14 novembre 2007
"Gesù di Nazaret": gli interventi del cardinale Ruini, di Giuliano Ferrara e di Monsignor Ravasi
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L’altro lato del Figlio
La basilica di San Giovanni gremita ieri sera per la ripresa del tradizionale «Dialogo in Cattedrale» con il neo presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, monsignor Gianfranco Ravasi, e Giuliano Ferrara, direttore de «Il Foglio», introdotti dal vicario di Roma, il cardinale Camillo Ruini. Al centro della serata, il volume di Benedetto XVI, «Gesù di Nazareth».
«Questo libro – ricorda Ruini – è anche al centro del lavoro quotidiano costante che la diocesi di Roma sta facendo, tanto che il programma pastorale comincia con alcune parole che si riferiscono alla sostanza del libro: 'Gesù è il Signore'».
Il cardinale Ruini evidenzia due nuclei fondamentali del libro di Papa Ratzinger: «Il primo – spiega – riguarda il rapporto tra la storia e la fede in concreto. L’intenzione fondamentale di Benedetto XVI è mostrare l’identità che esiste tra il Gesù della storia e il Cristo della fede della Chiesa. Questa unità è pietra angolare del cattolicesimo e di ogni cristianesimo che intenda essere 'cristianesimo credente' ».
Del secondo nucleo dice: «È posto un unico e identico Gesù Cristo in una 'storia efficace', quella che i tedeschi chiamano 'Wirkungsgeschichte', una storia, cioè, che si realizza, che giunge fino a noi, che ha determinato gli itinerari della nostra civiltà e continua ad essere determinante oggi per il nostro cammino non solo personale e interiore ma anche comune, storico e pubblico». Da qui l’invito del cardinale a leggere il libro in posizione di apertura, quella apertura che Ratzinger ha definito 'ascolto umile' verso il Signore che parla dentro di noi. «Potremmo aggiunere un terzo aspetto – conclude Ruini –, e cioè l’intento di introdurci nell’intimità personale con Gesù Cristo, o meglio in quella intimità personale che Gesù ha avuto con Dio Padre ».
L’iniziativa dei 'Dialoghi' è nata nell’ambito della Missione cittadina voluta da Giovanni Paolo II nel 1996. L’obiettivo era quello di preparare la Chiesa e la città di Roma alla celebrazione del Grande Giubileo del 2000. Nel corso degli anni, numerose personalità ecclesiastiche e rappresentanti della cultura hanno dialogato nella cattedrale romana; tra questi l’allora cardinale Ratzinger e Vittorio Possenti nell’incontro sul tema poi cruciale nel pontificato di Benedetto XVI, «Fede e ragione».
© Copyright Avvenire, 14 novembre 2007
Ferrara: io, ateo devoto, credo nella fede del Papa in Gesù
«La mia ragione mi dice così il suo limite. Se non lo riconoscessi sarei padrone della mia vita e della morte»
DI GIULIANO FERRARA
Se il Papa ha scritto un libro su Gesù ci deve essere un motivo. La Chiesa è già un libro vivente su Gesù, dipende da Gesù come il corpo dalla testa. La Chiesa segue Gesù, testimonia per lui e in lui attraverso la fede, le opere, la carità, i sacramenti e soprattutto la liturgia.
Tutto nella Chiesa si fonda sulla parola di Gesù annunciata nel Vangeli, che per la Chiesa sono i primi e definitivi libri in cui Gesù si trova e, in parte, enigmaticamente si nasconde. La Chiesa è la tipografia universale di Gesù, cura da sempre l’ortografia del racconto che lo riguarda, Gesù è la sua A e la sua Zeta. La Chiesa legge da due millenni anche i libri più antichi della fede ebraica, l’Antico Testamento, alla luce di quelli più recenti. Nella parola di Cristo Gesù e dei suoi apostoli, nelle Lettere e negli Atti, la Chiesa ritrova e riconosce come suo anche il patrimonio comune degli ebrei, il gran libro di Mosé, la sua legge, e i salmisti e i profeti e tutto il resto della Bibbia, tutto il resto di quei libri che diventano patrimonio comune di ebrei e cristiani. In apparenza, dunque, i libri su Gesù sono già stati scritti. Secondo la Chiesa, che sposa storia, teologia, filosofia e profezia, perfino le Sacre Scritture degli agiografi, che scrivevano secoli prima della nascita di Gesù di Nazaret, riguardano il suo avvento.
E allora? Perché il Papa ha scritto un libro su Gesù?
La risposta la dà lui stesso in modo apparentemente molto semplice. Il Papa, che è un teologo e un filosofo e uno storico, ha voluto dare un contributo personale alla ricostruzione del volto del Signore. E il suo contributo è di una semplicità inaudita: il Papa Benedetto XVI, che con una doppia firma in quanto autore si qualifica anche come Joseph Ratzinger, non si limita a credere nel Gesù dei Vangeli, aggiunge qualcosa alla sua fede, aggiunge che la figura di Gesù Cristo è logica, è storicamente sensata e convincente, solo se esaminata e per così dire razionalmente argomentata alla luce dei Vangeli.
Senza argomentazione razionale, senza ricorrere criticamente al metodo storico, Gesù diventa un’astrazione interiore, perde il contatto con il tempo, con la storia, con il creato, con l’umanità e con il suo ethos, con la vita e con il suo significato, diventa una figura evanescente separata dalla realtà dell’essere e dall’essere della realtà. Non si capirà mai che cosa volesse dire quando disse: «Io sono». Ma con il puro metodo storico si possono formulare solo ipotesi su Gesù, ipotesi che si contraddicono, che stanno irrimediabilmente nel passato. (...) A questo punto potreste obiettarmi: e tu che c’entri con il libro del Papa, se il libro del Papa è quello che tu dici? Come fai a entrare in un discorso sul Figlio del Dio vivente se non credi? E la mia risposta è questa. La mia ragione mi dice il suo limite. Se non lo riconoscessi sarei padrone della mia vita e della mia morte, sarei un nichilista. La mia ragione mi dice che sono un credente, sebbene non disponga di una fede personale e confessionale praticamente vissuta. Credo nel concetto matematico e fisico di infinito, che segna il mio limite e lo descrive. Credo che mio padre e mia madre non siano l’origine biologica del mio Dna ma un semplice e irrisolto mistero d’amore. Credo che l’altro, la persona umana o anche solo il suo progetto o anche solo il suo ricordo, sia titolare di diritti che sono al tempo stesso i miei doveri, e che questo ciclo della delicatezza e del rispetto tra le generazioni sia stato messo a punto, nella sua massima perfezione, dentro la civilizzazione cristiana del mondo. Credo che non tutto sia negoziabile e relativo. Ed è già un bel credere, ve lo assicuro.
In più credo nella fede degli altri, la rispetto e la amo, in un certo senso la desidero. L’inesistenza della mia fede non mi porta a considerare la fede, anche e soprattutto la fede dei semplici, dei piccoli, come una variante della superstizione o del fanatismo.
Se poi la fede degli altri mi si presenta con il vigore e la passione razionale di un magnifico libro di teologia, se il sapere della fede e la fede nel sapere di un Papa mi insegnano qualcosa di prezioso che attraversa la storia ma non la esaurisce e in essa non si esaurisce, crescono a dismisura la mia inquietudine, la mia curiosità e la mia fiducia.
© Copyright Avvenire, 14 novembre 2007
Ravasi: tra storia e teologia, la lunga «cerca» del vero Cristo
Il neo-presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura e il direttore del «Foglio» faccia a faccia in Laterano per i «Dialoghi in cattedrale», presentati dal cardinale Ruini; a tema l’ultimo libro di Benedetto XVI
«Le moderne correnti di ricerca sul Nazareno scordano spesso che la realtà di una persona va oltre i documenti»
DI GIANFRANCO RAVASI
L’ aveva intitolata proprio così: «Giovanni 1, 14», rimandando esplicitamente a quel versetto del quarto Vangelo in cui si proclama che il Verbo divino ed eterno si fece carne umana, cioè storia ed esistenza. In quella poesia il famoso scrittore argentino agnostico Jorge L. Borges metteva in bocca a Cristo questa confessione: «Io che sono l’È, il Fu, il Sarà, / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo... / Vissi prigioniero di un corpo e di un’umile anima...». La Parola si fece dunque parole, l’Eterno tempo, l’Infinito spazio, Dio divenne anche uomo. Ebbene, è attorno a questo intimo intreccio che si è snodata da sempre la riflessione teologica e l’analisi storica su Gesù Cristo.
Il libro di Benedetto XVI ha voluto rimettere al centro proprio questa unità fondante del cristianesimo, riproponendone la compattezza contro ogni tentazione di dissociazione. Sì, perché – se stiamo solo alla ricerca moderna – si è assistito a un processo di divaricazione o anche di separazione e persino di negazione di uno dei due poli di quell’unità. Tutto è cominciato alla fine del Settecento con quella che gli studiosi definiscono ora, con l’inglese ormai imperante, Old Quest, cioè l’antica ricerca: soprattutto in ambito tedesco e illuministico si spogliava Gesù di Nazaret del manto di Cristo e di Figlio di Dio, eliminando dalla sua figura tutto ciò che era ritenuto mito o costruzione fideistica, a partire dai miracoli e dalle parole trascendenti in cui appariva un volto divino. Nel primo Novecento, con un teologo divenuto poi quasi un capofila, Rudolf Bultmann, si procedeva ulteriormente su quella linea ma per ottenere un esito opposto: al cristiano deve interessare proprio e soltanto il Cristo, il Figlio di Dio, e non certo la vicenda storica dell’ebreo Gesù di Nazaret. Anche per questa via – che non era razionalista come la prima, bensì teologica – si confermava la dissociazione in Gesù Cristo tra il Verbo e la carne. Ma, attorno agli anni 1950-75 si consumò una svolta radicale con la New Quest: questa nuova ricerca affermava invece la continuità tra il Gesù della storia e il Cristo della fede (o del kerygma o «annunzio» pasquale della Chiesa, come si è soliti dire tecnicamente). Si assisteva, così, a una serie di fervide analisi storiografiche sulle parole e sugli eventi di Gesù di Nazaret, così da averne una rappresentazione compiuta, recuperandone il rilievo storico, emarginato da Bultmann.
Ma la traiettoria del pendolo dell’analisi critica non si era ancora esaurita: attorno al 1985 prese il via una Third Quest o «terza ricerca», la cui caratteristica fondamentale era la collocazione della figura di Gesù nel suo orizzonte storico giudaico (un ambiente culturale e religioso a noi ben noto attraverso una vasta documentazione) così da farne risaltare la conformità ma anche l’originalità e la discontinuità, considerate come criteri per sostenere la plausibilità storica di molti dati di Gesù e su Gesù offerti dai Vangeli.
A questo punto ecco lo snodo dell’opera di Benedetto XVI che, pur ricorrendo al metodo storico-critico seguito dalla New e dalla Third Quest, lo riposiziona e lo completa riportando l’attenzione anche sulla dimensione «cristologica », cioè sul Verbo divino presente nella carne di Gesù di Nazaret, attestato dai Vangeli: solo così si può presentare un Gesù reale, non amputato o sezionato.
Il discorso diventa, dunque, complesso. Vorremmo solo far notare due dati.
Il primo è di ordine storiografico: non tutto il reale è «storico». Quanti detti e atti effettivamente compiuti dall’umanità nei secoli non possono essere documentati storicamente! Lo storico, che ha bisogno sempre di avere come base dati documentati, non ha in mano tutta la realtà di una persona, anzi ad essa si avvicina solo in minima parte e spesso in via ipotetica. Ed è per questo che sempre più ai nostri giorni si ricorre all’ausilio di altre discipline, come la psicologia, la sociologia, l’antropologia e – perché no? – la mistica e la teologia.
Il secondo dato è di indole teologica: oggetto e fondamento della fede non è di per sé il solo Gesù storico; eppure il Gesù storico è componente fondamentale della fede cristiana perché essa ha al centro la persona di Gesù Cristo che è quell’unità di umanità e divinità da cui siamo partiti. E allora anche la ricerca storica su Gesù dev’essere integrata nella stessa teologia in un incrocio delicato ma necessario.
© Copyright Avvenire, 14 novembre 2007
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