15 dicembre 2007

Perché l’idea di democrazia di Habermas è più larga del piccolo dogmatismo di Flores d’Arcais (Berardinelli per "Il Foglio")


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(nella foto il filosofo Habermas con l'allora cardinale Ratzinger)

Grazie alla puntuale segnalazione di Eufemia possiamo leggere questo interessantissimo articolo di Alfonso Berardinelli sulle differenze (abissali) fra Habermas e Flores d’Arcais. Segue la risposta del filosofo tedesco alle tesi di MicroMega dalle colonne di "Repubblica".
Raffaella

Perché l’idea di democrazia di Habermas è più larga del piccolo dogmatismo di Flores d’Arcais

Il direttore di MicroMega accusa il filosofo tedesco di subire “le tentazioni della fede”, ma il suo punto di vista mi sembra ragionevole e ben poco pericoloso per le libertà laiche

• Per quanto mi riguarda considero superstizione, dogma e irrazionalità la fede di quei filosofi che sulla stampa e nelle università adorano Nietzsche e Heidegger • Sant’Agostino, confrontato con Heidegger, sembra un Voltaire
• Cercare di discutere con Odifreddi non è più facile che discutere con un cardinale
• La fede nella ricerca scientifica senza limiti configura un pensiero che si sottrae a un giudizio razionale


Alfonso Berardinelli

Nell’ultimo numero di MicroMega, che porta il titolo di “Per una riscossa laica” e in cui per una volta finalmente non si parla di Heidegger e mancano i nomi degli esimi heideggeriani italiani, fermamente schierati a sinistra e sodali politici di Flores d’Arcais – in questo numero il direttore della rivista lancia “undici tesi” contro Jünger Habermas accusandolo di subire “le tentazioni della fede”.

Nella prima tesi si leggono queste parole: “Da alcuni anni Habermas propone la quadratura del cerchio: tener fermi i principi democratico-liberali secondo una esigente versione repubblicana (…) e allo stesso tempo riconoscere le ‘ragioni’ religiose in quanto tali – cioè le argomentazioni e le motivazioni che fanno ricorso a Dio – non solo come legittime, ma anzi utili e infine imprescindibili nel quadro della convivenza democratico-liberale.
Tale riconoscimento, secondo Habermas, comporta addirittura il dovere, per i cittadini non credenti, di tradurre in termini laici le ‘intuizioni’ e le ‘ragioni’ che il cittadino religioso sa esprimere solo in termini comprensivi della sua esperienza di fede. (…)
Di più. Il cittadino senza fede religiosa è tenuto a riconoscere un ‘potenziale di verità alle immagini religiose del mondo’”.
Sarò un ingenuo, ma non sono un credente (mi è perfino difficile capire il senso dell’espressione “fede in Dio”), eppure il punto di vista di Habermas mi sembra ragionevole, accettabile e ben poco pericoloso per le libertà laiche. A meno di non immaginare o programmare un sistematica campagna di conversione di massa dei cittadini cristiani, lanciata dallo stato per bonificare la palude infetta di opinioni non puramente illuministiche, atee e materialiste.

Noto che i lumi di una perfetta e coerente razionalità non possono essere prescritti per legge. Del resto, per quanto mi riguarda, considero superstizione, dogma e irrazionalità la fede di quei filosofi che sulla stampa e nelle università ripetono che Nietzsche è il filosofo decisivo e culminante della modernità e che Heidegger è l’imprescindibile filosofo dell’ultimo secolo: di razionalismo laico e di argomentazioni universalmente accettabili in questi filosofi non se ne trovano in quantità sufficiente.
Sant’Agostino, confrontato con Heidegger, sembra un Voltaire
.

Ho letto su Repubblica di venerdì 30 novembre* la replica di Habermas a Flores d’Arcais. Habermas in verità non aggiunge quasi nulla a ciò che aveva precedentemente affermato. Ribadisce di continuare a non essere un devoto e ritiene in sostanza di essere stato frainteso da Flores d’Arcais.
Non nego che un problema ci sia e che la fede, ogni tipo di fede, non solo in Dio, ma anche nell’onnipotenza conoscitiva dei numeri e delle scienze naturali, ponga dei problemi. Ho notato per esempio che cercare di discutere con Piergiorgio Odifreddi non è più facile che discutere con un cardinale e che la fede nella ricerca scientifica senza limiti e illimitatamente applicabile configura un pensiero e una prassi sottratti al giudizio razionale, giudicante cioè non solo l’adeguatezza dei mezzi ma anche l’accettabilità dei fini.
Esistono vari tipi di fedi e di dogmatismi.
Oggi e da un paio di secoli la fede nel progresso-sviluppo illimitato è un oppio dei popoli e degli intellettuali non meno (e forse più) che non la fede religiosa. L’argomento dogmatico “Dio lo vuole” è altrettanto dogmatico dell’argomento “lo Sviluppo non può essere arrestato”. Chi crede, tende a non discutere razionalmente quel nucleo di convinzioni in cui crede, siano esse ereditate da culture premoderne o da culture contemporanee.
Per Flores d’Arcais il linguaggio e la cultura religiosi configurano un corpo estraneo pericolosamente antidemocratico e anticostituzionale. Nella sua replica Habermas scrive: “Tendo a pensare che nell’ambito pubblico la comunicazione politica dovrebbe rimanere aperta a ogni contributo, qualunque sia il linguaggio in cui viene espresso”. E questo non solo perché si devono rispettare il pensiero e il punto di vista di chi non possiede strumenti culturali per separare chirurgicamente il sacro dal profano, ciò che è rigorosamente laico da ciò che è religioso. Secondo Habermas la questione è che in una società democratica “non si deve avere troppa fretta di ridurre la complessità polifonica delle molte voci che intervengono nel dibattito pubblico.

Lo stato democratico non dovrebbe impedire né agli individui né alle comunità di esprimersi in maniera spontanea, dato che se lo impedisse potrebbe privare la comunità di risorse culturali in grado di infondere senso e identità”.

Gli stessi cittadini laici, in altri termini, dovrebbero aver interesse a confrontare forma e contenuto delle proprie convinzioni con il “potenziale di verità” racchiuso nel linguaggio religioso: anche se questo linguaggio non è immediatamente e facilmente traducibile nel linguaggio della razionalità atea e in quello delle costituzioni liberal-democratiche.

Credo che in questa discussione tra Flores d’Arcais e Habermas i malintesi ci siano e siano dovuti soprattutto alle diverse ascendenze filosofiche dei due. In sintesi: filosoficamente Flores d’Arcais viene da un supermarxista aristotelico-kantiano, poi liberal-popperiano come Lucio Colletti, che fu sempre sprezzante nei confronti della Scuola di Francoforte, di cui Habermas è un erede.
Per Habermas il senso comune, le esperienze non razionalizzate eppure autentiche, i complessi messaggi solo apparentemente irrazionali delle arti e a volte anche della filosofia, la ricchissima eredità della tradizione culturale occidentale e orientale, contengono ancora, in linguaggi vari e sorprendenti, delle verità che non possiamo cancellare in nome dell’efficienza comunicativa nella sfera pubblica democratica.
Insomma, credo che la posta in gioco sia più alta di come tende ad apparire in questa controversia. Non si tratta solo di un attrito politico fra stato e chiesa, né del rapporto fra culture religiose e culture laiche. Il problema riguarda il rapporto che si deve e si riesce ad avere fra la cultura dello stato e le culture presenti “polifonicamente” nella società civile, nella vita degli individui, delle classi, dei ceti, dei gruppi organizzati o informali, culture nelle quali ci sono molte più cose di quante il linguaggio di uno stato moderno riesce a immaginare e prevedere.
La cultura, le culture di una società non sono (non possono, non debbono essere) prodotte dallo stato. O meglio: la cultura è prodotta dallo stato solo quando lo stato è totalitario, formalmente o sostanzialmente.
Questo in linea teorica. Nei fatti nessuno stato totalitario, per quanto efficiente nel controllo e nella repressione, è mai riuscito a ridurre a zero la produttività culturale della società in cui dominava. La cultura religiosa e le fedi, non solo religiose, non sono certo un prodotto e un’espressione esclusiva delle chiese. Né quello religioso è solo il tipo di cultura a non essere immediatamente e frettolosamente traducibile nel linguaggio della razionalità giuridica. Gran parte dei linguaggi che agiscono nella cultura di una società pluralistica, linguaggi artistici, letterari, filosofici, scientifici, di varie filosofie e delle più diverse scienze (per non parlare del linguaggio del common sense) pongono allo stato e alla politica problemi analoghi a quelli che Flores d’Arcais e in parte Habermas attribuiscono alla religione.
Ho fatto all’inizio l’esempio dell’enorme fortuna che due filosofi non sempre razionali e certamente antiliberali e antidemocratici come Nietzsche e Heidegger hanno conquistato e conservano tuttora presso i nostri filosofi. Dovremmo proibire a questi professori di filosofia di credere alle poco credibili affermazioni di Nietzsche e Heidegger? Dovremmo proibire a questi professori di filosofia e ai loro allievi (molti preti colti parlano oggi il gergo heideggeriano) di tenersi care le loro fedi o convinzioni sofisticate? Dovremmo considerarli un pericolo pubblico per quella razionalità che è sale e ossigeno di una cultura liberal-democratica?
Ma in realtà non si tratta solo di quei due filosofi, che per quanto originali, spesso riassumono e riformulano idee di autori precedenti. Scrittori come Leopardi, Dostoevskij, Baudelaire, Kierkegaard, Kraus, Eliot, Rilke, Kafka (e quella Scuola di Francoforte, Walter Benjamin compreso, da cui viene Habermas) trasmettono punti di vista ed esperienze che con la liberaldemocrazia sono quasi sempre in conflitto.
Fossero o no attratti dalla fede religiosa, i classici della modernità ci comunicano spesso culture e miti non facilmente riducibili dentro i confini della razionalità democratica. Abbiamo bisogno dell’illuminismo di Socrate, ma anche del suo dèmone, cioè di complesse, nascoste fonti di ispirazione alla razionalità.
Negli Stati Uniti, il critico Harold Bloom ha pubblicato, dagli inizi degli anni Novanta in poi, una serie di volumi (di cui “Il canone occidentale” è il più noto) nei quali ripete ossessivamente e con una certa enfasi che senza ammirazione e devozione per i più grandi geni della letteratura i fondamenti della democrazia sono in pericolo, i suoi contenuti e le sue finalità si isteriliscono e si immiseriscono.
E questo sebbene nei grandi capolavori della letteratura occidentale siano presenti valutazioni e visioni della vita umana scarsamente o niente affatto conciliabili con la vita attuale e con la filosofia dei nostri stati costituzionali. E’ difficile (è pericoloso) immaginare che lo stato democratico debba bandire la critica alla democrazia, debba porsi il compito di bonificare, depurare, emendare, purgare la tradizione delle nostre culture con tutta la sua polifonica mescolanza di esperienze e valori. E’ questa la ragione, d’altra parte, per la quale credo che insegnare
letteratura moderna non sia un’attività pedagogica priva di problemi. La nostra tradizione culturale, anche se ci limitassimo agli ultimi due secoli, è una forma di religione laica, non priva di miti e di dogmi, di imperativi contraddittori e di una carica distruttiva a volte sconcertante.

Che cosa farne in termini liberal-democatici?
Leggere Leopardi e Pasolini (per non fare altri esempi) può ispirare senza dubbio pensieri più antistatali, antidemocratici, antiprogressivi di quanto possa fare qualunque catechismo religioso.

© Copyright Il Foglio, 12 dicembre 2007


*Il posto della chiesa in una democrazia

Questo articolo di Jürgen Habermas, apparso su Die Zeit, è la risposta al saggio di Paolo Flores d´Arcais "Le tentazioni della fede. Undici tesi contro Habermas", che aprirà il volume speciale di MicroMega "Per una riscossa laica", in uscita il 7 dicembre, saggio che sempre Die Zeit ha anticipato in una traduzione tedesca parziale. In esso Paolo Flores d´Arcais contesta ad Habermas le numerose contraddizioni in tema di rapporti tra fede, ragione e democrazia in cui cadrebbe il suo pensiero. Secondo Flores non si può mantenere il dovere politico e filosofico di un discorso pubblico basato su argomentazioni universali, e al tempo stesso riconoscere ai cittadini credenti il ricorso all´argomento-Dio. Argomento dogmatico per definizione, che può precipitare nel fondamentalismo del "Dio lo vuole".

JüRGEN HABERMAS

Basterà rileggere due punti del mio intervento: «A prima vista, il carattere laico degli Stati costituzionali può apparire in contrasto con qualunque tipo di attività politica da parte di comunità o di cittadini religiosi, che prendano la parola in quanto credenti o organizzazioni confessionali. E´ questo il motivo per cui pensatori liberali quali John Rawls o Robert Audi hanno sostenuto l´obbligo civile di non propugnare o favorire leggi o politiche (...) che non si sappiano o non si vogliano suffragare con giustificazioni laiche adeguate. Dal canto mio, tendo a pensare che nell´ambito pubblico la comunicazione politica dovrebbe rimanere aperta a ogni contributo, qualunque sia il linguaggio in cui viene espresso. Se nella sfera pubblica si ammette l´uso di un linguaggio religioso non tradotto (in termini laici), non è solo con riguardo a personalità non inclini, e fors´anche incapaci di scindere la parte sacrale da quella profana dei loro convincimenti, così come del vocabolario di cui si servono. C´è anche un motivo funzionale per non avere troppa fretta di ridurre la complessità polifonica delle molte voci che intervengono nel dibattito pubblico. Lo Stato democratico non dovrebbe impedire né agli individui, né alle comunità di esprimersi in maniera spontanea, dato che non può sapere se così facendo, priverebbe la comunità di risorse in grado di infonderle senso e identità. Perché mai i cittadini laici non dovrebbero poter ravvisare le proprie intuizioni, per quanto recondite o represse, nel contenuto potenziale di verità di un discorso religioso?
Detto questo, dobbiamo distinguere chiaramente i processi istituzionali, consultivi o decisionali, a livello dei parlamenti, delle sedi giudiziarie, dei ministeri o delle autorità amministrative, dall´impegno informale dei cittadini nella società civile e nella sfera politica pubblica. Perché vi sia separazione tra Stato Chiesa, deve esistere tra le due sfere una sorta di filtro, che della babele di voci della comunicazione pubblica faccia passare solo il discorso laico. In parlamento, ad esempio, il presidente in carica dovrebbe essere tenuto per regolamento a stralciare dai verbali delle sedute le dichiarazioni di carattere religioso.
Perché gli eventuali contenuti di verità degli interventi religiosi possano confluire efficacemente nelle deliberazioni politiche più impegnative è indispensabile che qualcuno provveda a tradurle in argomentazioni generalmente accessibili. Se gli ambiti di competenza dello Stato, legittimo detentore di mezzi coercitivi, divenissero un campo aperto alle contrapposizioni tra le diverse comunità di fede, il governo rischierebbe di trasformarsi nell´esecutivo di una maggioranza religiosa, che imporrebbe la sua volontà all´opposizione. Uno dei requisiti della legittimazione dello Stato costituzionale risiede nell´obbligo di formulare decisioni politiche che lo Stato stesso sia in grado di far rispettare, in un linguaggio che tutti i cittadini possano comprendere; e inoltre di giustificare le proprie decisioni in maniera comprensibile per la totalità dei cittadini. Qualora una maggioranza, nel processo legislativo e in quello esecutivo, si arroccasse dietro argomenti religiosi, rifiutando di rendere pubblicamente accessibili le sue motivazioni, e quindi di consentire a una minoranza laica, o di fede diversa, di giudicarle alla luce di standard di validità generale, il potere democratico della maggioranza degenererebbe in tirannia religiosa.
«(Ovviamente), le Chiese travalicherebbero i limiti di una cultura politica liberale se adottassero per i propri fini politici la strategia di appellarsi direttamente alla coscienza religiosa. Sarebbe un modo per influenzare i credenti in quanto tali, e non nella loro veste di cittadini. E di tentare di coartare le coscienze, imponendo l´autorità religiosa al posto di quel tipo di motivazioni che nel processo democratico possono divenire efficaci solo perché varcano la soglia verso la traduzione in un linguaggio comprensibile per tutti».

©Die Zeit
Traduzione
di Elisabetta Horvat

© Copyright Repubblica, 30 novembre 2007

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