26 febbraio 2008
Lo strano caso di chi si uccide per sentirsi vivo (Osservatore Romano)
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Lo strano caso di chi si uccide per sentirsi vivo
di Ferdinando Cancelli
Medico chirurgo
Dal suo letto d'ospedale Paolo Caccone, monaco della Piccola Famiglia dell'Annunziata di Monteveglio (Bo), malato di Aids, morto nel 1992, scriveva queste parole "Ho sentito stamane dei medici parlare fra loro così: "Quello che vogliamo è la qualità della vita, lo stare bene, l'essere efficienti - intendevano dire - non la sua durata".
Secondo me questo discorso è pericoloso, e può portare diritto alla scelta dell'eutanasia. E poi al livello più profondo della verità e del mistero, la vita capace di scelte definitive e dell'accoglienza di valori supremi può coesistere con la dissoluzione del corpo. Come si è verificato con il mio amico Domenico che, ormai ridotto ad una larva, ha potuto confessarsi benissimo".
Sono parole ineludibili per tutti nella loro evidenza, ancor più per chi direttamente si occupa di cure palliative, di assistere quei malati che, come Paolo, sono giunti all'epilogo della loro storia di malattia, della loro storia di vita terrena. Proprio scavando dentro queste parole possiamo far emergere quanto ci dicono e ci chiedono i malati che quotidianamente incontriamo nella nostra pratica clinica.
"Ho sentito stamane dei medici parlare fra loro così...". Il rispetto per la vita al termine passa prima di tutto di qui: il malato è in ascolto e insegna a coloro che gli sono vicino a restare in ascolto, in una dimensione di serenità e di accoglienza che permetta l'apertura reciproca basata sulla fiducia.
Troppo spesso il bisogno di Verità e di Mistero è soffocato dalla rumorosa superficialità di un efficientismo utile soltanto a innalzare barriere per nascondere la paura di chi, restando accanto al morente, deve fare i conti con la propria fragilità. Il malato, come spesso ripeteva Madre Teresa, ha sete: è inchiodato alla propria croce, accanto a Gesù, molto vicino ormai a quella Verità che magari ancora stenta a riconoscere ma dalla quale spesso sembra come illuminato sulla sua difficile strada. Come è facile per il medico che sa ascoltare restare sorpreso dalle parole di un paziente, dalla sua tranquillità di fronte alla morte, dalla vitalità al di là delle apparenze di un corpo ferito.
"Quello che vogliamo è la qualità della vita, lo stare bene, l'essere efficienti...".
Il rischio è tutto sintetizzato in queste poche parole: è giusto usare il concetto di qualità della vita o piuttosto, dando per scontato che ogni vita è di qualità, adoperarsi con tutta la professionalità e l'umanità della quale si dispone a farne fiorire la dignità profonda, intrinseca all'esistere come persona?
Le derive eutanasiche alle quali può portare questo "discorso pericoloso" udito da Paolo e da molti altri pazienti come lui, oggi sono una minaccia insidiosa ma presentissima, un elemento che rischia di inquinare la logica stessa che sta alla base delle cure palliative, che sta alla base della professione medica. Spesso con la maschera della pietà si vorrebbero indurre i malati inguaribili a preferire la morte, facendo loro subdolamente credere, con un condizionamento costante che dura una vita, che, giunti al termine dei loro giorni terreni e ormai "inutilmente sofferenti", meglio sarebbe dare un'ultima dimostrazione di autodeterminazione: decidere quando e come morire.
Per far passare questo comodo messaggio spesso la falsificazione si spinge fino al punto da far ritenere come comune la richiesta di porre fine ai propri giorni per chi è in fase terminale di malattia.
Nulla di più falso: la richiesta eutanasica, rarissima sia negli hospices sia al domicilio, è figlia dell'abbandono terapeutico e della mancata alleanza tra medico e paziente, della superficialità che troppo spesso i mezzi di informazione hanno nell'affrontare temi così delicati finendo per creare una forte ed emotiva pressione sociale.
"La vita capace di scelte definitive e dell'accoglienza di valori supremi può coesistere con la dissoluzione del corpo". Spesso al letto del malato ci sentiamo interrogati in questo senso: chi è veramente l'uomo? Si è uomini veri perché "si decide" o perché "si accoglie"? La risposta di Paolo Caccone va in questa direzione: si è uomini completi, uomini vivi, quando si è capaci di "accogliere" e si è capaci di accogliere soltanto quando si è accolti.
Ancora una volta l'alleanza terapeutica diventa il luogo di scambio fruttuoso in cui il malato, la sua famiglia e i curanti possono camminare verso i valori supremi.
"Si può dimenticare il degrado del proprio corpo se lo sguardo degli altri è pieno di tenerezza" afferma Marie de Hennezel in uno dei suoi più noti scritti: a questa indispensabile tenerezza le cure palliative cercano di unire la più scrupolosa preparazione professionale anche se, soprattutto nel nostro paese, sembra ancora molto lunga la strada da percorrere per riconoscere alla disciplina quella dignità di specialità medica che meriterebbe e per garantire a coloro che in tale campo si vogliano formare la possibilità di accedere a corsi di formazione post laurea orientati alla "cultura della vita".
A tal proposito, non è possibile per l'operatore sanitario cattolico non riconoscere il fondamentale contributo dato anche molto recentemente dal Magistero della Chiesa alla fondazione stessa dell'assistenza ai morenti. "È necessario sottolineare ancora una volta la necessità di più centri per le cure palliative che offrano un'assistenza integrale, fornendo ai malati l'aiuto umano e l'accompagnamento spirituale di cui hanno bisogno" scriveva Benedetto XVI nel Messaggio per la quindicesima giornata mondiale del malato.
Lo stesso Benedetto XVI è ritornato in più occasioni a incoraggiare l'operato di quanti ogni giorno si prodigano accanto ai morenti a servizio della vita. Prima di lui, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, oltre ad averci donato le fondamentali encicliche Salvifici doloris ed Evangelium vitae, così scriveva proprio in quest'ultima: "Urge coltivare in noi e negli altri uno sguardo contemplativo. Questo nasce dalla fede nel Dio della vita, che ha creato ogni uomo facendolo come un prodigio (Salmi, 138). È lo sguardo di chi vede la vita nella sua profondità, cogliendone le dimensioni di gratuità e di bellezza, di provocazione alla libertà e alla responsabilità. È lo sguardo di chi non pretende di impossessarsi della realtà, ma la accoglie come un dono, scoprendo in ogni cosa il riflesso del Creatore e in ogni persona la sua immagine vivente. Questo sguardo non si arrende sfiduciato di fronte a chi è nella malattia, nella sofferenza, nella marginalità e alle soglie della morte; ma da tutte queste situazioni si lascia interpellare per andare alla ricerca di un senso e, proprio in queste circostanze, si apre a ritrovare nel volto di ogni persona un appello al confronto, al dialogo, alla solidarietà".
Sono proprio queste le risposte alle domande, espresse e inespresse, nostre e dei nostri pazienti.
(©L'Osservatore Romano - 25-26 febbraio 2008)
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