10 novembre 2007
Mons. Marchetto: il Concilio Vaticano II fu “comunione, anche col passato, con le origini, identità in evoluzione, fedeltà nel rinnovamento"
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Magno fu il Vaticano II”, e di grande valore “dottrinale, spirituale e pastorale”, anzi “icona” stessa del cattolicesimo, “comunione, anche col passato, con le origini, identità in evoluzione, fedeltà nel rinnovamento”. Così dice monsignor Agostino Marchetto, arcivescovo e giurista, vox clamans dell’ermeneutica “antibolognese”, o semplicemente riveduta e corretta dopo una libera uscita interpretativa del Concilio durata oltre un trentennio. Oppure il Vaticano II fu un anzitutto “un evento”, anzi “a watershed event”, una lavata che ha spazzato via tutto quel che c’era prima, come ha scritto la sociologa delle religioni Melissa Wilde in un saggio che ricostruisce la “guerra fra schieramenti” che fu combattuta nella più grande assemblea che la gerarchia cattolica abbia mai organizzato.
Non è poca cosa stabilire se si trattò di un “evento” destinato a cambiare il destino della chiesa, una “transizione epocale”, o un passo nel suo cammino, un “aggiornamento” nella continuità.
Per monsignor Marchetto la risposta è data: “Se ‘evento’ non è tanto un fatto importante, ma una rottura, una novità assoluta, il nascere ‘in casu’ quasi di una nuova chiesa, una rivoluzione copernicana, il passaggio, insomma, a un altro cattolicesimo – perdendone le caratteristiche inconfondibili –, detta prospettiva non potrà e dovrà essere accettata proprio per la specificità cattolica”.
E pazienza se quella posizione “estrema, oltranzista, è riuscita, dopo il Concilio, quasi a monopolizzarne finora l’interpretazione, rigettando ogni diverso procedere, vituperandolo magari di anticonciliare” come fece don Giuseppe Dossetti nel suo “Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione”).
E’ tornato a parlarne, a combattere la sua battaglia nella quale invero “ci si sente un po’ soli”, anche se ci si sente un po’ consolati “da quanto accadde pure per il Concilio di Trento”, cioè che ci volle del tempo per far giustizia dell’ermeneutica partigiana di Paolo Sarpi. Poiché l’occasione era un convegno svoltosi ieri ad Ancona, monsignor Marchetto è andato più di sciabola del solito nel ribadire con una certa evangelica durezza le posizioni che aveva già espresso nel suo “Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia”, e cioè che esiste una vulgata del Concilio come un momento di rottura, e che tale idea è sbagliata. O meglio: che gli storici guidati dal professor Giuseppe Alberigo (morto lo scorso giugno), o che “si trovano fondamentalmente in una stessa linea di pensiero, sono riusciti, con ricchezza di mezzi, industriosità di operazioni e larghezza di amicizie, a monopolizzare ed imporre una interpretazione – secondo noi – scentrata”, grazie specialmente alla pubblicazione della monumentale “Storia del Concilio Vaticano II” in cinque volumi edita per l’Italia dal Mulino.
Le sciabolate dell’arcivescovo insistono proprio sull’atteggiamento storiografico di Alberigo e della sua scuola, “e cioè il fatto che tale lavoro abbia utilizzato in larga parte fonti documentarie (memorialistiche, carte preparatorie) sovrapponendole o più spesso contrapponendole alle fonti ufficiali. Cosa ancor meno apprezzabile, secondo Marchetto, in quanto per ammissione di Alberigo stesso “gli studi condotti sino ad ora hanno utilizzato una parte relativamente ridotta di questa massa documentaria”.
Ribatte Marchetto: “E’ buono a sapersi, poiché ciò conferma il nostro giudizio circa le scelte ‘ad usum delphini’ delle fonti”. Lo “spirito del Concilio” usato contro la sua lettera, insomma, nella miglior tradizione della chiesa e della teologia progressista.
“La problematica soggiacente all’utilizzo dei diari” ha detto ieri monsignor Marchetto nella sua relazione, “è, per molti, legata all’impegno a diminuire l’importanza dei documenti finali conciliari (lo “spirito” del Concilio! Ma è invece spirito di questo corpus), sintesi di Tradizione e rinnovamento (= aggiorna-
mento), per fare prevalere una ricerca “mirata” (in precedenza), che ci è apparsa ideologica fin dagli inizi.
Essa “punta” solo sugli aspetti innovativi, sulla discontinuità rispetto alla Tradizione”.
Se lo scontro storiografico fosse solo la punta dell’iceberg di una battaglia che va avanti da decenni e che vede la scuola di pensiero del “Concilio tradito” a quella del “Concilio come tradimento”, sarebbe poca cosa. In fondo, come ripete spesso lo storico Alberto Melloni – erede intellettuale e anche spirituale di Alberigo – soltanto la contrapposizione tra due leggende nere speculari. Ciò che rende invece cruciale il dibattito, anche per l’oggi, anche per l’osservatore laico, è però altro dall’acribia interpretativa e dalla pur decisiva polemica metodologica sull’uso delle fonti. Ciò che interessa è che quella in corso è una vera guerra culturale, la contrapposizione tra due modi di pensare la chiesa e il suo rapporto con il mondo. Non solo una guerra civile interna al cattolicesimo, ma una disputa (anche teologica) che mette in gioco la storia, che decide quel che la chiesa abbia da dire – o non più da dire, e in che modo – alla modernità.
O meglio, visto che è trascorso quasi mezzo secolo, alla postmodernità. Mezzo secolo che, del resto, si sente tutto: è innegabile che il Vaticano II, di cui sempre si cita la “freschezza” e l’eterna giovinezza, si porti dietro ormai anche una certa allure da “evento” sì, ma degli anni Sessanta: un po come i Beatles e la guerra del Vietnam. Un evento che, con la sua valenza mediatica, la sua carica di “ottimismo”, di democrazia, di cambiamento, ha molto a che fare, oltre che con la dottrina della chiesa, anche con la società, la politica e perfino l’estetica di allora. E, giocoforza, ritiene Marchetto, anche la “nuova storiografia” che allora si andava affermando, e che si prendeva la responsabilità, con l’interpretazione del passato, anche degli
eventi del presente (e del futuro). Il “vento del Concilio” e l’aria degli incipienti anni 60 erano fatalmente – ma in molti pensarono provvidenzialmente – destinati a incrociarsi, generando entusiasmanti vortici ascensionali, ma anche paurose burrasche e più di qualche depressione atmosferica.
Un vortice di retorica che contagiò un po’ tutti, anche gli incolpevoli, come ebbe a scrivere Alberto Cavallari: “Roma, Castel Sant’Angelo, e tu-che-ti-trovi- immerso nel fiume del cattolicesimo”.
Basterebbe rileggere le ariose e solari cronache della chiusura del Concilio, l’8 dicembre 1965, tutte giocate sul paragone con il cielo plumbeo e la pioggia che accompagnarono, tristi presagi della fine del potere temporale, la conclusione del Concilio Vaticano I nel luglio del 1870.
La memoria collettiva del Vaticano II è rimasta in gran parte ancora quella, immersa nell’aria dei favolosi Sixties, mentre è stata perfettamente rimossa la cronologia reale degli eventi. Tanto per dire: il Concilio si aprì mentre scoppiava la crisi dei missili a Cuba e Kennedy istituiva il blocco navale, tanto che qualcuno paventò che si dovessero interrompere i lavori, e che i cardinali d’Oltrecortina – tra loro c’erano Stefan Wyszynski e Karol Wojtyla – dovessero rientrare in fretta, in attesa della catastrofe.
Fare i conti con l’ermeneutica del Concilio significa un po’ anche doverli fare con visioni della storia largamente smentite dai fatti, ma che continuano a sopravvivere nella storiografia immaginaria e che, se pure non hanno un rapporto diretto con i fatti della chiesa, ugualmente hanno a che fare con ciò che essa ha pensato e proclamato di sé allora, e pensa e dice di sé oggi.
Affermare che “la chiesa quasi coincide con l’umanità”, è una sottile battaglia teologica e intraecclesiale, ma anche una tremenda battaglia culturale.
E, come tutte le cose che riguardano la chiesa, riguardano tutti.
Come ad esempio se dovesse allora, in Concilio (e debba oggi) contare più la dottrina – cioè il proclamare una Verità – o se anche la chiesa è destinata a un abbraccio relativista con il mondo in cui tutto è relativo, magari soggiacendo alle “regole della democrazia”, anche demoscopica.
Marchetto si sente un po’ solo, di fronte alla monumentalità degli studi dei suoi avversari e all’interpretazione corrente dei documenti conciliari. Del resto, la potenza di fuoco degli studi è pari alla forza di organizzazione che nel Concilio la “minoranza” progressista seppe organizzare con metodo da guerriglia parlamentare (“la mia esperienza assembleare… ha capovolto le sorti del Concilio”, sostenne don Giuseppe Dossetti, “io agivo come un partigiano”).
Questa posizione estrema, “oltranzista”, è la stessa che poi “è riuscita, dopo il Concilio, quasi a monopolizzarne la interpretazione, rigettando ogni diverso procedere, vituperandolo magari di anticonciliare”, dice Marchetto citando proprio il Dossetti di “Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione”.
Da qui nasce per lui “la necessità di una corretta esegesi”, di una ermeneutica veritiera, cioè di una interpretazione fondata e rispettosa di ciò che un Concilio ecumenico è”.
Il Concilio è stato qualcosa di enorme, solo gli Atti ufficiali sono raccolti in 62 grossi tomi. E dunque qualcosa non quadra, pensa Marchetto, se “molti però hanno iniziato a tessere la loro tela d’insieme ancor prima della pubblicazione degli Atti, indispensabili”, e basandosi su scritti privati e addirittura “su giornali contemporanei e cronache”.
Le critiche di Marchetto alla storiografia bolognese progressista vanno dunque alla ragione, a quell’idea di “rivoluzione dello spirito” (“la rivoluzione d’ottobre della chiesa”, aveva definito il gran teologo domenicano Yves Congar le tesi più estreme discusse
nell’Assemblea) che vi è sottesa. Ma poi va oltre, ad esempio smontando la forzatura alberighiana di una contrapposizione netta tra Papa Giovanni XXIII e il suo successore, Paolo VI (ovviamente quello di Montini sarebbe stato un vero tradimento dello “spirito” del Concilio). Semplicemente, Paolo VI pensava che “non sarebbe dunque nel vero chi pensasse che il Concilio Vaticano II rappresenti un distacco, una rottura o una liberazione dall’insegnamento della chiesa, o autorizzi o promuova un conformismo alla mentalità del nostro tempo, in ciò che esso ha di effimero e di negativo”.
Fu battaglia vera, per decidere se la chiesa dovesse restare salda nelle sue posizioni o cedere “alla mentalità del nostro tempo”, al lato effimero della storia. Fu il cardinale belga Leo Joseph Suenens, campione dei progressisti, a prendere la parola il 4 dicembre 1962, dichiarando che “il Concilio
dovrà abbracciare due vasti settori: quello della chiesa ad intra e quello della chiesa ad extra”. Secondo tutti gli storici, quel suo intervento “quadro” ebbe la forza di rivoluzionare il piano dei lavori del Concilio, mandando a rotoli i progetti di coloro che intendevano terminare il più in fretta possibile i lavori, limitando il dibattito alle sole questioni “ad intra”. Marchetto risponde a queste interpretazioni.
Le stesse che vedono nel terzo periodo dei lavori sinodali, quello tra il settembre e il novembre del 1964, “la settimana nera” del Concilio. Le stesse che leggono la famosa “Nota Explicativa Praevia”, inserita per volere personale di Paolo VI nella costituzione “Lumen Gentium”, quella sulla chiesa, in cui veniva confermata e garantita la posizione primaziale del Papa all’interno del collegio episcopale, la “sconfitta” delle utopie “collegiali” e demacratizzanti dei padri sinodali.
“Alberigo proponeva una sorta di democratizzazione della chiesa affermando che ‘l’egemonia del sistema istituzionale sulla vita cristiana’ aveva toccato l’apice con la qualifica dogmatica del primato e dell’infallibilità magisteriale del vescovo di Roma’”, dice.
“Sono invece – asseriva Alberigo ‘la fede, la comunione e la disponibilità’ al servizio che fanno la chiesa”. Una “chiesa senza Papa”, avrebbe ironizzato con amarezza in quegli stessi anni Guido Morselli. Perché ovviamente dire se conta di più la dottrina o la comunione, se conta di più l’adesione alla storia umana o la verità, cambia molto del cosa ci stia a fare la chiesa nel mondo. Infatti, secondo la storiografia di Alberigo, “pastoralità e aggiornamento avrebbero posto, congiuntamente… le premesse per il superamento della egemonia della ‘teologia, intesa come isolamento della dimensione dottrinale della fede e sua concettualizzazione astratta, come anche quella del ‘giuridismo’”. “Pastoralità e ‘aggiornamento’ contro ‘teologia’ e dimensione dottrinale” sono, ha scandito Marchetto con decisione, affermazioni assai gravi: “La fede e la chiesa non appaiono più coestensive con la dottrina, la quale non ne costituisce neppure la dimensione più importante”.
Addirittura, nell’ermeneutica progressista, “l’adesione alla dottrina, e soprattutto a una singola formulazione dottrinale, non può più essere il criterio ultimo per discernere l’appartenenza all’Unam sanctam”.
Da dove viene la debolezza, anche culturale, della chiesa cattolica degli ultimi decenni, la sua arrendevolezza al mondo “effimero”, per dirla con Paolo VI, anche su questioni dottrinali decisive? La stagione successiva al Concilio è quella che Papa Montini riassunse qualche anno dopo in una omelia drammatica: “Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio […]. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio”.
Era il clima ecclesiale nel quale sarebbero maturate la “grande apostasia” sull’“Humanae Vitae” e il “tradimento dei chierici” sulla campagna del divorzio in Italia.
L’ecumenismo inteso come superamento della dottrina in nome della pastorale, e di un nuovo embrassons-nous con il mondo è un altro punto su cui Marchetto insiste nella sua opera di demistificazione dell’ermeneutica progressista: “Proprio in tema di ecumenismo, Alberigo torna a sostenere che gli osservatori a-cattolici “erano stati sostanzialmente membri, sia pure sui generis (‘informali’) del Concilio”, durante il quale vi fu una “communicatio in sacris’ sia pure imperfetta”.
Secondo Alberigo, “in questo modo è emersa – sia pure in filigrana – nel Vaticano II una concezione pastorale-sacramentale del cristianesimo e della chiesa, che tende a sostituire una precedente concezione dottrinale-disciplinare”. Monsignor Marchetto non ne può più: “A sostituire? Domando stupito”.
Neanche la presunta distinzione che il Concilio avrebbe indicato tra chiesa e regno di Dio, che avrebbe posto “le premesse per un superamento dell’ecclesiocentrismo, e perciò per una relativizzazione della stessa ecclesiologia” convincono l’arcivescovo.
Parlare di “un rapporto organico tra storia e salvezza”, in grado di superare “la dicotomia tra storia profana e storia sacra” è qualcosa che va decisamente oltre la dottrina. Ma soprattutto, se “la storia viene riconosciuta come ‘luogo teologico’”, come sarà possibile per la chiesa continuare a dire i suoi “no” sulla direzione intrapresa dalla storia? E questa, di nuovo, è battaglia culturale che non riguarda solo l’interna ecclesiologia cattolica. O meglio, un’ecclesiologia che preveda, con Alberigo, che siano “la fede, la comunione e la disponibilità al servizio” a essere “i valori-guida sui quali si misura la inadeguatezza evangelica della struttura e dei comportamenti delle istituzioni”, finalmente liberi dalla “egemonia del sistema istituzionale sulla vita cristiana”, ha a che fare con le guerre culturali dell’oggi.
© Copyright Il Foglio, 10 novembre 2007
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1 commento:
mamma mia! che polemiche d'antan... sanno di naftalina!
meno male che la Chiesa, il mondo hanno superato queste querelles di 50 anni fa...
meno male che il Concilio è più contemporaneo di queste letture asfittiche che addirittura vorrebbero consegnarlo al mondo dei "golden '60"...
meno male che il Papa ha fatto piazza pulita di questi inutili giochini che hanno paralizzato molti ambienti ecclesiali...
magari potessimo leggere oggi il volume citato di Dossetti (un volume prezioso che conosco bene) e scoprire la bellezza di un momento storico, quello del Concilio, non ancora confuso con la "rivoluzione sessantottina"... si scoprirebbe che tra i partigiani c'era anche un certo Joseph Ratzinger, un certo card. Montini... si scoprirebbe che il "nemico" era soltanto il ripiegamento della Chiesa su se stessa...
e si capirebbe che l'operazione, poco riuscita a dire il vero di mons. Marchetto è quella di andare a cercare qualche nota stonata in un pezzo suonato con perizia e con professionalità... nessuno è perfetto, ma da qui a dire che se uno fa qualche piccolo errore di diteggiatura è un sovvertitore e un disonesto ce ne corre... mons. Marchetto vada a lezione da Benedetto XVI e il sig. Crippa si legga almeno i titoli dei 5 volumi della Storia del Concilio Vaticano II... basterebbe a scrivere e dire cose più sensate e, magari, più utili al momento che viviamo
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