10 luglio 2008

Eluana, condannata da giudici che si credono dei?


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Condannata da giudici che si credono dei

di Stefano Lorenzetto

Meno di un mese fa, durante un incontro pubblico, ho chiesto al mio amico Mario Melazzini, medico oncologo affetto da sclerosi laterale amiotrofica, una malattia a decorso purtroppo infausto: «Esiste un potere del singolo, dei parenti, dello Stato in grado di stabilire la liceità, nei casi di grave menomazione fisica, di darsi o dare la morte?». Dalla gola imprigionata nel tutore ortopedico è salita questa risposta sillabata con voce gutturale ma ferma: «No, non esiste. La vita è un bene indisponibile».
Come Eluana Englaro, il dottor Melazzini, paralizzato in sedia a rotelle, non può né nutrirsi né bere autonomamente, perché i muscoli della masticazione e della deglutizione sono compromessi; sopravvive grazie a una pompa a infusione lenta che gli introduce nella pancia alimenti liquidi. Il suo unico «pasto» dura dalle 6 di sera alle 2 di notte. Prendete nota: da ieri, in Italia, dar da mangiare agli affamati e dar da bere agli assetati non sono più opere di misericordia corporale. Basta che queste due azioni avvengano attraverso un sondino nasogastrico perché una qualsiasi corte di giustizia possa derubricarle a «trattamenti sanitari» passibili di sospensione.
Lo so, i due casi non sono comparabili. Il dottor Melazzini ragiona, parla, viene portato in giro per l’Italia, la mattina riesce persino a curare i suoi pazienti alla clinica Maugeri di Pavia. Eluana Englaro, in stato vegetativo dal 1992, non può far nulla di tutto questo. Ma è proprio la Corte d’appello di Milano a rimarcare di non essersi pronunciata «sulla qualità della vita» dell’inferma bensì sulla volontà espressa in anni lontani dalla giovane donna, la quale mai e poi mai - secondo le convergenti testimonianze rese dal padre e dagli amici - avrebbe voluto tirare avanti in simili condizioni.
Dunque è stato riconosciuto «il rispetto dell’autodeterminazione e della libertà delle persone», ha plaudito il presidente della Consulta di bioetica, cioè il potere del singolo di pretendere la morte, sia pure «in hospice o altro luogo di ricovero» adeguato, come prescrivono i giudici, consapevoli che il decesso per inedia non è un bello spettacolo. «Morirà di fame e di sete, c’impiegherà almeno 15 giorni, sarà un’agonia crudelissima», mi ha detto sconfortato il dottor Giovanni Battista Guizzetti, che a Bergamo cura 24 malati in tutto e per tutto uguali a Eluana Englaro. «Almeno avessero il coraggio di farle un’endovena di morfina ad alto dosaggio...». Dal 1996 a oggi Guizzetti ha visto risvegliarsi ben 12 dei suoi pazienti. Chissà se qualche toga avrà vagliato questa remota possibilità.
Quali sono i parametri biologici, intellettuali, funzionali che distinguono la vita dalla non vita? Per Indro Montanelli l’impossibilità di recarsi in bagno da solo costituiva una condizione già sufficiente per congedarsi da questo mondo. Il lebbroso Francesco e i suoi compagni di sventura volevano solo morire, cercavano di appiattirsi le papule col ferro rovente nel Terzo isolamento dell’ospedale San Martino di Genova; molti di loro portavano il cucchiaio alla bocca ma la minestra gli usciva dai due buchi soprastanti perché il naso non ce l’avevano più. Poi Francesco ha incontrato un’altra hanseniana, Pina, e l’ha sposata. Sono entrambi guariti. Se un tribunale 46 anni fa avesse dato retta a entrambi, non avrei passeggiato con loro per le strade di Genova.
La dignità di una persona non dipende, non potrà mai dipendere, dalle sue condizioni fisiche. E io penso che anche gli atei dovrebbero cominciare ad aver paura di un Paese dove il potere che un tempo si attribuiva a Dio da ieri è nelle mani dei giudici.

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Giusto così: la sua non era più vita

di Giordano Bruno Guerri

La vita è sacra, è vero. Questa affermazione di principio, però, perde senso e valore quando si passa a considerare non la vita in generale, ma quella di chi è ridotto allo stato vegetativo: cessate le funzione cerebrali, senza coscienza, nutrito a forza, il corpo inerte collegato a macchinari che fanno proseguire artificialmente, forzatamente, un'esistenza che di umano non ha più niente, se non il dolore. Due anni fa, quando Piergiorgio Welby chiedeva di morire, ci fu chi sostenne che quando un uomo soffre fino al punto di desiderare la morte, gli si deve far capire che la vita può essere bella proprio grazie all'amore degli altri. Parole belle quanto astratte, che suonano come imposizione dell'amore, come privazione della libertà di scegliere tra un bene universale e teorico e un «male» individuale e liberatorio: la scelta di morire. Invece Giovanni Paolo II, nell'enciclica Evangelium vitae, del 1995, sostenne che è giusto lasciare al malato una certa autonomia decisionale sull'ostinazione terapeutica: «È lecito sospendere l'applicazione delle cure quando i risultati non corrispondono all'aspettativa». E fin qui abbiamo parlato di individui malati e però capaci di decidere se davvero valga la pena di essere vissuta un'esistenza senza prospettiva se non altro dolore, altra impossibilità ad agire persino nei gesti più semplici e quotidiani, altra dipendenza da uomini e macchine che lo costringono a vivere contro il suo desiderio di resa, di fine, di pace.
Eluana non poteva neanche scegliere, non poteva scegliere niente, neppure se aprire o chiudere gli occhi. Aveva bisogno di qualcuno che la amasse abbastanza per liberarla, sicuro che lei avrebbe voluto così. E nessuno poteva saperlo meglio di suo padre, che per anni si è battuto per dare la pace al corpo inerte di sua figlia.
C'è chi parlerà di inaccettabile «relativismo etico», perché la vita va difesa sempre e comunque. Non sono d'accordo. Proviamo a fare un esempio a rovescio, quando si tratta di difendere una vita, invece che di concedere una morte: se un testimone di Geova adulto, in base alla sua fede, rifiuta una trasfusione di sangue che lo salverebbe, possiamo riconoscergli questo diritto. Se invece quello stesso testimone di Geova volesse impedire la trasfusione che salverebbe un suo figlio di due anni, la trasfusione verrebbe fatta contro la sua volontà. Il relativismo etico non c'entra, qui si tratta di difendere i diritti dell'individuo, in particolare del più debole. E così dev'essere anche per l'eutanasia. Infatti la corte milanese che ha ammesso la possibilità di «staccare la spina» a Eluana, si è basata su una sentenza della Corte di cassazione del 16 ottobre dell'anno scorso, dopo il caso Welby: è stata riconosciuta l'irreversibilità dello stato vegetativo di Eluana e dimostrato che la ragazza avrebbe preferito morire piuttosto che vivere in quello stato. Continuare tenerla in vita significherebbe soltanto continuare ad andare contro i suoi diritti, che le sono già stati negati per tanti, troppi anni.
A Eluana è stato fatto un torto lungo sedici anni di inutile strazio. C'è un solo modo per evitare che questo dolore si ripeta in altre famiglie, senza costringerle a interminabili cause in tribunale. In Parlamento giace da anni la proposta di legge di Umberto Veronesi sul testamento biologico, una proposta che dovrebbe venire discussa al più presto. Grazie al testamento biologico ogni cittadino potrebbe decidere, nel pieno delle forze e della salute, se in caso di malattia incurabile si possa esercitare su di lui quell'«accanimento terapeutico» più simile a un'offesa alla vita che a una sua difesa.

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La dura critica di Fisichella: «È eutanasia»

di Redazione

La decisione dei giudici di autorizzare la sospensione della alimentazione ad Eluana, in stato vegetativo da 16 anni, per il neopresidente della Pontificia accademia per la vita Rino Fisichella giustifica «di fatto una azione di eutanasia». Ma la sentenza «può essere impugnata presso una corte superiore, e non è ancora detta l’ultima parola» e c’è «la possibilità di ragionare con maggior serenità e meno emotività ». Certo una sentenza del genere incide sul dibattito sul testamento biologico, compromette la ricerca di «soluzioni condivise» e rischia di alimentare «tensioni sociali». Il vescovo-teologo esprime un duplice sentimento «da una parte tristezza e amarezza e dall’altra profondo stupore».

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Vedi anche:

La triste felicità del papà «L’inferno è finito, mia figlia adesso è libera»

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