24 novembre 2007
Rondoni (Avvenire): il Papa e la speranza, questa grande dimenticata!
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Ora prende questo coraggio, e questa umiltà.
Insomma, prendendo la parola ancora per un documento importante, il Papa non si concentra su questioni secondarie. Si espone invece su una questione cardinale, centrale. Dopo quella sull’amore, arriverà l’enciclica sulla speranza.
E se quella sull’amore – su eros, agape e caritas – aveva colpito per larghezza e profondità, per libertà e serietà, ora si attende con tremore cosa potrà dire sulla speranza il Papa che non censura nulla, che non evita il confronto con il pensiero moderno e, se così si può dire, con la disperazione dei contemporanei. Si attende cosa potrà venire di antico e di nuovo su un tema segreto e portante.
Perché, se è lecito dirlo, che cosa vuol dire amare è il problema immediato, il problema evidente in ogni angolo della nostra società e della nostra vita personale. Tutti parlano e straparlano d’amore – dalle pubblicità ai programmi per ragazzi, dai rotocalchi alle canzoni – e così il Papa ha preso sul serio la questione dell’amore. Che infatti è sulla bocca di tutti, è così evidente. Di più, è così urgente, nella vita e nella cronaca. Anche nella cronaca nera, oltre che nella cronaca rosa. Dunque, è entrato con grande rispetto e con grande stima sulla questione dell’amore.
E se il suo intervento magistrale sull’amore è stato il segno della grande attenzione della Chiesa al tema che evidentemente appassiona gli uomini e le donne, ora arriverà la sua parola su un argomento che invece passa quasi sempre sotto silenzio.
Chi parla di speranza? È un termine che sembra caduto in disgrazia. Lo si sostituisce con altre parole come se ne fossero dei sinonimi: fiducia, ottimismo… Ma di lei, della speranza, chi ne parla davvero, chi la considera? Eppure non è una questione secondaria. Ogni persona, e ogni popolo, a seconda della situazione in cui si trova, affronta il problema della speranza. Che un uomo si trovi nel Bangladesh martoriato dai tifoni, o nell’Iraq colpito dalla guerra, o nel silenzio della sua casa dove i rapporti sono divenuti tesi, o nelle difficoltà del lavoro, la speranza è la virtù del costruire ancora, del non lasciare che vada tutto a male. La speranza, come diceva il poeta Péguy, è la virtù più strana, senza la quale le altre virtù non camminerebbero. È lei, dice, che le tira avanti, come una ragazzina tira avanti per strada le sorelle maggiori. Senza di lei, infatti, niente procederebbe. Tutto decadrebbe, e ogni cosa – un amore o una nazione – sarebbe condannata a una lenta o rapida rovina. Anche quando un uomo non ci pensa, tutto dipende dal fatto se ha speranza o no. Nella vita privata, nella vita pubblica.
Allora si attende questo intervento magistrale di Benedetto. Perché confusamente tutti sappiamo cosa è sperare. Avere un motivo per dire: domani sarà meglio. Lo sappiamo confusamente. E vorremmo che ci aiutasse a capire meglio, ad avere più chiaro il motivo stesso. Poiché vediamo anche quanto spesso la speranza svanisca, cacciata via in tante case, in tanti uffici, in tanti luoghi colpiti da una prova. Vediamo e sentiamo intorno a noi tanta disperazione. Che è quell’atteggiamento per cui non ti aspetti più nulla. Ci può essere anche una disperazione per così dire allegra. O meglio che ostenta un sorriso sulle labbra, ma dietro c’è la rassegnazione, la mancanza di aspettativa. Per questo attendiamo. E così, come l’altra volta ha illustrato cosa è l’amore, traendo il senso di una grande virtù cristiana dalle esperienze di amore che gli uomini d’amore vivono, anche stavolta attendiamo curiosi che ci illustri una grande virtù cristiana traendone il senso dalla trama dei giorni. Di questi nostri, dove conosciamo il movimento della speranza o la sua livida assenza.
© Copyright Avvenire, 24 novembre 2007
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