Al contrario, separare l’attribuzione della dignità umana dall’inizio della vita biologica è bioeticamente esplosivo.
Ma se la ricerca sugli embrioni è senza futuro perché ci sono tanti investimenti su questo settore?
È soltanto il denaro pubblico che finanzia questa ricerca, dovuto all’ignoranza di politici che cedono alle pressioni di una certa cultura. Poi giocano anche le ambizioni di singoli scienziati e di singoli Paesi. Non a caso questa situazione favorisce la frode scientifica: il caso del professore sudcoreano Hwang Woo-suk è stato soltanto il più clamoroso di una lunga serie.
Lei dunque sostiene che non ci siano in ballo grossi interessi economici?
Guardi, l’unico interesse economico in questo caso sta nel fatto che l’uso dell’embrione umano è molto più conveniente.
In pratica è a costo zero, mentre l’uso di animali è molto più costoso. Un solo embrione di scimpanzé, il più simile all’umano, costa all’incirca 3mila euro. Ma anche gli esperimenti con i topi sono molto costosi: una cavia costa circa 300 euro l’anno e per una qualsiasi ricerca ce ne vuole una grande quantità.
Liberalizzare la ricerca sugli embrioni equivarrebbe dunque a un forte risparmio per i laboratori.
© Copyright Avvenire, 21 novembre 2007
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