25 febbraio 2008
Mons. Sgreccia: una società che mette a morte i malati terminali consentendo l'eutanasia ha smarrito il senso autentico della solidarietà al morente
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Mons. Elio Sgreccia: una società che mette a morte i malati terminali consentendo l'eutanasia ha smarrito il senso autentico della solidarietà al morente
Prima di essere ricevuti in udienza da Benedetto XVI, i partecipanti alla 14.ma Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita avevano assistito questa mattina all'apertura dei lavori - che si protrarranno fino a domani - da parte del presidente dell'Accademia, il vescovo Elio Sgreccia. Al microfono di Giovanni Peduto, il presule sintetizza le questioni affrontate nel suo intervento, in particolare gli aspetti etici della tutela della vita umana nella sua fase finale e le questioni connesse con il ricorso all’eutanasia:
R. - Ho sottolineato che è la terza volta che la Pontificia Accademia per la Vita viene a riproporre il tema dell’assistenza al morente, la condanna dell’eutanasia e le modalità obbligate per i medici nella loro condotta e nella loro somministrazione del sostegno, delle terapie e delle cure. La prima volta, nel ’99, abbiamo esaminato sia gli atteggiamenti sociali, sia la psicologia di questa società, che fa certamente fatica a pensare alla morte, che fa fatica ad accogliere il morente e ad assistere il morente, perché è tutta protesa sulla produttività. Ed abbiamo anche poi esaminato tutti gli aspetti medici dell’assistenza. Più recentemente, nel 2004, abbiamo preso in esame una categoria speciale che è quella che riguarda lo stato vegetativo persistente, dove erano appuntate le prime proposte di eutanasia per questa categoria di pazienti, che alle volte vivono a lungo, che non hanno coscienza e che vengono appunto trattati come vegetali, anche se vegetali non sono come si sa. Abbiamo, quindi, voluto precisare tutti i doveri di assistenza che ci sono in questi casi. Questa volta, invece, vogliamo prendere in esame l’ultimo tratto di questa vita e cioè il malato non più guaribile e il morente e quindi il malato più fragile che ci sia, il più afflitto anche dalla solitudine e dalla coscienza spesso pienamente consapevole di dover morire a breve. Abbiamo scelto questa categoria di paziente perché si possano, da una parte, offrire tutti gli aiuti della speranza, della speranza cristiana e, dall’altra parte, si possano dare tutti i debiti sostegni dell’assistenza medica. Ho annunciato, quindi, il programma dei lavori e quelli che saranno i temi affrontati, partendo dalla somministrazione delle terapie e come ci si deve regolare davanti alle terapie rischiose o straordinarie; come ci si deve regolare con le cure e le terapie palliative, quando la speranza della guarigione non c’è più; ma anche come si deve gestire il dolore e le terapie analgesiche; e, infine, l’importanza dell’informazione al paziente moribondo e quindi anche l’assistenza religiosa e teologica. Tutto questo, perché in questo momento che è il più fragile, il più solitario, il più afflitto venga illuminato dalle forze migliori della medicina, della società e della fede.
D. - L’eutanasia, letteralmente “dolce morte”, è presentata appunto come una fine umana per chi soffre …
R. – Così viene presentata in una società del benessere, con un volto seducente. Si tratta in realtà dell’anticipazione della morte. E’ una morte inflitta, è un abuso sul dono della vita, che non appartiene a nessuno, neanche il malato stesso può gestire arbitrariamente la sua vita. Di fronte a queste proposte di eutanasia non basta dire “no”, che è scontato e che è stato ripetuto, perché rappresenta uno dei grandi delitti che si commettono.
Anche il paziente che si trova sconfortato e che chiedesse di morire prima non va certamente accontentato in questo campo. La società e la medicina vengono chiamate e questa volta con una maggiore attenzione ad una loro responsabilità.
D. - Potrebbe diventare l’eutanasia uno strumento per eliminare persone che sarebbe costoso curare?
R. – E’ la filosofia che sottintende, che è sottesa nell’attuale spinta pro-eutanasia e suicidio assistito che ha già avuto le sue prime manifestazioni in Olanda, in Belgio e adesso preme sul Lussemburgo e la Danimarca.
Non è tanto, quindi, che si debba o che ci si stia preoccupando della sofferenza del paziente, anche perché ora come ora il dolore è dominabile da parte della medicina. Il fatto è che non abbiamo il coraggio e la forza e molte volte anche il desiderio di impegnare le forze economiche in malattie che durano molto e che costano a coloro che stanno bene, a coloro che si dovrebbero impegnare nell’assistenza. Se non si mobilita la responsabilità e la solidarietà, se permettiamo che scompaia la solidarietà accanto al morente, come sta purtroppo accadendo accanto a chi chiede di nascere dopo essere stato concepito, la società stessa cade in un precipizio, proprio perché perde i suoi valori fondamentali e il solidarismo.
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