12 agosto 2008

Mons. Amato sul confronto fra il Cristianesimo e le altre religioni: "Sa dialogare solo chi ha passione per la verità" (Osservatore)


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Il cristianesimo e il confronto con le altre religioni

Sa dialogare solo chi ha passione per la verità

di Angelo Amato

Il medioevo e l'età moderna ospitano opere e autori che adoperano il genere letterario "dialogo" nella giustificazione della verità cristiana. Si vedano, per esempio, il Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano di Pietro Abelardo, scritto intorno al 1141; la Disputa tra un ebreo e un cristiano di Gilberto Crispino, abate di Westminster (1046-1117); il Libro del gentile e dei tre savi di Raimondo Lullo, composto tra il 1270 e il 1273. Questo genere dialogico fu anche coltivato dal gesuita Giovanni Battista Eliano, ebreo convertito originario di Alessandria di Egitto, che nel 1579 pubblicò in arabo un suo trattato a Roma. Altre opere a forma di dialogo furono pubblicate dal gesuita francese Michel Nau e dal confratello spagnolo Emmanuel Sanz.
Dopo la lectio di Benedetto XVI a Ratisbona non si può non accennare all'imperatore bizantino Manuele (1350-1425), figlio di Giovanni v Paleologo e vassallo del sultano turco Murad. Di questo imperatore illuminato, che visse in un difficile periodo di decadenza politica, sono originali i suoi Dialoghi con un musulmano, in cui si dibattono i problemi che da secoli erano presenti nei controversisti cristiani e musulmani. L'originalità di quest'opera è data dal metodo, che riduce il ricorso all'argomento scritturistico, comune alla tradizione teologica, e si affida, invece, alla ragione e ai dati razionali. Inoltre, il dialogo tra Manuele e il Mudarris (sapiente) musulmano non è una fictio letteraria ma corrisponde a conversazioni realmente avvenute e che toccano tutti i punti più importanti delle due religioni.
Un esempio di questo dialogo franco e alla pari è dato dall'argomentazione di Manuele relativa alle leggi di Mosè, di Gesù e di Maometto. Secondo lui, quanto si trova di positivo nella legge di Maometto è stato mutuato da quella di Mosè, con qualche aggiunta non certo felice. Il Mudarris, a sua volta, ribatte che la Legge di Cristo è "bella e buona, ma per il fatto di essere così ardua e pesante, difficilmente può essere utile (...). La Legge di Maometto, invece, ha preso la via di mezzo e, dando disposizioni che si possono soddisfare, ben più miti e adatte all'uomo, supera del tutto le altre Leggi proprio per il fatto di essere moderata".
L'eccellenza della Legge di Maometto è data, dunque, dall'essere una via media tra le altre due. Gesù avrebbe presunto troppo dalle forze umane, non tenendo conto della fragilità congenita dell'uomo. Gli eccessi della Legge di Cristo menzionati dal Mudarris sarebbero: l'odio verso i propri genitori, l'amore dei nemici, la povertà volontaria, la verginità e il celibato volontario. Per cui la Legge di Mosè sarebbe difettosa, quella di Cristo sproporzionata, quella di Maometto moderata, perché si mantiene nel giusto mezzo.
Manuele, utilizzando argomenti di ragione, fa subito notare la contraddizione del Mudarris che prima considera la Legge di Cristo bella e buona e poi ritiene negativo il consiglio del celibato cristiano.
In questo dialogo certo si possono trovare dei punti in cui gli interlocutori potevano incontrarsi, ma in realtà le loro posizioni dottrinali restano inalterate per cui più che di un dialogo si tratta di un duplice monologo. Anche nell'utilizzo della ragione, i due interlocutori restano sempre ciascuno all'interno della loro visione dottrinale. Nessuno opera un "esodo" per superare le visioni parallele e contrastanti e per incontrarsi in un punto. Restano due isole e il ponte di comunicazione, che è il dialogo, in realtà non congiunge due mondi ma li mantiene distinti.
Altri esempi di dialogo tra cristianesimo e altre religioni sono offerti in alcune opere della prima evangelizzazione amerindiana. Per esempio, nei Coloquios o Pláticas del francescano Bernardino de Sahagún (+1590) le conversazioni hanno luogo tra i missionari e i notabili e i sacerdoti indigeni sul confronto tra le credenze locali e il cristianesimo. Nei colloqui si paragonano gli dèi sanguinari del posto con la bontà del Dio cristiano. In Messico era di casa la pratica dei sacrifici umani sugli altari dei santuari aztechi. Il sacerdote con un coltello di selce squarciava il petto della vittima, ne asportava il cuore che poi veniva offerto alla divinità. Il contrasto tra questa usanza così crudele e il sacrificio di Gesù sulla croce costituì un importante argomento a favore della conversione al cristianesimo. I colloqui mostrano il reciproco rispetto degli interlocutori nell'avanzare le giustificazioni alla loro rispettiva credenza religiosa. Dalle relazioni dei missionari si ricava il sentimento di gioia e di liberazione degli indios convertiti, affrancati dal tremendo peso della soggezione a dèi spietati da placare continuamente anche con sacrifici umani.
È segno di colpevole ignoranza storica o di errata interpretazione delle fonti chiamare l'evangelizzazione amerindiana come una schiavizzazione dei popoli e il Vangelo come una cattiva notizia e invocare il ripristino delle religioni native. Ma è proprio desiderabile il ripristino di queste religioni, se si tiene conto, per esempio, del fatto che nel 1487, alla consacrazione del tempio principale degli Aztechi, in quattro giorni ventimila uomini, secondo le stime più basse, morirono dissanguati come vittime umane in onore del dio Sole sull'altare di Tenochtitlan? Si sa che i prigionieri di guerra servivano come sacrifici umani. Inoltre si offrivano agli dèi uomini, donne e bambini per ottenerne favori e allontanarne i castighi. Ovviamente, qui, non si tratta di una crudeltà innata in questi popoli, che secondo le relazioni dei primi missionari, erano miti e gentili.

Si tratta invece di precetti religiosi che obbligavano in modo spietato i fedeli: "Sicuramente - argomentava tempo fa il cardinale Joseph Ratzinger - questo è un esempio estremo, ma mostra pur sempre che non si devono vedere automaticamente in tutte le religioni vie di Dio verso l'uomo e dell'uomo verso Dio".

Una menzione particolare merita anche il gesuita Tirso González de Santalla, autore di un Manuale per la conversione dei musulmani, frutto di anni di predicazione e di esperienza nell'affrontare un uditorio difficile. La sua argomentazione parte dal presupposto che tutti gli uomini possiedono la ragione, che permette loro di discernere il vero e il giusto dal falso, una ragione tesa verso la verità e accompagnata dalla libertà. In quest'opera c'è anche un dialogo con un musulmano, un certo Hamid Sulayman, avvenuto a Malaga nel 1670. Si parla della Trinità, dell'Incarnazione - delle verità rivelate dalla fede - in cui con sincerità si afferma che "laddove non sussiste prima la fede, esse non sono sufficienti per convincere della verità del Mistero".
Ed ecco che il nostro autore intraprende un'altra strada. Non si possono infatti negare queste verità rivelate solo perché la "tua ragione" non riesce a spiegarsele. In tal modo non si dovrebbero accettare le moltissime verità che ci circondano e che accettiamo, anche se non le comprendiamo. Nell'onnipotenza divina risiede anche la possibilità di realizzare cose che la ragione umana non riesce a comprendere. A Dio che è verità i cristiani credono e quindi ai suoi misteri anche se il nostro intelletto non li può comprendere del tutto, poiché Dio non può ingannare né essere ingannato. E a questo punto González mostra Gesù dottore di verità.
La conclusione, però, è simile a quella dell'imperatore Manuele. Nonostante tutte le spiegazioni sulla Trinità il nostro autore non fu in grado di convincere il suo interlocutore a chiedere il battesimo.
Anche recentemente Benedetto XVI, nel suo libro Gesù di Nazaret, ha dialogato con il rabbino Jacob Neusner, affascinato dalle parole di Gesù nel discorso della montagna. Neusner, un ebreo osservante, è cresciuto in amicizia con cattolici ed evangelici, insegna all'università insieme con teologi cristiani e nutre un profondo rispetto nei confronti della fede dei suoi colleghi cristiani, anche se resta saldamente convinto della validità dell'interpretazione ebraica delle Sacre Scritture. Il profondo rispetto verso la fede cristiana e la sua fedeltà al giudaismo lo hanno indotto a cercare il dialogo con Gesù. Tale dialogo verte circa la verità della pretesa avanzata da Gesù di essere la nuova Torah sostitutiva della Torah mosaica.
Come si vede, il rabbino centra subito il fondamento dell'identità cristiana: l'autotestimonianza di Gesù Cristo.

E anche qui, nella libertà delle proprie convinzioni di fede, il rabbino mantiene la scelta di essere obbediente all'Israele eterno e di non seguire Gesù: "Questo è il punto centrale dello "spavento" dell'ebreo osservante Neusner di fronte al messaggio di Gesù, ed è il motivo centrale per cui egli non vuole seguire Gesù e rimane fedele all'"Israele Eterno": la centralità dell'Io di Gesù nel suo messaggio che imprime una nuova direzione a tutto".

Il problema dei rapporti tra le varie religioni e soprattutto l'affermazione dell'unicità salvifica del mistero di Cristo e della Chiesa pone il problema radicale della verità. Invece l'impressione dell'uomo d'oggi è che tutte le religioni, nonostante la loro policromia di simboli e strutture, in ultima istanza esprimano la stessa cosa. L'uomo contemporaneo raramente si interroga sulla verità, ma assume un atteggiamento equidistante: le religioni sono tutte parzialmente vere, quindi tutte interscambiabili, quindi nessuna è vera. Sorge allora l'interrogativo: "Parlare di verità della fede è presunzione o dovere?".

Il cristianesimo oggi non può non dialogare con le altre religioni, le deve comprendere e accogliere. Ma perché in queste religioni possano sopravvivere e affermarsi i lati positivi, esse hanno bisogno di "riconoscere il loro carattere di Avvento, che le rimanda a Cristo": "Questa è la grande pretesa con cui la fede cristiana è entrata nel mondo. Ciò implica l'obbligo morale di mandare tutti i popoli a scuola da Gesù, poiché Egli è la verità in persona e perciò la via per essere uomini".
Agli occhi del mondo, ma anche al suo interno, la Chiesa attraversa una profonda crisi proprio per la sua pretesa di verità universale. Oggi si è più propensi a ritenere plausibile la parabola buddista dell'elefante e dei ciechi, i quali identificavano l'elefante a seconda delle diverse parti del corpo dell'animale da loro toccate. Oggi il confronto o il dialogo tra le religioni può apparire come una disputa tra ciechi nati. E il cristianesimo non potrebbe rivendicare una prospettiva più favorevole al riguardo. Anzi, con la sua pretesa di verità aumenterebbe la sua cecità, perché scambierebbe la sua parte di verità come verità universale per tutti. Il cristianesimo, però, non è basato su simboli mitici o su esperienze mistiche, ma su "quel divino che può essere percepito dall'analisi razionale della realtà".
La rivendicazione del cristianesimo di essere la vera religio si fonda sulla conoscenza della realtà su Dio e sull'uomo. La sua pretesa di universalità è basata sulla realtà e sulla verità del mistero dell'incarnazione del Verbo. In tal modo il cristianesimo rende superflua ogni altra appartenenza religiosa. Questo è intollerabile per le religioni tolleranti di ieri e di oggi. Giustino è una figura sintomatica al riguardo. Lo studio di tutte le filosofie lo aveva condotto al riconoscimento del cristianesimo come la "vera filosofia", come la "vera religione". La convinzione che il cristianesimo sia una filosofia, anzi la filosofia perfetta, quella che si è spinta fino alla verità sulla vita, sulla morte, sul destino dell'uomo, ha dominato, come si è già accennato, l'epoca patristica. Nel cristianesimo, come religio vera, c'è l'armonia tra metafisica e storia. Più precisamente la verità del cristianesimo come religione mondiale è la sintesi fra metafisica e storia.
La motivazione centrale del cristianesimo come vera religione risiede nel mistero di Cristo. Scriveva René Latourelle: "Poiché Cristo è a un tempo il mistero rivelatore e il mistero rivelato, il mediatore e la pienezza della rivelazione, ne segue che egli occupa nella fede cristiana una posizione assolutamente unica che distingue il cristianesimo da tutte le religioni, compreso l'ebraismo. Il cristianesimo è l'unica religione la cui rivelazione si incarna in una persona, che si presenta come la verità viva e assoluta. Altre religioni hanno fondatori, ma nessuno di questi (Buddha, Confucio, Zoroastro, Maometto) si è proposto come oggetto della fede dei suoi discepoli. Credere in Cristo significa credere in Dio. Cristo non è un semplice fondatore di religione: egli è contemporaneamente immanente alla storia e suo Trascendente assoluto, non uno fra mille, ma l'Unico, il totalmente Altro".
Quindi il tema dell'incarnazione diventa un problema fondamentale per la verità della teologia cristiana. Se infatti Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazaret allora egli è la rivelazione definitiva di Dio. Non è un profeta che parla a nome di Dio, ma è la parola stessa di Dio. È Dio stesso che parla personalmente all'umanità e che la salva e la conduce alla comunione con sé. Ovviamente qui c'è lo scandalo del trascendente che si fa immanente e addirittura mortale e infine l'affermazione che la rivelazione di Gesù non esclude ma include tutte le realtà positive delle altre. Anzi il bene, il buono, il giusto attingono al mistero di Cristo la loro valenza salvifica.
Di fronte a un certo disagio che si avverte nei confronti dell'affermazione del cristianesimo come religione vera e universale, Giovanni Paolo II ammoniva: "Si nota (...) una diffusa diffidenza verso gli asserti globali e assoluti, soprattutto da parte di chi ritiene che la verità sia il risultato del consenso e non dell'adeguamento dell'intelletto alla realtà oggettiva" (Fides et ratio, n. 56).
Per contrastare una mentalità fondamentalmente relativistica, il Papa invitava i filosofi a ricercare i fondamenti della verità cristiana: "Nondimeno alla luce della fede che riconosce in Gesù Cristo tale senso ultimo, non posso non incoraggiare i filosofi, cristiani o meno, ad avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non prefiggersi mete troppo modeste nel loro filosofare. La lezione della storia di questo millennio, che stiamo per concludere, testimonia che questa è la strada da seguire: bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l'ansia per la ricerca, unite all'audacia di scoprire nuovi percorsi. È la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione".
È nel mistero di Cristo, Dio fatto uomo, che la verità rivelata si sposa con la verità umana in un'unica realtà: la persona stessa del Verbo incarnato, sapienza di Dio manifestata all'umanità intera. Il filosofo francese, il fenomenologo Michel Henry approfondisce questa tematica nella sua opera C'est moi la Vérité. È una profonda riflessione sulla verità del cristianesimo, che risiede nel fatto che Colui che diceva di essere il Messia era veramente il Messia, il Cristo, il Figlio di Dio nato prima dei secoli, portatore della vita eterna: "Non è tanto il corpus dei testi del Nuovo Testamento che ci possono far accedere alla Verità, a questa Verità assoluta di cui si parla, ma al contrario, è questa Verità ed essa sola che ci può introdurre in se stessa".
La verità del cristianesimo può semplicemente autogiustificarsi, rivelandosi come verità di Dio stesso: "Questa Verità che da sola ha il potere di rivelare se stessa, è quella stessa di Dio (...). Solo colui che è entrato in possesso di questa verità assoluta può, illuminato da essa, comprendere quanto viene detto nel vangelo e che non è nient'altro che questa verità assoluta che, rivelandosi a se stessa, si rivela anche a lui". Il filosofo di Montpellier parla quindi di un sonno metafisico che incombe sull'umanità, che sembra vivere in una cabina di simulazione, dove ci si imbatte in una non presenza, nel nulla, nella menzogna radicale e quindi nel Male. Si tratta di una situazione metafisica che non è solo la situazione dell'occidente, ma dell'umanità in quanto tale. Nell'umanità ridotta in questo stato di vita apparente, non è un dio qualsiasi che può salvare dalla morte, ma solo colui che è la Vita. Il mistero di Cristo è la scelta della Verità assoluta e della Vita alla sua fonte.
Considerazioni simili si hanno anche nel pensiero del filosofo inglese Roger Trigg che, contro la debilitazione della ragione del pensiero postmoderno, rivendica la possibilità di una razionalità universale e di una verità oggettiva. È quindi necessario ricuperare il realismo della verità e la sua universalità. Per questo Trigg rigetta i presupposti relativistici di John Hick e della sua teologia pluralistica delle religioni.
L'universalità della verità cristiana motiva la missione universale che Gesù diede ai suoi discepoli invitandoli ad andare fino agli estremi confini della terra: "La Verità, che è Cristo, si impone come autorità universale che regge, stimola e fa crescere (cfr. Efesini, 4, 15) sia la teologia che la filosofia".

(©L'Osservatore Romano - 11-12 agosto 2008)

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