19 settembre 2008
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L'apostolo Paolo vi approdò con Barnaba e Marco
Perge, porta del cristianesimo in Asia Minore
di Egidio Picucci
Perge, nell'antica Panfilia, assomiglia a un grande teatro all'aperto abbandonato in fretta da una compagnia che non ha avuto il tempo di raccogliere le scene, lasciandole dietro due grosse quinte alzate all'ingresso della città.
Le guide dicono che si tratta dei resti della porta ellenistica del iii secolo prima dell'era cristiana, e hanno ragione; ma il visitatore ha l'impressione di trovarsi davanti a un teatro abbandonato o distrutto da un ciclone che, venendo dal mare ha imbarcato i capricci del vento e ha fatto mulinello ai piedi dell'acropoli distruggendo tutto. A dir la verità un teatro c'è davvero, addossato a una collina sulla quale si slargano a ventaglio trentotto gradinate per quindicimila spettatori. Grazie a Dio qualcosa è rimasto come il bassorilievo che rappresenta la nascita di Dionisio; nascita difficile perché il dio che secondo i pagani avrebbe dato il vino agli uomini nacque prematuro e dovette essere affidato prima alle cure grossolane di Giove e poi a quelle delicatissime delle ninfe, nate fra i gabbiani che si posavano sulle onde.
Forse sono le stesse ninfe che di notte si pensava danzassero sotto i portici che attraversavano la città in direzione dell'acropoli e la cui leggendaria bellezza brilla ancora nei frammenti dei capitelli che ingentiliscono i ruderi della tomba di Plancia Magna, la matrona che precorse le conquiste del femminismo. È scomparsa, invece, la casa di Apollonio, matematico e astronomo dalle intuizioni copernicane.
In ottime condizioni è lo stadio che si trova fuori città, oltre le mura di cinta, con le gradinate digradanti a ferro di cavallo, ripulite e riallineate dagli archeologi. Gli incitamenti agli atleti che si esibivano sull'arena dovevano infastidire la gente raccolta nell'ex basilica romana, trasformata in chiesa, e divertire, invece, quella che oziava nelle terme. Nella basilica romana parlò Paolo, arrivato a Perge con Barnaba, suo primo compagno di apostolato, e con il quale era arrivato da Pafo (Cipro) insieme a Marco cugino di Barnaba, che proprio qui decise di tornare a Gerusalemme, forse spaventato dall'idea di dover attraversare le montagne del Tauro, pericolose di bestie e di briganti. Gli Atti parlano di questa rinuncia con parole misurate: "Qui Giovanni Marco si separò e tornò a Gerusalemme". Barnaba non dimenticò il cugino e ne ripropose la collaborazione all'inizio del secondo viaggio apostolico. "Ma Paolo - sottolinea Luca - non volle, ricordando che in Panfilia li aveva lasciati bruscamente né li aveva più aiutati. Ne nacque un forte dissidio, tanto che i due si separarono: Barnaba si imbarcò per Cipro con Giovanni Marco".
Tuttavia non fu una rottura totale e definitiva. L'impetuosa franchezza di Paolo non conosceva rancore: più tardi, infatti, parlerà di Barnaba con ammirazione nella sue lettere (1 Corinzi, 9, 6; Galati, 2, 9), e meglio ancora tratterà Giovanni Marco, che ebbe vicino durante la prigionia a Roma; che raccomandò ai Colossesi (Colossesi, 4, 10), che enumera tra i suoi collaboratori scrivendo a Filemone (Filemone, 24) e che vuole sia condotto a Roma da Timoteo, "perché - scrisse - mi sarà molto utile nel ministero" (ii Timoteo, 4, 11).
La costruzione più bella di Perge era il tempio di Artemide Pergaia, "regina di Perge", il maggior santuario della Panfilia, scomparso nel nulla. Forse se ne può "ricostruire" lo splendore fermandosi a guardare i ruderi del ninfeo in stile corinzio che spandeva acqua da una balaustra snella di colonne e di satiri giocosi. Un'iscrizione assicura che la fontana fu dedicata ad Artemide Pergaia, la veneratissima protettrice della Panfilia che ottenne alla città il diritto d'asilo e il rango di metropoli, ma che non raggiunse la celebrità dell'Artemide efesina.
Perge era lontana dal mare, per cui si salvò dai pirati, ma non da Alessandro Magno, che vi pose il proprio quartier generale per la conquista di Aspendos e di Side, la città in cui, fra il 338 e il 394 d.C., si tenne un sinodo che condannò i messaliani, assertori di un ascetismo che predicava il distacco dal mondo e una povertà radicale.
Anche se disabitata, non si può dire che Perge sia una città morta, piena com'è di colonne e di archi che hanno ancora qualcosa di vivo e abitato. Infatti pare che dentro vi dormano i bagliori delle fiaccole che illuminavano il selciato della strada larga più di venti metri, e che si sentano, rigiocate dall'eco, le voci che commentavano le conquiste degli eserciti o i pettegolezzi della vita cittadina nell'agorà o nel tiepido tepore delle terme, restaurate in questi ultimi anni.
È indicibile il sentimento di rispetto e di ammirazione davanti a città come questa, misto all'impressione di una maestà sconfitta, ma non sopraffatta; di una storia umiliata, ma non vinta.
Se poi si pensa che nel porto fluviale della città sbarcarono gli apostoli che diffusero il cristianesimo nell'Asia Minore, e da qui nel mondo, allora le rovine diventano Bibbia in pietra e in luce, ed emanano un'aria di permanente miracolo.
Guardare e ricordare è allora una grande felicità.
(©L'Osservatore Romano - 19 settembre 2008)
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