13 dicembre 2007
Dottor Yamanaka: tra l'embrione e mia figlia solo una piccola differenza (la rivoluzione delle staminali adulte nel silenzio dei giornaloni italiani)
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LO SCIENZIATO AL MICROSCOPIO
TRA L’EMBRIONE E MIA FIGLIA SOLO UNA PICCOLA DIFFERENZA
EUGENIA ROCCELLA
Mentre nel mondo la scoperta delle nuove cellule staminali 'pluripotenti indotte', ottenute senza distruggere embrioni umani, sta rivoluzionando i laboratori di ricerca, in Italia si tenta disperatamente di minimizzare, e soprattutto si tace. Non si sentono più voci che inneggiano alla libertà della scienza e ai suoi meravigliosi progressi, o che magnificano le prospettive, sempre più vicine, di nuove terapie. Quanto fosse strumentale e forzata la contrapposizione tra laici illuminati e cattolici oscurantisti lo si vede adesso, nel confronto con gli altri Paesi. Da noi, silenzio infastidito, amarezza a stento trattenuta. Altrove, sincera gioia per il traguardo raggiunto e nessun imbarazzo nel cambiare idea.
Il New York Times, che ha sempre fieramente sostenuto la ricerca sugli embrioni, pubblica una lunga intervista a Shinya Yamanaka, lo scienziato giapponese che ha scoperto il modo per far regredire le cellule somatiche adulte allo stato embrionale. La scelta fatta da Yamanaka non è stata casuale, e nemmeno dettata da ragioni puramente scientifiche: è stata una scelta etica, o, più semplicemente, umana. È bastato uno sguardo, racconta il New York Times, per cambiare una carriera. Lo scienziato è stato invitato da un amico a visitare una clinica per la procreazione assistita; osservando al microscopio un embrione, Yamanaka ha realizzato che «c’era solo una piccola differenza» tra l’embrione e sua figlia. Da quel momento, ha pensato che non si potevano usare con tanta disinvoltura gli embrioni in laboratorio: «Dev’esserci un altro modo», si è detto. L’ha cercato, e l’ha trovato.
Anche il settimanale americano Time non ha dubbi: è il metodo inventato dal giapponese che, nella classifica delle dieci migliori scoperte pubblicata ogni anno dalla rivista americana, merita di figurare al primo posto. Intanto, i grandi centri che finora hanno drenato flussi di denaro immensi per la ricerca sugli embrioni, subiscono gli scossoni del terremoto scientifico. Nel 2004 la rivista Darwin, diretta da Gilberto Corbellini e sponsorizzata dalla Fondazione Veronesi, parlava con ammirazione del ricercatore coreano Hwang, che sosteneva di aver ottenuto staminali embrionali umane con il metodo della clonazione (in seguito si è scoperto che si trattava di una truffa in perfetto stile Totò). Il titolo del pezzo era significativo: «Il ruggito di Seul». Nello stesso numero si esaltava la creazione, a Singapore, di Biopolis, un enorme campus destinato ad attrarre capitali internazionali da investire nella ricerca biotecnologica. Solo un anno fa, il Corriere della Sera ospitava un intervento dell’esperto Robert Paarlberg in cui si invitava l’Europa a «seguire l’esempio di Singapore e della Corea del Sud», ritenute la punta di diamante della ricerca internazionale. Oggi, però, gli scienziati abbandonano tristemente Singapore. Se ne vanno alla spicciolata – l’ha appena fatto anche Alan Colman, che insieme a Ian Wilmut clonò la famosa pecora Dolly – lasciandosi alle spalle quello che doveva essere il paradiso della libertà di ricerca. Invece – è ancora notizia di ieri – un gruppo italiano conquista la copertina della rivista scientifica internazionale Cell Stem Cell con uno studio assai promettente sulla cura della distrofia muscolare grazie alle staminali adulte.
Impressionante, no? Eppure chissà se tutto questo basterà per convincere i governi europei a fermarsi a riflettere, e a sospendere la distruzione seriale degli embrioni nei laboratori. Chissà se basterà a convincere qualche scienziato a guardare nel microscopio, e a stupirsi di quanto un minuscolo embrione possa essere simile a suo figlio.
© Copyright Avvenire, 13 dicembre 2007
Il dottor Yamanaka spiega come ha iniziato a ricercare una via alternativa alla clonazione per le cellule staminali
Nicoletta Tiliacos
Roma. “Quando ho visto l’embrione, ho improvvisamente realizzato che c’era una differenza piccola tra lui e le mie figlie”. Il dottor Shinya Yamanaka – il ricercatore dell’Università di Kyoto che è riuscito a far regredire cellule della pelle allo stato di bstaminali embrionali, senza utilizzare e distruggere embrioni umani – ha spiegato sul New York Times di martedì da dove è partito
per raggiungere un risultato scientifico che non è esagerato definire immenso. Ha spiegato in modo disarmante e molto semplice perché è partito da lì, da un’occhiata data, più per caso che per curiosità, a un microscopio, mentre era in visita a un amico che lavorava come medico in una clinica della fertilità. Per Yamanaka, ricercatore di lungo corso e deciso sostenitore della libertà di ricerca (“la libertà di ricerca mi piace”, dice all’intervistatore del NYT), non è stato dunque impossibile riconoscere l’umano in quell’embrione sotto il microscopio.
Non ha fatto finta di nulla, ha accettato il responso dei propri occhi e del proprio istinto, e gli sono venute in mente le due figlie: “Ho pensato. Non possiamo continuare a distruggere embrioni per le nostre ricerche.
Ci deve essere un altro modo”.
Un altro modo c’è. Lui lo ha dimostrato, scegliendo una strada in apparenza secondaria e tortuosa. Una strada data troppo presto per perdente rispetto a quella, propagandata come miracolistica, della clonazione terapeutica. Tuttora mai realizzata da nessuno, però. Non è mai superfluo ricordarlo: dalla strage di embrioni a fini di ricerca non è uscita, a tutt’oggi, nessuna staminale su misura di malato. Le acquisizioni di Yamanaka e quelle, indipendenti e contemporanee, dell’équipe di James A. Thomson dell’Università del Wisconsin (in passato, uno dei primi scienziati a isolare cellule staminali embrionali umane) dimostrano invece che l’accettazione di un limite – in nome dell’umano, dell’umano riconoscibile in un embrione sotto l’occhio di un microscopio – non solo non ha fatto del male al progresso della conoscenza, ma ha consentito di trovare “un altro modo” per cominciare a risolvere problemi fin qui insoluti.
Il dottor Yamanaka, per come lo racconta il cronista del NYT, è un quarantacinquenne dalla faccia da ragazzo serio, fama di eccentrico e creativo, grande appassionato di sport. “Per sua stessa ammissione drogato di lavoro, il dottor Yamanaka abitualmente lavora tra le 12 e le 16 ore al giorno.
Nel campus è famoso perché non accetta mai di pranzare con i colleghi. Mangia nel suo ufficio, in modo da poter continuare a lavorare”. A quanto pare, la recente celebrità planetaria, legata alla pubblicazione dei suoi risultati su Cell, gli crea qualche problema. Tutta questa attenzione, dice, lo distrae dalla ricerca.
Il successo arriva, per lo scienziato giapponese, dopo molti anni faticosi, a tratti quasi disperati. E’ stato lui a concepire per primo, lavorando sui topi, l’idea di una riprogrammazione delle cellule adulte per farle comportare come staminali embrionali, a opera di geni capaci di funzionare come interruttori, e di attivare o disattivare la crescita e la differenziazione delle cellule. Oggi il dottor Shinya Yamanaka è una gloria nazionale: “E’ la prima volta che una ricerca medica di importanza
mondiale nasce interamente in Giappone”, dice al New York Times il dottor Hitoshi Niwa, del Centro Riken per Biologia dello sviluppo di Kobe: “Nessuno aveva pensato, prima, di ottenere cellule staminali in questo modo. Si tratta di una direzione totalmente nuova”.
Il dottor Yamanaka è, a suo modo, un outsider. Ha cominciato come ortopedico, attratto da quella specializzazione dopo aver sperimentato da ragazzo molte ossa rotte dal rugby e dal judo, e poi è passato a occuparsi di farmacologia come ricercatore, passando per una divisione medicina (alla Dr. House, per capirsi. Yamanaka dice che, se gli dovesse andare male con la scienza, quella è la sua polizza di assicurazione per il futuro). Della ricerca, spiega, gli piace la libertà e anche il rischio: “Quando gli si chiede quale sia l’origine del suo successo, il dottor Yamanaka risponde che lui è uno disponibile ad assumersi dei rischi”. Quindi anche il rischio di andare controcorrente – lui non la racconta così, ma a ben vedere è così che è andata – e il rischio di battere sentieri meno promettenti e meno pubblicizzati.
La storia di Yamanaka è da manuale. Attratto dalla ricerca sulla terapia genica, punta naturalmente sugli Stati Uniti, ovvero “il posto migliore per conoscere la genetica e la ricerca sui topi geneticamente modificati”. In America, però, “il dottor Yamanaka non aveva né amici né contatti.
Racconta di aver spedito una trentina di lettere a università americane e a specialisti dei quali aveva ricavato i nomi da periodici e riviste. Una delle poche a rispondergli fu l’Università della California, con sede a San Francisco, che nel 1993 gli offrì un posto”. Tre anni dopo, Yamanaka tornerà all’Università di Osaka, portando con sé una partita di topi geneticamente modificati, di quei “knockout mice” sui quali sperimenterà, a partire dal 2004, la possibilità
di riprogrammare le cellule adulte, riportandole a uno stato equivalente a quello di staminali embrionali. In patria, nel frattempo, lo aspettano anni faticosi e oscuri. Pochi fondi, una sedia in un laboratorio affollato. Arriva la depressione, la sensazione di essere incompreso, la tentazione di smettere con la ricerca, che lui ama ma che non lo ama.
Il dottor Yamanaka arranca per anni. Fino al 2004, quando l’Università di Kyoto, dove era nel frattempo approdato, gli mette a disposizione un vero laboratorio e qualche fondo in più. Risale a quel periodo la visita casuale all’amico medico nella clinica della fertilità, la scoperta dell’essere umano in miniatura nell’occhio del microscopio, l’ispirazione di cercare in qualche modo “un altro modo”. Che doveva esserci, e infatti c’è. In Giappone, spiega Yamanaka, di fatto lui non avrebbe potuto usare nel suo laboratorio embrioni umani, nemmeno se lo avesse voluto. Dice anche che, personalmente, non ha mai manipolato embrioni umani, mentre nel piccolo laboratorio con due persone che continua a gestire a San Francisco, staminali embrionali sono utilizzate “per verificare che le cellule adulte riprogrammate si comportino come vere cellule staminali”. Ma, dice, “il mio obiettivo è quello di evitare del tutto di usarle”.
© Copyright Il Foglio, 13 dicembre 2007
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