15 ottobre 2008
Mitra e messale. Così resistono i Cristiani in Iraq (Prezzo)
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Ringraziamo di cuore "La Stampa" per l'ottimo lavoro...
R.
Isola assediata Ankawa è un sobborgo del capoluogo Erbil: ventimila abitanti decine di chiese e nessun musulmano
Oratori affollati Il sabato i giovani vanno a pregare, giocare e a cercarsi una sposa
«L’ideale è una della tua parrocchia»
Mitra e messale
Così resistono i cristiani in Iraq
ERBIL (KURDISTAN IRACHENO)
TIZIANA PREZZO
Nella casa di Alan, brillante studente dell’Università del Kurdistan di Erbil, il telefono non smette di squillare. La madre ha preso un giorno di permesso dal lavoro e continua a passare da una stanza all’altra portando lenzuola, asciugamani e quant’altro potrà servire ai parenti in arrivo da Mosul. Nella città che sorge sul Tigri - ritenuta ormai da tempo la roccaforte di Al Qaeda in Iraq - almeno una dozzina di cristiani sono stati ammazzati dalla fine di settembre. Gli ultimi due ieri e l’ondata di violenza non accenna a placarsi.
Il comitato costituito dal governo di Baghdad per garantire la sicurezza della minoranza religiosa non sembra aver raggiunto l’obiettivo desiderato: le intimidazioni e le minacce di morte non diminuiscono nonostante i 900 poliziotti inviati a controllare le quattro zone cristiane della città. Le chiese e i monasteri sono stati dati alla fiamme, le case saccheggiate. Chi può, scappa: nelle ultime 72 ore almeno un migliaio di famiglie ha caricato le macchine di beni di prima necessità e si è dato alla fuga. Molti senza sapere bene dove andare, altri, come i parenti di Alan, si sono rifugiati ad Ankawa, enclave cristiana nel Kurdistan iracheno.
Considerata un «sobborgo» di Erbil (il capoluogo della regione curda a statuto autonomo), Ankawa conta una popolazione di ventimila abitanti pressoché interamente non musulmana. Ne fanno parte caldei, assiri, armeni. Ognuno con la propria chiesa, spesso di recentissima costruzione e dal gusto il più delle volte un po’ bizzarro.
Per le strade impolverate di questa cittadina dove è lecita la vendita di ogni tipo di alcolico a qualsiasi ora del giorno e della notte, il consueto richiamo del muezzin ha lasciato il posto al suono delle campane (vere o presunte) e al brusio sommesso delle donne che si riuniscono in chiesa a recitare il rosario. Nei pomeriggi del fine settimana, ragazzi e ragazze si ritrovano a passare il tempo insieme in oratorio, in cerca di un po’ di svago o, perché no, del futuro marito. Nonostante infatti il clima sia da queste parti più disteso, un concetto è comunque chiaro fin da giovani: un cristiano può solo sposare una cristiana, tanto meglio se della stessa parrocchia.
«I problemi per noi sono iniziati dopo l’invasione americana del 2003 - ci spiega il parroco della Chiesa Caldea di Mar Eliya -. Le persecuzioni anticristiane hanno avuto un’escalation dopo la destituzione di Saddam Hussein. I terroristi hanno cominciato con i rapimenti, per avere i soldi dei riscatti, ma poi sono passati ad assassinare la gente. Così: a sangue freddo. Ora Mosul è un inferno. Lì il marzo scorso hanno ammazzato anche il nostro vescovo, monsignor Faraj Rahho. Ringraziando il Signore, la situazione qui non è così grave, ma comunque si resta vigili».
Un’espressione eufemistica per celare un’intima paura e che da sola basta a spiegare il massiccio uso di telecamere e di alte mura intorno alle chiese. E, soprattutto, l’utilizzo di uomini armati di kalashnikov all’ingresso dei luogo di culto. Ogni volto non familiare viene fermato e non autorizzato a entrare prima che siano accertate le sue reali intenzioni. A noi viene concesso di incontrare i fedeli in preghiera e di girare indisturbati solo quando dimostriamo di essere italiani: «La terra del Papa!» è l’entusiastico commento delle guardie.
Ma chi vuole la morte dei cristiani iracheni a Mosul? «Nonostante le continue operazioni di polizia che si propongono di stanare ed eliminare la presenza di terroristi e banditi in città, è Al Qaeda che orchestra queste uccisioni. Dove Al Qaeda non c’è, come nella zona ormai pressoché pacificata di Erbil, questo triste fenomeno non si verifica. O almeno, non di certo con questa portata e con questo tipo di impostazione», ci spiega Joseph Jacob, professore all’Università di Mosul. Parole in linea con quelle pronunciate anche da Emmanuel III Delly, patriarca di Babilonia dei Caldei. «Per quattordici secoli abbiamo convissuto con spirito di tolleranza e fraternità, condividendo la vita e costruendo insieme la nostra amata patria - ha commentato con amarezza il cardinale -. Non dobbiamo lasciare che le forze oscure che vengono dall’esterno smembrino la nostra unità nazionale».
I cristiani in Iraq sono circa 800 mila: circa il 3 percento della popolazione irachena. Nella sola regione di Mosul, l’antica Ninive, si stima che prima della guerra vivessero in 20 mila. Almeno la metà di questi sono fuggiti negli ultimi cinque anni. Il rappresentante speciale dell’Onu per l’Iraq, Staffan de Mistura, ha diffuso ieri un comunicato di ferma condanna contro l’assassinio di civili a Mosul e ha sottolineato come «queste azioni mirano a fomentare le tensioni e a inasprire l’instabilità in un momento così critico del processo politico nel Paese».
© Copyright La Stampa, 14 ottobre 2008
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