10 luglio 2008

"Il caso Eluana Englaro": le opinioni di Rusconi e Garelli (La Stampa)


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La dignità

GIAN ENRICO RUSCONI

Nel caso di Eluana non si sta sopprimendo una vita umana, ma al contrario si sta riconoscendo la sua dignità. Il suo diritto a morire dignitosamente. Naturalmente secondo un criterio che non è quello bioteologico, cioè di chi considera il bios vegetativo come tale segno dell’impronta divina nell’uomo.

La questione tuttavia è molto seria e va affrontata con ragionevolezza e rispetto reciproco delle differenti posizioni. Le convinzioni sulla vita e sulla morte, come quelle sulla famiglia e sul sesso, ci dividono profondamente. Ma se vogliamo vivere insieme in una comunità civile di cittadini, credenti e non credenti, dobbiamo coltivare attenzione reale per le ragioni di tutti. Questo non è «relativismo», ma segno della maturità di una società civile.

Nessuno quindi - a cominciare dai rappresentanti della Chiesa - ha il diritto di usare argomenti infamanti o criminalizzanti contro chi ha preso la decisione di lasciar morire in pace Eluana. Oggi è rimesso in discussione che cosa sia la «vita», anzi la vita umana. La medicina ha alterato profondamente il rapporto tra biologico e meta-biologico. Il confine è diventato labile e incontrollabile. Noi vogliamo riappropriarci di questo territorio tenendo fermi alcuni criteri. Cominciando con l’affermare che è legittimo chiederci se una vita veramente vegetativa, senza alcuna possibilità di recupero, sia degna di essere vissuta.

Porsi questo interrogativo non equivale a sostenere una selvaggia eutanasia, ma a ribadire la pienezza della dignità umana e quindi porre le premesse da cui discendono quesiti essenziali cui rispondere. Primo: chi ha la competenza di stabilire l’irreversibilità della condizione di una vita vegetativa? Secondo: chi ha il diritto di decidere sul destino di chi si trova in questa condizione? Mi pare che nel caso di Eluana entrambi i quesiti abbiano trovato una risposta ragionevole e accettabile. I medici hanno stabilito l’irrecuperabilità della ragazza a una vita degna di essere vissuta. Il padre come persona biologicamente, emotivamente, giuridicamente più vicina ha preso in piena consapevolezza la decisione di sospendere l’alimentazione. Responsabilmente e pubblicamente.

Diciamolo pure brutalmente. Quanti casi analoghi sono decisi quotidianamente in modo cinico, ipocrita, sottobanco - magari (Dio non voglia!) con l’assenso tacito dei clericali «purché non si faccia scandalo»? Ben venga quindi un dibattito pubblico, forte ma leale. Con una premessa essenziale però: nel nostro Paese esiste una magistratura che su questa difficilissima materia sta muovendosi con scrupolo, ponderando tutte le ragioni in campo, tutti i diritti in gioco. Può sbagliare, naturalmente; le sue sentenze possono essere corrette o rettificate. Ma nessuno - con la presunzione di appartenere ad un ordine morale superiore - si azzardi a diffamarla. Magari in nome di una «sana laicità».

© Copyright La Stampa, 10 luglio 2008 consultabile online anche qui.

Attenzione! Nessuno criminalizza nessuno, ma Rusconi rispetti le opinioni di tutti, Chiesa compresa!
Di gente che ha la presunzione di appartenere ad un ordine morale superiore era mezza vuota Piazza Navona!
R.

La vita

FRANCO GARELLI

Non può che suscitare perplessità e mestizia (ma anche contrarietà) la notizia che la Corte d’Appello di Milano autorizza il padre a sospendere il trattamento che tiene in vita la figlia in coma da sedici anni a seguito di un incidente stradale. L’«adesso può morire» non può essere salutato con enfasi.

Non si può salutare, come qualcuno sta facendo, come una vittoria dello Stato di diritto o della libera determinazione dei singoli, in quanto quella della morte e della vita è una realtà più grande delle nostre capacità di comprensione, che richiama al senso del mistero e a una riflessione personale e pubblica che va oltre le posizioni e le battaglie politiche.

Su fatti come questi, ampie quote di popolazione hanno difficoltà a orientarsi, a dipanare la matassa, e cercano lumi in varie direzioni. La Chiesa cattolica in casi come questi ricorda a tutti, e in particolare ad una popolazione che in larga parte continua ancor oggi a identificarsi nei valori cristiani, che la vita non è mai in potere dell’uomo, che occorre affrontare queste situazioni con un grande rispetto di chi vi è implicato, ma anche con grande attenzione ai valori e ai principi. Per la Chiesa si tratta di forme di eutanasia, che si manifesta non soltanto in un intervento attivo nel dare la morte, ma anche nel togliere i supporti che tengono in vita le persone in condizioni estreme. Certo il campo è oltremodo complicato, dal momento che è difficile distinguere tra le forme di eutanasia passiva e l’accanimento terapeutico in situazioni umane disperate. Il mantenere in vita in determinate circostanze può anche essere una forma di accanimento terapeutico. Tuttavia, per la Chiesa, ma anche per ampie quote di popolazione, il rispetto della vita è la cifra decisiva, da promuovere a tutti i livelli e in ogni condizione, in quanto la vita per l’uomo è un dono ricevuto dall’alto.
Ma su decisioni come queste si possono avanzare anche dei dubbi umani. Tra questi, il fatto che sospendere il trattamento che tiene in vita una persona da tempo in uno stato di coma irreversibile non produce necessariamente una «morte dolce». Interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale non è un atto che ha effetto immediato, che produce una morte istantanea. L’esito finale passa per una condizione di sofferenza cui si sottopone per qualche tempo la persona e i cui effetti non sono facilmente individuabili. Si tratta di veri e propri stati di agonia, di spasmi, di forti sofferenze fisiche, che non pochi esperti non esitano a definire una forma particolare di tortura.
Un’ulteriore perplessità può riguardare uno dei criteri a cui la Corte d’Appello di Milano si è ispirata per consentire lo stop alle macchine. Quello per cui la giovane quando era ancora nei suoi anni migliori, avrebbe manifestato «in piena coscienza» la decisione di morire piuttosto che essere costretta a vivere una vita priva delle capacità percettive e di contatti col mondo. Si tratta certamente di una scelta da rispettare, anche se può sorgere il dubbio che fosse l’esito di uno stato d’animo particolare, e di un orientamento culturale diffuso, tipico di chi ha difficoltà ad accettare una prospettiva di vita menomata rispetto a un’esistenza sino a quel momento piena e ricca di vitalità. Un’ulteriore considerazione è che con decisioni come queste si stia delineando un testamento biologico di fatto. Questi casi ci dicono che i giudici si stanno via via sostituendo al legislatore, la cui difficoltà di elaborare norme che affrontino la questione è imputabile sia alla complessità della materia, sia alla radicale diversità di posizioni che al riguardo emergono nella società pluralistica (e in particolare in Italia). La necessità di riprendere la riflessione pubblica in un settore etico così delicato è un imperativo che deve porsi una società che si vuole matura e responsabile.

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