2 agosto 2008

«La Civiltà Cattolica» e l'enciclica mai pubblicata di Pio XI contro il razzismo. L'«Humani generis unitas» non fu affatto nascosta (Osservatore)


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«La Civiltà Cattolica» e l'enciclica mai pubblicata di Pio XI contro il razzismo

L'«Humani generis unitas» non fu affatto nascosta

Il primo numero di agosto dei quaderni de "La Civiltà Cattolica" contiene un articolo sulla Humani generis unitas, l'enciclica mai pubblicata di Pio XI sul razzismo. Ne proponiamo ampi stralci.

di Giovanni Sale

La bozza di enciclica Humani generis unitas, contro il razzismo, fu commissionata da Pio XI nel giugno del 1938 al gesuita statunitense John LaFarge, ma a causa di alcune vicende e, soprattutto, per la sopravvenuta morte del Papa non vide mai la luce.
La pubblicistica ha molto fantasticato sulla mancata promulgazione di tale testo: secondo alcuni, alla morte del Pontefice, esso sarebbe stato addirittura trafugato dalla sua scrivania e poi distrutto. Leggende alle quali gli storici seri non hanno mai dato peso. Il testo dell'enciclica è stato pubblicato nel 1995 da Georges Passelecq e da Bernard Suchecky. Il protagonista centrale di tale vicenda è il padre LaFarge, redattore della rivista "America" e fondatore del Catholic Interracial Council. Quando egli, nel mese di maggio 1938, si imbarcò per l'Europa per motivi di studio, non immaginava certo di venire incaricato dal Papa in persona di scrivere un'enciclica contro il razzismo.
(...) "Fui ricevuto dal Santo Padre - è scritto nell'autobiografia - con molta cordialità. Non tardai a capire che voleva discutere di questioni riguardanti il nazismo, che in Italia e in Germania erano all'ordine del giorno. Mi disse che non faceva che pensare e ripensare a quel problema e che era sempre più convinto che il razzismo e il nazionalismo si confondessero". Il Papa gli disse, inoltre, di aver letto il lavoro contro il razzismo, intitolato Interracial justice, e di averlo trovato interessante; aggiunse che esso era quanto di "più pertinente" avesse mai letto sulla materia. "Quello che gli era piaciuto del mio libro - commentava il gesuita - era il fatto che avevo trattato del soggetto dal punto di vista spirituale e morale, e che, del resto, mi ero sforzato di confrontare la dottrina cattolica sia con la legge naturale, sia con l'esperienza concreta per cercare di abbozzare una qualche conclusione pratica". L'udienza avveniva in un momento molto particolare circa i rapporti tra Santa Sede e Governo fascista: il 14 luglio, infatti, veniva pubblicato il Manifesto degli scienziati fascisti sulla razza, voluto e autorizzato da Mussolini in persona. In questo modo il fascismo si allineava al nazismo tedesco in materia razziale ed eugenetica, rafforzando così, dal punto di vista ideologico-politico, la convergenza tra i due maggiori Governi totalitari. Il manifesto fu immediatamente bollato dal Papa come una forma di apostasia dalla fede cristiana: "Non è più soltanto - disse a un gruppo di suore del Cenacolo il 15 luglio - una o l'altra idea errata; è tutto lo spirito della dottrina che è contrario alla fede di Cristo".
Dai diari delle consulte della Civiltà Cattolica sappiamo che il Pontefice in quel periodo aveva chiesto al direttore che la nostra rivista si occupasse di tali temi, condannando in modo esplicito le dottrine del "nazionalismo esagerato", della nuova eugenetica e delle teorie razziste come contrarie alla legge naturale e alla dottrina cristiana. Pochi giorni dopo avvenne l'incontro tra Pio XI e il padre LaFarge, nel corso del quale il Papa incaricò il gesuita statunitense di scrivere un'enciclica su tali urgentissimi temi. In una lettera confidenziale del 3 luglio 1938 indirizzata al padre Joseph A. Murphy, il padre LaFarge così descriveva l'udienza col Pontefice: "È successo che il Papa, dopo avermi imposto il segreto, mi ha ordinato di scrivere un testo di un'enciclica destinata alla Chiesa universale sul tema che Lui considerava il più scottante del momento. Ha detto che gli ero stato mandato da Dio, proprio nel momento in cui cercava qualcuno a cui affidare quel compito (...). Dica con grande semplicità, ha aggiunto, quello che direbbe se fosse lei il Papa (...). Mi ha allora esposto il tema a grandi linee, il metodo da seguire e i princìpi da osservare". Disse poi che avrebbe egli stesso scritto al padre Generale per informarlo.
Il padre Wlodzimierz Ledóchowski, informato della delicata missione affidata al gesuita statunitense, così poco avvezzo all'ambiente romano, la commentò in modo lapidario, dicendo in tono preoccupato: "The Pope is mad", cioè, traduce la nostra fonte, il Papa è "un po' matto". In ogni caso fece di tutto perché il padre LaFarge potesse lavorare tranquillamente e nella massima segretezza. Se la cosa si venisse a sapere - disse - "tutti i Governi d'Europa nello spazio di ventiquattr'ore invierebbero una quantità di persone in Vaticano a portare il loro punto di vista". Esaudì anche la sua richiesta di recarsi a Parigi per poter lavorare indisturbato. Da tale lettera veniamo anche a sapere che egli aveva nominato "due studiosi" come collaboratori del padre LaFarge: uno, il tedesco padre Gustav Gundlach, professore di morale alla Gregoriana e inviso, per le sue idee antinaziste, al Governo del Terzo Reich; l'altro, il francese padre Gustave Desbuquois, direttore, a Vanves, nella periferia parigina, dell'"Action populaire".
Nonostante il caldo soffocante dell'estate parigina i gesuiti portarono avanti con dedizione e celerità il "gravoso compito" loro affidato. Alla fine di settembre esso era già ultimato e pronto per essere consegnato in Vaticano. (...) Nonostante che il padre Generale gli avesse suggerito di ripartire per gli Stati Uniti dalla Francia, affidando ad altri la trasmissione del testo, il padre LaFarge ritenne più conveniente recarsi egli stesso a Roma e consegnargli brevi manu il lavoro (...) sappiamo che alla fine di settembre il padre LaFarge era già a Roma e risiedeva nella Curia generalizia. Il 26 settembre insieme con il padre Generale e con i membri della Curia, dopo cena, ascoltò alla radio il farneticante discorso che Hitler fece allo Sportspalast di Berlino. Da Roma, una volta esaurito ciò che riteneva essere suo compito, il padre LaFarge raggiunse Parigi e poi Boulogne per imbarcarsi per gli Stati Uniti: ciò avvenne il 1 ottobre. Motivi familiari (una grave malattia del fratello) lo spinsero a ritornare in patria al più presto, lasciando che fosse il padre Generale a consegnare il testo della bozza di enciclica a Pio XI.
(...)Risulta chiaro che la bozza di enciclica fu redatta tenendo presenti non soltanto gli studi più recenti (anche in ambito non cattolico) sulla delicata questione, ma anche gli ultimi pronunciamenti magisteriali in materia di condanna del nazionalismo e del razzismo, nonché prestando attenzione allo sviluppo concreto dei fatti, specialmente in Italia: infatti a partire dai primi giorni di settembre dal Governo fascista furono adottati, in materia razziale, provvedimenti sempre più discriminatori e liberticidi, diretti a colpire soprattutto gli ebrei, compresi quelli di cittadinanza italiana.
Il Papa in diverse circostanze aveva parlato della questione razziale: il 28 luglio, durante un'udienza generale, si chiedeva sgomento "come mai l'Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la Germania" in materia razziale. Tale discorso spiacque moltissimo a Mussolini - geloso della propria originalità in tale materia e convinto di non dover nulla, sotto il profilo ideologico, ai suoi amici nazisti - e ai gerarchi del regime. Le parole del Papa diedero origine a un incidente diplomatico tra Santa Sede e regime fascista, che fu composto il 16 agosto con la firma di un documento comune, con il quale lo Stato si impegnava a procedere in materia razziale senza recare aggravio ai gruppi allogeni, "ma solo con la doverosa applicazione di onesti criteri discriminatori", mentre la Chiesa si obbligava a non trattare tale materia né sulla stampa cattolica, né in prediche o discorsi pubblici. Quando però a partire dalla prima settimana di settembre cominciarono a essere promulgati provvedimenti razziali contro gli ebrei, Pio XI fu costretto a intervenire direttamente. Il 7 settembre, il giorno seguente alla promulgazione dell'ordine di espulsione degli ebrei dalla scuola pubblica, parlando a un gruppo di pellegrini belgi, disse che l'antisemitismo non era compatibile con la dottrina cristiana. "No, non è possibile - disse - ai cristiani di partecipare all'antisemitismo.
Riconosciamo a chiunque il diritto di difendersi, di assumere i mezzi per proteggersi contro tutto ciò che minaccia i suoi interessi legittimi. Ma l'antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti".
Tale discorso, il quale conteneva in sé sia elementi di assoluta novità, come l'esplicita condanna dell'antisemitismo, sia elementi legati alla tradizione antigiudaica (diritto dello Stato cristiano di difendersi contro le insidie dei giudei), fu ampiamente divulgato nei Paesi francofoni; esso fu certamente meditato dai "redattori parigini", e di fatto ambedue gli elementi citati furono recepiti nella bozza dell'enciclica. La bozza, redatta in francese, era accompagnata da altri due documenti: una breve lettera indirizzata ai revisori gesuiti, e uno schema che illustrava il contenuto della stessa e i criteri seguiti nella sua redazione. La missiva fissava alcuni punti che dovevano essere osservati nel caso si volesse riorganizzare o rimaneggiare il testo: in primo luogo si consigliava di intervenire sulla prima parte nel caso si volesse "abbreviare il documento", anche se tale lavoro doveva essere condotto in modo da non intaccare la complessa articolazione del suo contenuto; si sottolineava poi, a modo di specificazione, che nella prima parte sono poste le fondamenta, cioè i princìpi teorici, della seconda, ritenuta quella più importante; in ultimo si precisava: "In ogni caso si prega di non toccare i paragrafi 126-130 (sulla diversità delle razze). Anche i più piccoli dettagli di questi paragrafi sono di estrema importanza (...). Essi, inoltre, sono la risposta più diretta e più precisa ai desideri del Santo Padre". Nel secondo documento erano riportati i criteri di ordine religioso, culturale e pastorale che avevano ispirato i redattori nella determinazione del contenuto dell'enciclica.
Alcuni di essi sono riportati anche nella lettera che il padre LaFarge indirizzerà successivamente al Papa. Tale documento ci aiuta a capire meglio in quale orizzonte teologico-culturale i suoi redattori si mossero (...)
La bozza dell'enciclica, come abbiamo detto, è stata pubblicata da un editore francese nel 1995; ad essa si sono succedute altre edizioni in diverse lingue. La copia conservata nell'archivio della nostra rivista è redatta in francese ed è sostanzialmente simile a quella già pubblicata (...)La parte certamente più rilevante dell'enciclica è la seconda, in particolare il breve capitolo dedicato agli ebrei e alla condanna dell'antisemitismo: "Coloro che hanno innalzato la razza su questo piedistallo usurpato hanno reso un cattivo servizio all'umanità. Poiché non hanno fatto nulla per andare verso l'unità a cui tende e aspira l'umanità", anzi tali teorie hanno fissato nuove barriere tra cittadini di uno stesso Stato, perché considerati razzialmente inferiori. Tale teoria sulla purezza razziale "finisce per essere unicamente la lotta contro gli ebrei; lotta che non differisce né per i veri motivi, né nei metodi - se non per la crudeltà sistematica - dalle persecuzioni esercitate ovunque contro gli ebrei fin dall'antichità" (...)
Nonostante tale forte denuncia contro l'antisemitismo e la persecuzione legale degli ebrei d'Europa, per i redattori dell'enciclica esisteva una cosiddetta questione ebraica che avrebbe dovuto essere risolta con umanità e senso di giustizia: "La questione ebraica nella sua essenza non è una questione di razza, né di nazione, né di nazionalità territoriale, né di diritto di cittadinanza nello Stato. È una questione di religione e, dopo l'avvento di Cristo, una questione di cristianesimo". In tali parole rispuntava il tradizionale antigiudaismo, per motivi non razziali, ma religiosi, presente in buona parte della cultura cattolica di quel tempo: in realtà, secondo tale tesi - affermata dal padre Gundlach nel Lexikon für Theologie und Kirche del 1930, e per anni sostenuta dalla nostra rivista, in particolare dal padre Enrico Rosa - spetterebbe allo Stato moderno risolvere secondo criteri parzialmente discriminatori, anche se non violenti, il problema ebraico, in modo tale che agli ebrei vengano riconosciuti i diritti civili dovuti, ma allo stesso tempo sia tutelata la comunità cristiana dall'influsso del giudaismo e dalla "nefasta volontà di potenza" di alcuni suoi aderenti. La lunga revisione della bozza di enciclica dalla documentazione da noi consultata risulta che il padre Generale non era pienamente soddisfatto del lavoro svolto dai tre gesuiti.
In una lettera inviata al padre LaFarge il 17 luglio egli lo invitava a prendersi il tempo necessario per la redazione dello scritto e ad essere più prudente, anche perché il padre Assistente degli Stati Uniti gli aveva riferito che egli era intenzionato a ritornare in patria al più presto: "Si dovrà conferire al tutto - scriveva il Generale - la forma voluta, il che non è così semplice: experto crede! (...) la costruzione delle frasi e l'intero documento dovrà corrispondere alla mentalità di chi firmerà". Tale indicazione non è da sottovalutare per capire le perplessità del padre Ledóchowski riguardo allo scritto, che probabilmente gli appariva più un saggio o un dotto studio di dottrina sociale della Chiesa che un'enciclica. Il 6 ottobre fece inviare una copia dello scritto al padre Rosa - il quale si era molto interessato di tali problemi sulla nostra rivista - accompagnandola con un biglietto: "Mando a V. R. una copia del lavoro del padre LaFarge con la preghiera di percorrerlo e di dirmi, se crede, se si può presentarlo in questa forma al Santo Padre come primo schema. Ne dubito molto! Se la R. V. fosse troppo occupata prego di darlo sotto segreto al p. Rettore Rinaldi". Neppure il padre Rosa apprezzò molto lo scritto e, sebbene fosse molto malato, si mise immediatamente al lavoro per redigere un nuovo schema di enciclica. L'aggravarsi della malattia, che lo condusse ben presto alla morte, avvenuta il 26 novembre 1938, gli impedì di portare a termine il delicato lavoro.
(...) Visto che il padre Rosa a motivo della sua grave malattia non poté portare avanti il progetto di comporre un nuovo schema dell'enciclica, il lavoro entrò in una fase di letargo. In una lettera dell'inizio di gennaio l'Assistente americano fa sapere al padre LaFarge che "ciò che le sta a cuore per il momento è "in sospeso"". Dalla documentazione conservata nell'archivio della nostra rivista risulta che l'enciclica, insieme ad altro materiale, fu inviata in Vaticano il 21 gennaio 1939. Dalla testimonianza di persone ben informate pare che il Papa stesso, attraverso monsignor Domenico Tardini, abbia richiesto al Generale dei gesuiti l'invio della bozza di enciclica. Tale fatto però non è documentato. "Beatissimo Padre - scriveva il padre Ledóchowski a Pio XI - mi permetto di mandare subito a Vostra Santità lo schema del padre LaFarge sul Nazionalismo e varie note fatte dallo stesso padre. Al padre Rosa e a me parve che lo schema, tale e quale è, non corrisponda a ciò che Vostra Santità aveva desiderato. Il padre Rosa cominciò a comporre un altro schema, ma non aveva le forze per un tal lavoro. Vostra Santità sa che siamo sempre alla Sua disposizione, lietissimi di poter rendere a Vostra Santità qualche piccolo servizio. Se Vostra Santità desiderasse che si facesse un simile lavoro, sarebbe forse bene di seguire il metodo che in altri casi si è mostrato buono, vuol dire: far prima un breve abbozzo secondo le indicazioni di Vostra Santità per poter poi comporre l'ultimo schema".
In tale lettera sono indicate le motivazioni che hanno determinato il ritardo (di quasi tre mesi) della consegna della bozza di enciclica al Papa; si tratta di considerazioni di ordine pratico, mentre sono taciute quelle di ordine intellettuale, politico e morale. Secondo la maggior parte degli storici - seguendo in questo le insinuazioni avanzate dal padre Gundlach - sarebbe stato il padre Ledóchowski, per motivi di natura ideologico-politica, a "sabotare" la pubblicazione di un'enciclica apertamente contraria ai regimi totalitari e contro il razzismo, temendo che essa avrebbe finito per incrinare i rapporti tra la Santa Sede e tali Governi, in realtà già molto tesi, con ricadute anche a livello giuridico-concordatario, facendo così il gioco diabolico del comunismo internazionale. Egli, secondo tali studiosi, era convinto che mentre con i regimi totalitari sarebbe stato possibile per la Chiesa negoziare un qualche modus vivendi, al contrario con quelli comunisti ciò sarebbe stato impossibile, a motivo delle teorie materialiste o atee da essi professate. La cosiddetta questione razziale e quella dell'antisemitismo, che tanto stavano a cuore al Papa, erano invece per lui questioni secondarie, in ogni caso non urgentissime dal punto di vista politico e morale.
A nostro avviso, sebbene contenga alcuni elementi di verità - non dubitiamo infatti dell'anticomunismo del padre Ledóchowski e della sua simpatia verso i Governi autoritari - tale interpretazione non ci pare sufficientemente suffragata dal dato documentale. Secondo noi, furono soprattutto questioni riguardanti la struttura dell'enciclica e il modo di trattare alcune materie, più che il suo contenuto (su specifici punti), che non convinsero pienamente il padre Generale e il padre Rosa, e a spingere quest'ultimo a "comporre un altro schema".
Con la promulgazione della legislazione antirazziale in Italia altre delicate questioni avevano ulteriormente inasprito lo scontro tra il regime fascista e la Santa Sede: alcune norme contenute in tali leggi infatti toccavano o, meglio, "vulneravano" punti essenziale della dottrina cattolica in materia di famiglia e di matrimoni. A questi temi, come ad altri, nella bozza di enciclica si accennava appena. Inoltre, dal punto di vista contenutistico, la dottrina antirazzista esposta nello scritto del padre LaFarge coincideva sostanzialmente con la linea adottata negli ultimi tempi dalla nostra rivista su tale materia: si vedano in proposito gli articoli sul rapporto tra razza e nazione redatti nell'estate di quell'anno dal padre Antonio Messineo e dal padre Rosa. Non si capisce come mai quest'ultimo avrebbe dovuto contraddire o censurare, come a volte viene ripetuto, il proprio confratello su punti che al contrario erano condivisi dalla rivista. La motivazione che spinse lo scrittore della Civiltà Cattolica a comporre un altro schema, ritenuto più conforme alle idee del Papa, dovevano quindi essere di altro tipo. Quando la bozza di enciclica arrivò in Vaticano, il Papa era già gravemente malato, e sarebbe infatti morto poche settimane dopo, il 10 febbraio 1939.
(...)
Sbaglia però chi ritiene che dietro la mancata promulgazione della Humani generis unitas ci fossero inconfessabili intrighi curiali, oscuri complotti gesuitici, o cose del genere, miranti a far tacere il Papa o ad ostacolarne la volontà.
La documentazione riportata dimostra, a nostro avviso, che furono motivazioni "procedurali" più che ideologiche (condivisibili o meno nella sostanza, ma comuni a ogni iter di formazione di documenti di questa portata), che rallentarono il cammino naturale del progetto di enciclica, mentre insormontabili ostacoli di ordine oggettivo (morte del padre Rosa, malattia e successiva morte del Papa) impedirono che tale importante documento, una volta perfezionato, venisse alla luce. Purtroppo, una certa letteratura storica è più interessata alla leggenda sviluppatasi intorno alla "enciclica nascosta" o trafugata, che al dato documentale e alla sua corretta interpretazione.

(©L'Osservatore Romano - 2 agosto 2008)

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