11 luglio 2007

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Da Roma Gianni Cardinale

Il documento pubblicato ieri dalla Congregazione per la dottrina della fede porta la data, significativa, del 29 giugno, solennità de santi Pietro e Paolo apostoli. Si tratta di un testo articolato in cinque risposte (responsa, in latino) ad altrettante domande che riflettono i dubbi manifestati all'ex Sant'Uffizio per le «interpretazioni errate» che si sono manifestate nella riflessione teologica del dopo Concilio. Il dicastero vaticano con questo nuovo documento intende precisare «il significato autentico di talune espressioni ecclesiologiche magisteriali, che nel dibattito teologico, rischiano di essere fraintese».
Avvenire ha chiesto all'arcivescovo Angelo Amato, salesiano, dal 2002 segretario della Congregazione per la dottrina della fede, di spiegare ai lettori contenuti e intenzioni di queste cinque risposte pubblicate ieri.

Eccellenza il primo dei «responsa» pubblicati dalla vostra Congregazione riafferma che il Concilio Vaticano II non ha cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa. Ma non dovrebbe essere ovvio?

«Dovrebbe. Ma purtroppo non è così. Ci sono interpretazioni che, da parti contrapposte, vorrebbero che con l'ultimo Concilio ci sia stata una rottura con la tradizione della Chiesa cattolica. Alcuni ascrivono questo presunto fatto come una gloria del Concilio stesso, altri come una sciagura. Ebbene non è così. Ed era opportuno riaffermarlo in modo chiaro e inequivocabile. Richiamando anche quanto affermato con nettezza dal beato Giovanni XXIII nella sua allocuzione dell'11 settembre 1962, all'inizio del Concilio: "…il Concilio… vuole trasmettere pura e integra la dottrina cattolica, senza attenuazioni o travisamenti…". Bisogna che questa dottrina certa e immutabile, alla quale è dovuto ossequio fedele, sia esplorata ed esposta nella maniera che l'epoca nostra richiede. Altra è la sostanza del depositum fidei, o le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo in cui vengono enunciate, sempre tuttavia con lo stesso senso e significato».

La seconda risposta, che è poi quella centrale, prende di petto la questione del «subsistit in». Come deve essere quindi interpretata questa affermazione del Concilio secondo cui la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica?

«In effetti questa affermazione ha subito varie interpretazioni e non tutte coerenti con la dottrina conciliare sulla Chiesa. La risposta della Congregazione, basata sui testi del Concilio e anche sugli atti dei lavori del Concilio stesso, che vengono citati in nota, riafferma che la sussistenza indica la perenne continuità storica e la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo nella Chiesa cattolica, nella quale concretamente si trova la Chiesa di Cristo su questa terra. Non è quindi corretto pensare che la Chiesa di Cristo oggi non esisterebbe più in alcun luogo o che esisterebbe solo in modo ideale oppure in fieri (in divenire, ndr) in una futura convergenza o riunificazione delle diverse Chiese sorelle, auspicata o promossa dal dialogo ecumenico. No. La Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica, esiste nella storia nella Chiesa cattolica».

Ma perché allora, e questo è il tema della terza risposta, il Concilio non ha affermato appunto che la Chiesa cattolica «è» la Chiesa di Cristo e invece ha usato il termine «sussiste»?

«Questo cambio di termine non è e non può essere interpretato come una rottura col passato. In latino subsistit in è un rafforzativo di est. La continuità di sussistenza comporta una sostanziale identità di essenza tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica. Con l'espressione subsistit in il Concilio intendeva esprimere la singolarità e la non moltiplicabilità della Chiesa di Cristo. Esiste la Chiesa come unico soggetto nella realtà storica. Allo stesso tempo però il subsistit in esprime anche il fatto che fuori della compagine della Chiesa cattolica non ci sia un vuoto ecclesiale assoluto, ma si possano trovare "numerosi elementi di santificazione e di verità", "che in quanto doni propri della Chiesa di Cristo spingono all'unità cattolica"».

La quarta risposta riguarda le implicazioni ecumeniche di quanto affermato sinora. E chiarisce il perché il Concilio Vaticano II attribuisca il nome di «Chiese» alle Chiese orientali, ortodosse e precalcedoniane, separate dalla piena comunione con Roma.

«La risposta è chiara. Queste Chiese, quantunque separate da Roma, hanno veri sacramenti e soprattutto in forza della successione apostolica, il sacerdozio e l'Eucaristia, e per questo meritano il titolo di Chiese particolari o locali, e sono chiamate sorelle delle Chiese particolari cattoliche. A questo però bisogna aggiungere che queste Chiese sorelle risentono di una carenza, di un vulnus, in quanto non sono in comunione con il capo visibile dell'unica Chiesa cattolica che è il Papa, successore di Pietro. E questo non è un fatto accessorio, ma uno dei principi costitutivi interni di ogni Chiesa particolare».

L'ultima risposta ribadisce poi che alle comunità cristiane nate dalla Riforma del XVI secolo non si può attribuire il titolo di «Chiesa».

«È un fatto doloroso, lo comprendo, ma, come afferma il Concilio, queste comunità non hanno custodito la successione apostolica nel sacramento dell'0rdine, privandosi così di un elemento costitutivo essenziale dell'essere Chiesa. A causa della mancanza del sacerdozio ministeriale queste comunità non hanno conservato quindi la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico. Per questo, secondo la dottrina cattolica, non possono essere chiamate "Chiese" in senso proprio».

Questo vale anche per la comunione anglicana?

«Sì».

Eccellenza, che valore hanno questi «responsa?»

«Hanno una nota teologica autorevole. Autoritativa. Sono una esplicitazione, formulata dalla nostra Congregazione ed approvata espressamente dal Papa, del dato conciliare».

Questi testi vengono pubblicati a pochi giorni dal Motu proprio che liberalizza la Messa cosiddetta di san Pio V. Qualcuno potrebbe pensare che non si tratti di una coincidenza, ma di una precisa strategia…

«Nessuna strategia ecclesiastica e/o mediatica. I nostri documenti vengono pubblicati quando sono pronti. E basta. Altrimenti, se dovessimo stare attenti a questo tipo di problematiche che non ci appartengono rischieremmo, per un motivo o per un altro, di non riuscire mai a pubblicare quei testi che vescovi e molti fedeli attendono».

Comunque questi due fatti sono stati interpretati - da alcuni - come una offensiva rivolta contro il Concilio Vaticano II.

«Non è così. Si tratta in entrambi i casi di uno sviluppo autorevole e ortodosso, in senso cattolico ovviamente, del Concilio. Il Santo Padre, e la nostra Congregazione con lui, non usa l'ermeneutica della rottura, della contrapposizione, tra realtà pre e post-conciliare. Per il Papa e per noi vale invece l'ermeneutica della continuità e dello sviluppo nella tradizione. Si dovrebbe finire di considerare il secondo millennio della vita della Chiesa cattolica come una parentesi sfortunata che il Concilio Vaticano II, o meglio il suo spirito, ha cancellato d'un colpo…».

Eppure permangono i timori che questi atti siano dannosi al dialogo ecumenico.

«Quello che si afferma in questi responsa è stato già detto dal Concilio stesso, ed è stato ribadito da più documenti post-conciliari e dalla Dichiarazione Dominus Iesus in particolare. In pratica non si fa che ribadire quale è l'identità cattolica per poter poi affrontare serenamente e più efficacemente il dialogo ecumenico. Quando il tuo interlocutore conosce la tua identità è portato a dialogare in modo più sincero e senza creare ulteriori confusioni».

Eccellenza, permetta una domanda sul motu proprio «Summorum Pontificum». C'è chi lo accusa di essere anticonciliare perché offre piena cittadinanza ad un Messale in cui si prega per la conversione degli ebrei. È davvero contrario alla lettera e allo spirito del Concilio formulare questa preghiera?

«Certamente no. Nella Messa noi cattolici preghiamo sempre, e per primo, per la nostra conversione. E ci battiamo il petto per i nostri peccati. E poi preghiamo per la conversione di tutti i cristiani e di tutti i non cristiani. Il Vangelo è per tutti».

Però si obietta che la preghiera per la conversione degli ebrei è stata superata definitivamente da quella in cui si invoca il Signore affinché li aiuti a progredire nella fedeltà alla sua alleanza.

«Lo stesso Gesù nel Vangelo di san Marco afferma: "Convertitevi e credete al Vangelo", e i suoi primi interlocutori erano i suoi confratelli ebrei. Noi cristiani non possiamo fare altro che riproporre quello che Gesù ci ha insegnato. Nella libertà e senza imposizioni, ovviamente, ma anche senza autocensure».

Tempo fa, sempre su queste colonne, lei aveva annunciato la pubblicazione di una istruzione aggiornata, una «Donum Vitae II», sui più scottanti temi legati alla bioetica e alle biotecnologie. A che punto è?

«Si tratta di un documento molto delicato, che richiede molta cura. Credo che ci vorrà ancora parecchio lavoro prima di licenziarlo».

E il documento sulla legge naturale pure annunciato in quella intervista?

«Stiamo ancora raccogliendo i materiali prodotti da vari convegni internazionali su questo tema che, su nostra proposta, si sono svolti in varie Università pontificie e istituzioni cattoliche del mondo».

Quindi rimarremo per un bel po' senza nuovi documenti della vostra Congregazione?

«Non è così. Ci saranno tra poco due testi. Il primo su una specifica questione attinente la bioetica. L'altro riguardante un problema di indole missionaria. Ma è prematuro parlarne».

© Copyright Avvenire, 11 luglio 2007

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