26 febbraio 2008

«Aiuto concreto alle famiglie nel calvario della sofferenza». Benedetto XVI auspica una innovazione del welfare


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VANGELO E SOCIETÀ

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«Aiuto concreto alle famiglie nel calvario della sofferenza»

Benedetto XVI auspica una innovazione del welfare: non lasciamo soli i congiunti dei malati inguaribili

DA ROMA GIANNI SANTAMARIA

Uno sguardo di autentica compas­sione e solidarietà ai morenti. Sen­za tralasciare i cari che li accom­pagnano all’ultima stazione dell’esisten­za. E senza cedere alla tentazione di con­siderare l’eutanasia una soluzione. La so­cietà – e in essa la comunità cristiana – è chiamata a non abbandonare chi si apre a una nuova dimensione, ha detto ieri il Pa­pa, ricevendo i partecipanti al congresso della Pontificia Accademia per la vita «Ac­canto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici e operativi».

Il Pontefice è arrivato fino a suggerire al­cuni interventi di welfare concreti a favo­re della famiglia gravata dalla malattia di un congiunto. Un’assistenza qualificata anche a casa, certo. Ma anche «sul versante della regolamentazione del lavoro», ai pa­renti stretti dovrebbero essere riconosciu­ti, «specialmente in certe circostanze», di­ritti simili a quelli che si hanno per la na­scita di un figlio con i congedi parentali.

«In una società complessa, fortemente in­fluenzata dalle dinamiche della produtti­vità – ha sottolineato Benedetto XVI – le persone fragili e le famiglie più povere ri­schiano, nei momenti di difficoltà econo­mica e/o di malattia di essere travolte». Il pensiero del Pontefice è andato, in parti­colare, alla solitudine di tanti anziani nel­le grandi città, un muro che spesso non si rompe neppure quando essi si trovano in condizione di estrema sofferenza. «In tali situazioni – ha constatato amaramente il Papa – le spinte eutanasiche diventano pressanti, soprattutto quando si insinui u­na visione utilitaristica nei confronti del­la persona». Da questo spunto la reiterata «ferma e costante condanna etica di ogni forma di eutanasia diretta, secondo il plu­risecolare insegnamento della Chiesa».

Ma davanti agli oltre 500 partecipanti – tra membri dell’accademia, collaboratori ed esperti – Benedetto XVI ha parlato non so­lo della «salvaguardia» e del «rispetto del­la vita umana in ogni momento del suo sviluppo terreno» a cui è tenuta l’intera so­cietà «e in particolare i settori legati alla scienza medica».

Ha pure toccato i temi della proporzionalità delle terapie (distin­guendo tra interventi «ordinari» e «straor­dinari », con il ricorso ai secondi «moral­mente lecito, ma facoltativo») e delle cure assistenziali, che vanno sempre assicura­te. Fino, appunto alle proposte sul versante sociale.

Tutte considerazione di cui il convegno ha fatto tesoro. All’udienza i partecipanti e­rano giunti verso mezzogiorno, dopo le prime due relazioni. Il presidente della Pontificia Accademia, il vescovo Elio Sgrec­cia, aveva tratteggiato in apertura il clima culturale nel quale l’istituzione da lui pre­sieduta ha organizzato – in coincidenza con la XIV assemblea – questo terzo con­vegno sui temi riguardanti la vita moren­te (dopo il 1999 e il 2004). In molti Paesi, come il Belgio e l’Olanda e altri in diversa misura, esistono «leggi permissive che stanno dimostrando la loro aggressività, secondo la logica del piano inclinato». Cioè, quando si inizia, non si sa dove si va a finire. Occorre, invece, «incidere sulle ra­dici culturali» che causano l’abbandono del morente e la «non considerazione del­la sua dignità di persona». Il cardinale Ja­vier Lozano Barragan, presidente del Pon­tificio Consiglio per la pastorale della sa­lute, ha messo in guardia: quando l’«ideo­logia » si sostituisce alla «scienza» suben­trano di sicuro la «supremazia del più for­te » e di conseguenza «la distruzione del più debole».

Il convegno ha poi affrontato ieri temi le­gati alla visione della morte nella Bibbia, nella teologia morale e nella scienza me- dica, vista con occhio etico e un partico­lare riguardo al settore delle cure palliati­ve. Dal grido – seguito poi dal silenzio – di Giobbe, evocato dal sacerdote francese Jean-Baptiste Edart. Fino alla frase dello psichiatra Viktor Frankl che il teologo a­mericano John Capizzi ha posto a suggel­lo della sua relazione sull’impatto della se­colarizzazione sul senso della vita: «L’uo­mo non è distrutto dalla sofferenza, ma dalla sofferenza senza significato». I lavo­ri proseguono oggi. «Cerchiamo di indivi­duare i criteri che possano aiutare i medi­ci nelle scelte da fare – spiega monsignor Maurizio Calipari, teologo morale dell’Ac­cademia –. Criteri condivisibili da laici e cattolici, perché guardano al bene della persona. Non bisogna lasciare assoluta­mente i medici da soli. Ma aiutarli con spa­zi di riflessione e di confronto».

© Copyright Avvenire, 26 febbraio 2008


L’esperto: sì ai congedi parentali

DI FRANCESCA LOZITO

«Gli operatori delle cure palliative cat­tolici e laici non possono che raccogliere la solleci­tazione di Benedetto XVI: siamo naturalmente favo­revoli alla possibilità che vengano introdotte delle forme di congedo paren­tale per assistere familiari malati che si trovano in si­tuazioni di malattia termi­nale. Per noi sarebbe un bel segnale se le istituzio­ni politiche rendessero concreta questa propo­sta ».

Ad affermarlo è Gio­vanni Zaninetta, presi­dente della Società italia­na di cure palliative (Sicp) e direttore dell’hospice della casa di cura Domus Salutis di Brescia, il primo nato in Italia vent’anni fa per intuizione della con­gregazione delle Ancelle della Carità.

La famiglia è soggetto at­tivo nella cura della per­sona colpita da una pato­logia inguaribile?

Certo, può essere un care giver molto importante, noi lo riscontriamo tutti i giorni nel nostro lavoro; per questo è necessario che essa stabilisca un rap­porto di stretta collabora­zione con medici e infer­mieri di un’assistenza do­miciliare che sia garantita su tutto il territorio secon­do standard di qualità. Nello stesso tempo, però, è necessario che anche la fa­miglia sia assistita dal punto di vista psicologico e materiale proprio per of­frire il miglior aiuto al pa­rente malato.

In quest’ottica colpisce la sottolineatura del Papa in merito alla possibilità che la società pensi a forme di sostegno concreto all’as­sistenza di chi deve fron­teggiare situazioni di cro­nicità.

Di sicuro questo è il pas­saggio più interessante di tutto un discorso che s’in­serisce nel solco di quanto il Santo Padre aveva già af­fermato più volte in passa­to, in particolare quando nel settembre scorso parlò al corpo diplomatico au­striaco, dimostrando di a­vere molto a cuore la que­stione della gestione delle fasi finali dell’esistenza, guardando – come direb­be la fondatrice delle cure palliative moderne, Cicely Saunders – al dolore tota­le del malato terminale.

Per questo però bisogna fare degli investimenti molto concreti..

Certo, e non basta allora sottolineare la messa a punto avvenuta negli ulti­mi anni della cosiddetta rete degli hospice. Queste strutture residenziali de­vono continuare a garan­tire nel tempo degli stan­dard elevati, come di qua­lità deve continuare a es­sere la formazione degli o­peratori delle cure pallia­tive. E bisogna scommet­tere su un’assistenza do­miciliare, che in molte par­ti d’Italia ancora non c’è, ma che deve nascere assi­curando prima di tutto u­na copertura sulle venti­quattr’ore sette giorni su sette.

Un richiamo che non ri­guarda solo la comunità dei cristiani, no?

È importante, infatti, il pa­rallelo fatto dal Papa tra quanto deve fare la comu­nità religiosa – si pensi al­l’impegno che può met­terci una rete di prossimità forte come la parrocchia, in questo caso in grado di intercettare le situazioni di criticità in maniera più im­mediata – e quanto invece può fare la società non so­lo dal punto di vista della messa in campo delle cu­re mediche: la medicina palliativa, lo ribadiamo, at­traverso lo sguardo olistico nei confronti del malato inguaribile si preoccupa di curarne non solo gli aspet­ti più strettamente clinici, ma anche quelli psicologi­ci, sociali e spirituali.

Il Papa ribadisce sempre che la tutela della vita va difesa dall’inizio alla fine di un’esistenza. Che ne pensa?

Proprio nell’ottica di un di­scorso che guarda a tutti i cittadini mi piace sottoli­neare un concetto: la ci­viltà di una società non si misura solo dalla qualità della vita che è in grado di garantire, ma anche dalla qualità della morte, un ac­compagnamento adegua­to in termini umani e sa­nitari. Che mantenga il percorso del morire den­tro il percorso della vita e che non lo rimuova rele­gandolo in una condizio­ne di abbandono.

Un monito a prendersi ca­rico delle tante situazioni di fragilità, che, come ri­corda lo stesso Benedetto XVI, si possono incontra­re spesso soprattutto nel­le metropoli urbanizza­te...

E qui, oltre al discorso molto pratico e importan­te, c’è anche un riferimen­to alla possibilità di dare u­na testimonianza della speranza che è insita in o­gni persona. Il riferimento esplicito a Madre Teresa vuole sottolineare come chi è solo e disperato può essere accolto e curato sempre: è una questione di dignità universale.

© Copyright Avvenire, 26 febbraio 2008

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