24 novembre 2007

Rondoni (Avvenire): il Papa e la speranza, questa grande dimenticata!


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BENEDETTO XVI E LA SPERANZA

LETTERA SULLA GRANDE DIMENTICATA

DAVIDE RONDONI

Venerdì verrà pubblicata la «Spe salvi»
Ora prende questo coraggio, e questa umiltà.
Insomma, prendendo la pa­rola ancora per un documento impor­tante, il Papa non si concentra su que­stioni secondarie. Si espone invece su u­na questione cardinale, centrale. Dopo quella sull’amore, arriverà l’enciclica sul­la speranza
.

E se quella sull’amore – su e­ros, agape e caritas – aveva colpito per lar­ghezza e profondità, per libertà e serietà, ora si attende con tremore cosa potrà di­re sulla speranza il Papa che non censura nulla, che non evita il confronto con il pen­siero moderno e, se così si può dire, con la disperazione dei contemporanei. Si at­tende cosa potrà venire di antico e di nuo­vo su un tema segreto e portante.
Perché, se è lecito dirlo, che cosa vuol di­re amare è il problema immediato, il pro­blema evidente in ogni angolo della no­stra società e della nostra vita personale. Tutti parlano e straparlano d’amore – dal­le pubblicità ai programmi per ragazzi, dai rotocalchi alle canzoni – e così il Papa ha preso sul serio la questione dell’amo­re. Che infatti è sulla bocca di tutti, è così evidente. Di più, è così urgente, nella vi­ta e nella cronaca. Anche nella cronaca nera, oltre che nella cronaca rosa. Dun­que, è entrato con grande rispetto e con grande stima sulla questione dell’amore.
E se il suo intervento magistrale sull’a­more è stato il segno della grande atten­zione della Chiesa al tema che evidente­mente appassiona gli uomini e le don­ne, ora arriverà la sua parola su un ar­gomento che inve­ce passa quasi sem­pre sotto silenzio.
Chi parla di speran­za? È un termine che sembra caduto in disgrazia. Lo si sostituisce con altre parole come se ne fossero dei sinoni­mi: fiducia, ottimi­smo… Ma di lei, della speranza, chi ne parla davvero, chi la considera? Eppure non è una questione secondaria. Ogni persona, e ogni popolo, a seconda della situazione in cui si trova, affronta il problema della speranza. Che un uomo si trovi nel Bangladesh marto­riato dai tifoni, o nell’Iraq colpito dalla guerra, o nel silenzio della sua casa dove i rapporti sono divenuti tesi, o nelle diffi­coltà del lavoro, la speranza è la virtù del costruire ancora, del non lasciare che va­da tutto a male. La speranza, come dice­va il poeta Péguy, è la virtù più strana, sen­za la quale le altre virtù non cammine­rebbero. È lei, dice, che le tira avanti, co­me una ragazzina tira avanti per strada le sorelle maggiori. Senza di lei, infatti, nien­te procederebbe. Tutto decadrebbe, e ogni cosa – un amore o una nazione – sarebbe condannata a una lenta o rapida rovina. Anche quando un uomo non ci pensa, tut­to dipende dal fatto se ha speranza o no. Nella vita privata, nella vita pubblica.
Allora si attende questo intervento magi­strale di Benedetto. Perché confusamen­te tutti sappiamo cosa è sperare. Avere un motivo per dire: domani sarà meglio. Lo sappiamo confusamente. E vorremmo che ci aiutasse a capire meglio, ad avere più chiaro il motivo stesso. Poiché vedia­mo anche quanto spesso la speranza sva­nisca, cacciata via in tante case, in tanti uf­fici, in tanti luoghi colpiti da una prova. Vediamo e sentiamo intorno a noi tanta disperazione. Che è quell’atteggiamento per cui non ti aspetti più nulla. Ci può es­sere anche una disperazione per così di­re allegra. O meglio che ostenta un sorri­so sulle labbra, ma dietro c’è la rassegna­zione, la mancanza di aspettativa. Per que­sto attendiamo. E così, come l’altra volta ha illustrato cosa è l’amore, traendo il sen­so di una grande virtù cristiana dalle e­sperienze di amore che gli uomini d’a­more vivono, anche stavolta attendiamo curiosi che ci illustri una grande virtù cri­stiana traendone il senso dalla trama dei giorni. Di questi nostri, dove conosciamo il movimento della speranza o la sua livi­da assenza.

© Copyright Avvenire, 24 novembre 2007

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