19 settembre 2008
Andrea Riccardi: «Oltre 4000 ebrei furono ospitati nelle istituzioni ecclesiastiche fra il 1943 ed il 1944» (Beretta)
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intervista
La resistenza del Cupolone
Un saggio di Andrea Riccardi racconta la Chiesa romana durante l’occupazione nazista: «Oltre 4000 ebrei furono ospitati nelle istituzioni ecclesiastiche»
DI ROBERTO BERETTA
Questa è la «resistenza» di Pio XII. Non una lotta armata, e nemmeno una guerriglia di sabotaggi o proclami clandestini; ma una rete silenziosa di soccorsi a profughi e ricercati, un’infinita serie di trattative diplomatiche con gli occupanti, una costellazione di iniziative per aiutare la gente qualunque a «resistere».
Nei 9 difficilissimi mesi in cui Roma fu «città aperta » – tra l’8 settembre 1943 e il 5 giugno 1944, tra l’armistizio e la liberazione – la Chiesa non fu spettatrice passiva. Lo documenta lo storico Andrea Riccardi nell’imminente saggio L’inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma (Laterza, pp. 424, euro 18) dove allinea testimonianze «dal basso» – la cui raccolta ha cominciato addirittura negli anni Settanta, intervistando i sopravvissuti – per cercare di ricostruire il clima di quel periodo drammatico.
Professor Riccardi, possiamo parlare di «resistenza» di Pio XII?
«No. Anzitutto la Chiesa non voleva fare la resistenza, ma salvare vite umane. Bisogna inoltre evitare un’eccessiva personalizzazione sul Papa. Dopo l’8 settembre a Roma ci fu un moto spontaneo di suore (dedico loro un capitolo), religiosi, preti, parrocchie che si aprono ai clandestini; movimento non solo permesso dalla Santa Sede, cioè dal Papa e dal sostituto Montini, ma a volte sollecitato. Dunque fu semmai resistenza passiva».
Qualche cifra?
«All’epoca si diceva: metà Roma nasconde l’altra metà... Oltre 4000 sono gli ebrei ospitati nelle istituzioni ecclesiastiche, in tutto diecimila contando altri clandestini (giovani renitenti alla leva, politici, eccetera) nascosti in case private, nei conventi, negli ospedali. Il Laterano, ad esempio, divenne una cittadella della clandestinità che nel tempo giunse ad accogliere mille persone. Era una vita sotterranea che sconfinava nel mondo – allora molto a sé – della Chiesa».
Lei aveva già reso noto il cartello (bilingue italiano e tedesco) che, fin dal 25 ottobre 1943, la Segreteria di Stato fece affiggere nei luoghi sacri della capitale: «Questo edificio è alle dirette dipendenze dello Stato della Città del Vaticano. Sono interdette qualsiasi perquisizione e requisizione».
«Dietro quel cartello c’erano contatti costanti tra il Vaticano e i nazifascisti, mediazioni delicate, anche sottili seduzioni. Un grande lavorìo diplomatico che in certi momenti scricchiolò, a volte per lo zelo di fascisti italiani (per esempio la Banda Koch, entrata all’abbazia di San Paolo grazie alla complicità di un frate – unico caso di collaborazionismo ecclesiastico da me rintracciato), o quando furono scoperti comunisti ed ebrei in Laterano».
Torna però – su scala romana – la questione dei «silenzi» del Papa.
«Pio XII scelse indubbiamente di non reagire con la protesta o il grido, questo è un fatto. Però costruì un enorme spazio di salvezza nella Chiesa di Roma, allargando i confini dell’extraterritorialità a tutti i conventi. D’altra parte, dovremmo una buona volta andare al di là della solita accusa sui 'silenzi', perché la storia non è un tribunale: il suo compito è comprendere. La mia ricerca non vuole né condannare né esaltare la Chiesa, bensì provare a capire una vicenda che richiede di saltare gli stereotipi. Compreso quello di un vertice prudentissimo o pauroso e di una base tutta generosa ».
Non fu così?
«Fra le altre cose ricostruisco il dibattito vaticano tra chi non era favorevole all’ospitalità – il cardinal Canali – e chi invece la pensava all’opposto, come Ronca, rettore del Laterano. Neppure in Vaticano si aveva un quadro chiaro degli eventi mondiali, la Santa Sede era anche un nido di spie e vi si agiva sotto il costante timore che il Papa potesse essere portato in Germania».
Non si sapeva nulla nemmeno del «giorno terribile», il 16 ottobre 1943, la razzia al ghetto ebraico?
«La mia sensazione è che il Vaticano non sapesse di quell’operazione. Quanto alla reazione, seguì la via diplomatica dell’ambasciatore tedesco, unico e ambiguo canale a disposizione. C’è chi sostiene che la Santa Sede avrebbe ottenuto il rilascio di alcuni degli oltre 1000 ebrei rastrellati, ma non è confermato.
Anche qui Pio XII ha scelto di non gridare. Non era una posizione assurda: persino tra gli ebrei circolava l’illusione che i tedeschi si sarebbero accontentati dell’oro e pochissimi avevano l’intuizione di essere a rischio genocidio».
Colpisce in ogni caso la risposta generosa di una Chiesa che certo non era filo-semita.
«Qualcuno ha parlato di anticamera del dialogo ebraico-cristiano.
Non fu così. Tutti però capirono di vivere un grande dramma che richiedeva virtù eccezionali e si registrò una reazione collettiva del mondo cristiano, basata su sentimenti umanitari. Per esempio, ho indagato il fenomeno delle conversioni: furono indotte o no? La situazione è varia: ci furono ambienti di grande rispetto – in certi conventi agli ebrei venne data una stanza per pregare – e altri dove si registra invece qualche pressione, inviti garbati ma espliciti. Ancora: gli ospiti pagavano o no? Qualcuno ha parlato di forti cifre, ma sono casi isolatissimi. In genere contribuivano come potevano, spesso con nulla. Anche qui, insomma, le semplificazioni vanno scomposte».
Lei però cita un’occasione in cui il Papa parlò.
«Il grande incontro del 12 marzo 1944, quando Pio XII radunò i romani in piazza San Pietro per esprimere la sua partecipazione ai drammi della città. Fu l’unica manifestazione libera dell’intera Europa occupata. E a sentire c’era anche il socialista Nenni, clandestino nel Seminario romano».
Pochi giorni dopo, via Rasella e le Fosse Ardeatine. Quale fu la reazione papale?
«Il Vaticano era furente sull’attentato, tanto che l’Osservatore definì 'irresponsabili' i partigiani: era un errore che poteva solo condurre a un indurimento dei tedeschi, mentre uno degli obiettivi vaticani consisteva nell’evitare che Roma diventasse campo di battaglia e gestire un passaggio indolore dai tedeschi agli Alleati».
© Copyright Avvenire, 19 settembre 2008
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