5 dicembre 2007

Enciclica "Spe salvi": il commento di Orlando Franceschelli per "Il Riformista"


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Enciclica e Modernità

Speranza della fede e saggezza umana

Orlando Franceschelli

La speranza cristiana - ha ricordato Benedetto XVI nella sua ultima enciclica Spe salvi - non rientra tra quelle «più piccole o più grandi che l'uomo ha nel succedersi dei giorni». Queste sono speranze del tutto terrene. Individuali o sociali, come quelle coltivate dalle moderne filosofie del progresso, desiderose di costruire sulla terra il regno di Dio. Il Papa rivendica «una speranza che vada oltre». «Qualcosa di infinito» e che «sarà sempre più di ciò che (l'uomo) possa mai raggiungere» nella sua vita o nella storia. La speranza di cui è «evidente che l'uomo ha bisogno», l'unica «che può bastargli», è la redenzione-salvezza annunciata da Dio a chi ha fede nella Sua promessa: «Speranza è l'equivalente di "fede"», come la teologia cristiana ha sempre saputo da Paolo in poi.
Una simile esortazione a sperare nel regno di Dio e nel giudizio finale, papa Ratzinger la rivolge, da teologo e da pastore, a quanti hanno fede. E solo grazie ad essa si sentono «salvati nella speranza». Esortazione del tutto comprensibile, anche per i non credenti che laicamente guardano con rispetto e interesse a ogni esperienza di fede impegnata a testimoniare i doni della grazia. E a patirne le prove. A cominciare proprio dallo scandalo della biblica speranza che - «contro ogni speranza», riconosceva già Abramo - sopporta «con perseveranza» il penoso conflitto tra ciò che può essere visto e «ciò che si spera» (Paolo, Rm 8,24). Ma Benedetto XVI non si limita a confermare la fede di chi crede. Anche da questa enciclica emergono implicazioni filosofiche ed etico-politiche che sembrano voler come mortificare coloro che, ripete il papa con Paolo, sono «senza speranza e senza Dio nel mondo». Una diminuzione dell'uomo a tratti assai poco profetica. E certo ben poco capace di autentico dialogo.
Papa Ratzinger richiama tutte le facoltà e dimensioni che arricchiscono la vita umana ed il cui esercizio ha come innervato anche il confronto che la modernità ha saputo condurre con la tradizione platonico-cristiana dal cui seno è sorta. E alla ragione, alla libertà, alla scienza non vengono certo risparmiati omaggi e riconoscimenti.
Il tutto però ad una condizione. Inesorabilmente ribadita persino a proposito dell'umanissima «esperienza di un grande amore»: tutte queste attività dell'uomo possono diventare valori e ricchezza vera solo a patto di trascendere «l'ambito puramente intramondano». La ragione? Quando «domina veramente?», quando «diventa una ragione veramente umana?». La risposta non è una sorpresa: «Per arrivare ad essere totalmente se stessa la ragione ha bisogno della fede». E un'analoga apertura «alle forze salvifiche della fede» risulta indispensabile anche alla libertà e alla scienza. Impresa quest'ultima che «può contribuire molto all'umanizzazione del mondo e dell'umanità». Ma di nuovo: non «redime l'uomo».
Come se la scienza dovesse svolgere i compiti di una religione, invece di contribuire con le sue conoscenze a farci raggiungere un'idea sempre più adeguata di cosa di fatto siano il mondo naturale e noi che in esso e di esso viviamo. Contributo tutt'altro che totalizzante, come vorrebbe lo scientismo. Ma neppure marginale o trascurabile. Come riconosce tutta la teologia impegnata in un confronto adulto e costruttivo con la scienza e la coscienza moderne.
Ancora una volta, invece, la teologia ratzingeriana sembra riuscire a definire se stessa solo a patto di ridurre la coscienza moderna emancipata dalla fede ad un cumulo di macerie. A quella «fine (perversa) di tutte le cose» che il papa prende da Kant, trascurando di richiamare il contesto apocalittico dell'Anticristo in cui Kant la evocava. Dopo aver scritto non a caso: «A meno che non si preferisca rinunciare del tutto al proprio fine ultimo».
Ecco: c'è una modernità che ha saputo prendere congedo - e ben più dello stesso Kant - da ogni scenario apocalittico ed escatologico. Di più: da ogni teologia, filosofia della storia -hegeliana, positivista, marxista - o ideologia del progresso che promette, impone o rimpiange un compimento finale delle vicende umane. È di questo illuminismo moderno che ha saputo emanciparsi criticamente da fini ultimi e salvifici - trascendenti o secolari - che ci sentiamo eredi. Impegnati a coltivare le umanissime e terrene virtù della scienza, dell'indagine filosofica e della «social catena» (Leopardi). Le uniche che, senza renderci sospetti a noi stessi, ci possono riconciliare con la contingenza cosmica e storica del nostro destino di uomini e di cittadini. Nec spe nec metu : senza né speranze e né timori - tanto più se sovrumani - come già ammoniva la sapienza classica.
A questa umana e solidale saggezza, laica e mai ideologicamente ostile alla testimonianza della fede, anche nella Spe salvi viene dedicata ben poca e costruttiva attenzione. Mentre non si esita a rivendicare come necessaria «un'autocritica dell'età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza». Ogni invito ad un dialogo alto tra cristianesimo e modernità è sempre bene accetto. Purché non si pensi che i propri interlocutori siano disperati e nichilisti. Magari pronti a trasformare in devozione sospetta questo presunto - o auspicato? - naufragio della coscienza moderna e delle nostre società plurali.
Forse di un dialogo non con le macerie della storia, ma con la possibile, umana saggezza dei mortali hanno bisogno anche i credenti e la chiesa. Come profeticamente aveva annunciato anche il Vaticano Secondo. Gli integralismi religiosi - come i loro surrogati secolari: le ideologie - impediscono sempre di riconoscere e coltivare i frutti più belli, sobri e liberatori dell'umana ricerca: gli approdi più apprezzabili che gli uomini sono impegnati a guadagnare. Un impegno critico e civilmente fertile che ci piacerebbe veder preso nella dovuta considerazione anche da una teologia finalmente - o nuovamente - pensosa. Se non delle sovrumane verità e speranze della fede, almeno della ragionevole ed umana saggezza degli altri.

© Copyright Il Riformista, 4 dicembre 2007

Bah, francamente mi pare molto discutibile affermare che il Papa abbia bisogno, per affermare la "sua" teologia, di ridurre la coscienza moderna emancipata dalla fede ad un cumulo di macerie.
Non e' cosi': tutta l'enciclica e' concepita come una mano tesa alla modernita', ai filosofi, agli scienziati, ai non credenti purche' ci si metta in ascolto nel massimo rispetto degli uni contro gli altri.
In questi giorni abbiamo assistito ad un fenomeno incontestabile: il mondo della sedicente modernita' (e' moderno Scalfari?) ha rifiutato la mano tesa del Papa (salvo qualche eccezione) e si e' limitato a tirare fuori dal cilindro i soliti argomenti (Papa medievale, antimoderno, oscurantista, teologo etc etc) senza porsi il problema di un confronto serio ed intellettualmente appagante.
Vi diro' la verita', cari amici: sono piuttosto delusa da questi atteggiamenti
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Raffaella

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