26 febbraio 2008

Joseph Ratzinger andò al Concilio con la mente a Bagnoregio (Mons. Amato per l'Osservatore Romano)


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Al Concilio Vaticano II Con la mente a Bagnoregio

di Angelo Amato

È ampio e molteplice il mondo culturale di Benedetto XVI. Ne fa fede la sua bibliografia.
I suoi interessi teologici coprono l'intera area della dottrina cristiana (cfr Introduzione al Cristianesimo e Rapporto sulla Fede). Sin da giovane egli è stato sollecitato oltre che dalla ricerca anche dalle domande provenienti dalla comunità ecclesiale e dal suo ministero.
Il filo d'Arianna per un primo attraversamento della ricca biblioteca ratzingeriana può essere cronologico. Lo scorrere del tempo infatti ci fa percorrere quattro grandi saloni: la preparazione teologica, la partecipazione al Vaticano II, l'attività di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il suo magistero da Sommo Pontefice della Chiesa di Cristo.

Unica è però la preoccupazione di fondo di questa produzione teologica: ricordare a quanti sono unilateralmente propensi al presente e al futuro l'ineliminabile aggancio alla tradizione e al centro vivo della storia, che è Cristo e la sua Chiesa.

La ricerca su san Bonaventura si pone quasi all'inizio della sua carriera teologica, ben delineata nella sua autobiografia (La mia vita, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997).

In essa ci informa, ad esempio, che, nell'estate del 1950, gli fu data l'opportunità di partecipare a un concorso con una ricerca su sant'Agostino.

Il tema scelto dal professor Gottlieb Söhngen, che aveva grande stima dell'allievo Ratzinger, era: "Popolo e casa di Dio nell'insegnamento di sant'Agostino sulla Chiesa".

Per la preparazione del tema furono di grande giovamento sia la frequentazione dei Padri della Chiesa sia la lettura di Catholicisme di Henri de Lubac, in cui la fede veniva pensata e vissuta comunitariamente. Per de Lubac, inoltre, essendo la fede, per sua stessa natura, anche speranza, essa doveva investire la totalità della storia e non si limitava a promettere al singolo la sua beatitudine privata. Altra lettura significativa in quel periodo fu Corpus Mysticum dello stesso de Lubac, che dischiuse al giovane studioso un nuovo modo di intendere l'unità tra Chiesa ed Eucaristia.

Superato brillantemente l'esame di dottorato (luglio 1953), il giovane Ratzinger si preparò all'elaborazione della dissertazione per l'abilitazione alla libera docenza.

Dal momento che la precedente ricerca era stata di argomento patristico, Gottlieb Söhngen decise che la dissertazione per l'abilitazione dovesse rivolgersi al medioevo. Dopo sant'Agostino, gli parve naturale che il giovane studioso si dedicasse a san Bonaventura, passando da un tema ecclesiologico a un tema di teologia fondamentale e precisamente al concetto di rivelazione. In quel periodo c'era un grande dibattito sull'idea di storia della salvezza che implicava anche una nuova prospettiva dell'idea di rivelazione, da intendere non più come la comunicazione di alcune verità alla ragione, ma come l'agire storico di Dio, in cui la verità si svela gradatamente.
Non mancarono difficoltà per portare felicemente a termine la ricerca. Mentre il relatore, professor Söhngen, fu subito entusiasta della tesi, il correlatore, Prof. Michael Schmaus, la giudicò insoddisfacente. Riandando a questa vicenda, Ratzinger fa notare che erano almeno tre i fattori in gioco. Anzitutto il fatto che egli non si era affidato alla guida di Schmaus per affrontare uno studio sul medioevo. In secondo luogo, la constatazione che a Monaco l'indagine su questo periodo era rimasta ferma da tempo, non avendo recepito le nuove grandi prospettive elaborate nel frattempo soprattutto in ambito francescano. Questa critica diretta aveva provocato in Schmaus una forte reazione di rigetto.

Ma il contrasto era più sostanziale, perché il giovane studioso aveva constatato che in Bonaventura e, in genere, nei teologi del secolo XIII, non era pensabile un concetto di rivelazione, come l'insieme dei contenuti rivelati. Nel linguaggio medievale la rivelazione indicava azione e più precisamente definiva l'atto con cui Dio si mostra e non il risultato oggettivizzato di questo atto. Inoltre, il concetto di rivelazione implicava sempre un qualcuno che ne entrasse in possesso: "Questi concetti, acquisiti grazie ai miei studi su Bonaventura, sono poi divenuti molto importanti per me, quando nel corso del dibattito conciliare vennero affrontati i temi della rivelazione, della Scrittura e della tradizione. Perché se le cose stanno come le ho descritte, allora la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa, e non è semplicemente identica a essa. Questo significa inoltre che la rivelazione è sempre più grande del solo scritto. Se ne deduce, di conseguenza, che non può esistere un mero Sola Scriptura (...), che alla Scrittura è legato il soggetto comprendente, la Chiesa, e con ciò è già dato anche il senso essenziale della tradizione" (ibidem pagina 72).

In ogni caso, l'ostacolo fu superato quando Ratzinger si accorse che l'ultima parte della sua dissertazione, dedicata alla teologia della storia di Bonaventura, mancava completamente di osservazioni critiche e aveva di per sé una sua autonomia. Il lavoro fu quindi ristutturato e ripresentato in facoltà. La lezione pubblica di abilitazione con la discussione, abbastanza accesa soprattutto tra Söhngen e Schmaus, ebbe luogo il 21 febbraio 1957 con risultato positivo per il candidato.

A distanza di anni, il cardinale Ratzinger annotava, a proposito di questa dolorosa esperienza, che gli restava il proposito di non consentire tanto facilmente alla ricusazione di tesi di laurea o di abilitazione e di prendere le parti del più debole, quando ve ne fossero state le ragioni.

Quale è il contributo innovativo che Ratzinger riconosceva dopo qualche tempo al suo lavoro sulle Collationes in Exaemeron di Bonaventura? Fino allora, si era ritenuto che Bonaventura non si fosse interessato alle idee di Gioacchino da Fiore.

In realtà, il lavoro ratzingeriano dimostrava per la prima volta che Bonaventura, nell'interpretazione dell'opera dei sei giorni della creazione, si era minuziosamente confrontato con Gioacchino e aveva cercato di accogliere quanto poteva essere utile, integrandolo nell'ordinamento della Chiesa.

Oltre al concetto dinamico di rivelazione, lo studio sulla teologia della storia di Bonaventura aveva indicato a Ratzinger un modo originale per giungere a una comprensione dell'escatologia cristiana. Ma c'è una conseguenza durevole che Bonaventura lasciò nella mentalità di Ratzinger, il quale non avrebbe mai accettato, in quanto contrario al pensiero escatologico neotestamentario, l'assunto francescano secondo cui ci sarebbe stato sulla terra l'avvento di un'era finale dei poveri, che avrebbe preceduto l'ingresso della storia nell'eternità di Dio.

Ancora prima della teologia della liberazione, Ratzinger già valutava negativamente questa anticipazione medievale dell'escatologia liberazionista.

In conclusione, la conoscenza dei Padri della Chiesa e della grande tradizione teologica medievale e il dialogo con la cultura contemporanea sono state le coordinate sempre presenti nella mens del teologo Ratzinger sia durante la sua partecipazione al Concilio sia nella elaborazione dei numerosi documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, che lo ha avuto come Prefetto dal 1982 al 2005.

In questo suo servizio, da una parte, si è confrontato con le innumerevoli sfide provenienti da ideologie errate, da impostazioni metodologiche insufficienti, da interpretazioni dottrinali ambigue, dall'altra, però, ha promosso orientamenti chiarificatori di grande rilevanza in campo cristologico (Dominus Iesus), ecclesiologico (Communionis notio), antropologico (Donum vitae).

Da Sommo Pontefice, egli continua il suo magistero teologico non solo mediante le encicliche sulla virtù teologali - Deus caritas est e Spe salvi - ma soprattutto mediante l'opera Gesù di Nazaret, in cui l'attenzione alla storia di Cristo si fa innovativa ed essenziale cristologia biblica ed ecclesiale.

(©L'Osservatore Romano - 27 febbraio 2008)

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