9 ottobre 2008

Lo studio delle lingue antiche per la ricerca teologica e la liturgia: Agostino e Tommaso parlavano in latino (Inos Biffi per l'Osservatore Romano)


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Lo studio delle lingue antiche per la ricerca teologica e la liturgia

Ma Agostino e Tommaso parlavano in latino

di Inos Biffi

Non so se effettivamente lo studio precoce del latino, come avveniva a partire decenni fa dalle scuole medie, concorresse in generale a plasmare una mentalità logica e riflessiva e a iniziare alla conoscenza e al gusto della cultura classica; è in ogni caso certo che, grazie a quella impostazione scolastica, si poteva acquistare la competenza nella lingua latina che avrebbe permesso di accostare direttamente gli autori latini sia dell'antichità sia del medioevo.

Ed è la grave lacuna che oggi invece riscontriamo non solo tra gli studenti ma anche in non poca parte degli stessi più giovani docenti.

Per fermarsi ai primi: lo avvertono quanti - per esempio in una facoltà o in uno studio superiore di teologia - sono chiamati a proporre titoli di tesi e a guidarne lo svolgimento. È infatti sempre più raro che si trovino studenti in grado di elaborare ricerche di carattere scientifico su autori di lingua latina.
È vero che oggi sono sempre più disponibili le versioni, e in parecchi casi l'edizione bilingue, ma è difficile che su tali versioni si possa fondare una ricerca filologicamente e dottrinalmente sicura, capace di rendere, con rigorosa precisione e con attenzione alle sfumature, il contenuto di un testo: senza dire che le stesse versioni risentono della carenza di esperti nella lingua originale e che proprio il lavoro spesso arduo della versione personalmente compiuta nel corso della ricerca è la prima via per cogliere il pensiero di un autore.
Per fare qualche esempio: come si potrà redigere una tesi su sant'Ambrogio, dalla lingua dotta e coltivata e dalla scrittura estremamente costrutta - più di quella di sant'Agostino - se si ignora il latino?
Lo stesso si dica di san Bernardo di Clairvaux, forse lo scrittore più ricercato e geniale della letteratura cristiana latina, così ricco di risonanze, con quel suo capolavoro che è il Commento al Sacro Cantico: una summa di virtuose invenzioni retoriche, che rendono così musicale e brillante la sua prosa. Potremmo continuare col sottile Anselmo d'Aosta o l'austero Pier Damiani, le cui opere sono straripanti di clausole e di eleganze linguistiche.
Se proseguiamo nel tempo: vien da chiedersi come uno che ignori il latino potrebbe capire Tommaso, col suo linguaggio essenziale, preciso, abitualmente anche tecnico, in una parola: il suo latino scolastico, e pure nel suo caso dotato di una sua pacata bellezza e di un suo nitore?
O come potrebbe in queste condizioni seguire il linguaggio di san Bonaventura, che è tutto un esuberante tessuto di immagini, quasi una evocazione di colori e di suoni, con l'incontenibile creatività delle sue immagini, come in uno spettacolo pirotecnico, con l'inarrestabile espandersi dei suoi verbi, che fanno di lui il più fecondo e sorprendente creatore del linguaggio figurato?
Per non dire, restando ancora nell'ambito medievale, del latino arduo di Duns Scoto e di quello impegnativo di Occam.
Si dovrebbe, anzi, aggiungere che, se per un verso si può parlare di latino patristico e medievale, in realtà, dall'altro verso, si deve parlare del latino proprio di ogni autore, con il suo stile, il suo gusto, che si possono conoscere solo con una prolungata frequentazione.
La conseguenza di questo progressivo scarseggiare della competenza linguistica latina porta ovviamente gli studenti a riversarsi - oltre che sulle versioni - su autori moderni e contemporanei. Senza dubbio, non mancano teologi moderni, o contemporanei, dottrinalmente ricchi e interessanti, ma gli incipientes - come li chiama san Tommaso nel Prologo della Summa Theologiae - mancano normalmente e ovviamente della preparazione indispensabile per una seria valutazione critica, e le tesi corrono il rischio di ridursi a riassunti.
È il motivo per cui sono sempre più opportuni e promettenti, all'inizio, lavori su autori antichi, che, per essere svolti, domandano cognizioni linguistiche, esplorazioni storiche, precisioni filologiche, che concorrono a formare la mentalità dello studioso, almeno quando la prospettiva sia quella di avere degli studiosi e dei ricercatori, che potranno solo scarseggiare o riuscire di livello piuttosto modesto, se la conoscenza del latino - per fermarsi a questo, tralasciando il greco - continuerà a languire.
Ma vorremmo aggiungere un'altra ragione a favore della competenza nella lingua latina ed è quella relativa, oltre che alla conoscenza dei testi dei sacramentari antichi, alla capacità di comporre nuovi testi eucologici.
Si sa che la migliore tradizione delle preghiere liturgiche ne curava il cursus, e le rendeva eleganti e piacevoli per il canto e la proclamazione. Per la chiara perizia in questo ambito viene in mente il celebre professor Francesco Di Capua, e più vicino a noi don Anselmo Lentini, tra l'altro con la sua preziosa opera: Il ritmo prosaico nella Regola di S. Benedetto.
Si deve in particolare e soprattutto a questo illustre monaco di Montecassino se, per esempio, la nuova eucologia del Messale e della Liturgia delle Ore ambrosiani - quelli approvati dall'arcivescovo Giovanni Colombo - si distingue per la concinnitas e per le clausole, che nella quasi totalità sono raffinatamente quantitative.
Non è una competenza da poco, se il suo esito, invece di lasciarci dei pezzi rozzi e faticosi e dal latino elementare, ci regala un'estetica linguistica che concorre a conferire bellezza e splendore anche all'orazione della Chiesa.

(©L'Osservatore Romano - 10 ottobre 2008)

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