6 dicembre 2007

INCONTRO PAPA-RE ARABIA SAUDITA: LO SPECIALE DI "30GIORNI"


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La storica visita del re dell’Arabia Saudita in Vaticano

Dono simbolico, fiducia reale

Il 6 novembre per la prima volta un sovrano saudita, custode delle due sacre moschee di Mecca e Medina, ha incontrato un papa. E gli ha donato simbolicamente una spada d’oro. Così re Abdullah e papa Benedetto hanno iniziato un cammino dalle prospettive inedite. Intervista con l’ambasciatore saudita presso lo Stato italiano, Mohammed Ibrahim Al-Jarallah

di Giovanni Cubeddu

Una novità buona quando accade è più grande delle ragioni da cui nasce e ha a che vedere con la speranza. La speranza che traspare nelle parole dell’ambasciatore saudita presso il Quirinale, Al-Jarallah, pronunciate in occasione della visita di re Abdullah nelle grandi capitali europee, in Italia e in Vaticano. «Sua maestà sta facendo tutto ciò che è in suo potere per fortificare le relazioni del Paese con i nostri partner nel mondo. Sotto tutti i punti di vista».
Il Regno saudita, anche per motivi interni, sta chiedendo che sia riconosciuto e mantenuto il suo peso di Paese arabo-guida nella comunità internazionale. Il Medio Oriente resta in cima all’agenda dei problemi: accettare o no l’Iran come potenza regionale, gestire il disastro iracheno ora alle prese anche col confronto turco-curdo, stabilizzare il Libano e rimettere sui binari l’eterno conflitto-processo di pace tra israeliani e palestinesi. Mentre Washington è di fatto da tempo in campagna elettorale, e a Mosca si tengono in pochi mesi sia le elezioni parlamentari che quelle presidenziali.
Questa la cornice dei recenti viaggi del sovrano saudita Abdullah bin Abdulaziz al-Saud in Spagna, Francia e Polonia, e della sua ultima visita in Gran Bretagna, Germania, Turchia, Italia ed Egitto. Ma a Roma, per la prima volta, un re saudita, custode delle due moschee più sacre all’islam, ha varcato la soglia del Palazzo Apostolico Vaticano per incontrare il romano pontefice, Benedetto XVI.

Giustizia per il Medio Oriente

L’ambasciatore Mohammed Ibrahim Al-Jarallah è un colto e affabile ingegnere civile che ha studiato negli Stati Uniti, e che ha scalato molti gradini a Riyadh nel campo del business e poi della politica. Da gennaio del 2006 rappresenta in Italia il Regno saudita. Ha gestito e accompagnato sua maestà Abdullah nella trasferta italiana e vaticana. Con lui vogliamo parlare del comunicato stampa vaticano del 6 novembre 2007, giorno dell’incontro tra papa Benedetto e re Abdullah.
Secondo il testo del comunicato, nel colloquio si sono toccati i temi «che stanno a cuore agli interlocutori», cioè il «dialogo interculturale e religioso, finalizzato alla pacifica convivenza tra uomini e popoli, e il valore della collaborazione tra cristiani, musulmani ed ebrei per la promozione della pace, della giustizia e dei valori spirituali e morali, specialmente a sostegno della famiglia». Nel comunicato si fa poi una delicata menzione alla «presenza positiva e operosa dei cristiani». Si accenna anche a «uno scambio di idee sul Medio Oriente e sulla necessità di una giusta soluzione ai confitti che travagliano la regione, in particolare quello israelo-palestinese». Dice l’ambasciatore: «Di sicuro il mio Paese è davvero desideroso di vedere una soluzione giusta al problema palestinese, a cui lavoriamo da tempo... e al quale continueremo a lavorare. In Libano, alle prese con l’elezione del nuovo presidente, noi tentiamo di aiutare tutti i nostri amici, che sono sia nella maggioranza sia nell’opposizione... Per quel che riguarda l’Iraq, il giudizio è più articolato. Quanto è accaduto è davvero increscioso, i nostri amici americani hanno commesso un errore madornale. Prima di tutto attaccando uno Stato sovrano senza l’autorizzazione di nessuno, semplicemente perché a loro non piaceva la leadership di quel Paese! E poi sciogliendone l’esercito, smantellandone le forze di sicurezza. Episodi che non lasciano nessuna possibilità di parlare della loro presenza in Iraq in termini positivi. Perciò qualcosa deve essere fatto per rimettere insieme le tessere del puzzle rappresentato dalle fazioni in Iraq e ritornare a una soluzione formale. Vanno ricostituiti l’esercito e tutte le forze di sicurezza, così che la pace si possa mantenere. Al popolo iracheno va obbligatoriamente offerta la chance di riunificarsi e di funzionare come quell’importante Paese arabo che è sempre stato nella storia».

Bombe no, diplomazia sì

Riguardo all’Iran, Al-Jarallah aggiunge: «Abbiamo sempre detto che a noi non piace vedere nessun Paese che abbia capacità nucleari per scopi militari, incluso l’Iran. Vorremmo un Medio Oriente libero da testate nucleari, ma allo stesso modo crediamo che non possa nascere una soluzione da azioni estreme. L’Arabia Saudita non ragiona in termini di aut aut, e anche se non vogliamo assolutamente che l’Iran abbia la bomba atomica, neppure chiediamo che per evitare ciò Teheran sia bombardata: c’è sempre una soluzione diplomatica. Pacifica e senza conseguenze negative. Questo è ciò che dovremmo fare, con l’aiuto di tutti i Paesi interessati, inclusi gli Stati Uniti, l’Europa e i vicini dell’Iran». Occorre allora girare pagina. «Le faccio una sintesi della nostra politica estera attuale: siamo un Paese che ama la pace e non vuole la guerra con nessuno, salvo in caso di legittima difesa. Perciò sono tante le cose in comune tra noi e l’Italia».

«Preghiamo entrambi Dio nel modo in cui a noi più piace»

Le agenzie di stampa saudite hanno riportato puntualmente i temi del dialogo tra re Abdullah e papa Benedetto, inserendoli nel grande contesto del “dialogo interreligioso e delle civiltà”. Sia il Re che il Papa hanno convenuto sul fatto che «la violenza e il terrorismo non hanno nulla a che vedere con una religione o con una madre patria».
Ma quale è oggi la politica estera di quello che è considerato per eccellenza il Paese retto secondo le norme della sharia? La risposta di Al-Jarallah è agevole: «Non credo che si debba operare una scelta tra l’essere religioso e il non doverlo essere per poter gestire una politica internazionale di successo e avere buone relazioni con gli altri. Noi crediamo che le religioni monoteistiche abbiano le stesse finalità e che tutte promuovano il bene e combattano il male nella società. Anche per quanto riguarda la morale condividiamo gli stessi fini. Perciò, per farla breve, io e lei possiamo pregare Dio ciascuno nel modo che preferisce, ma questo non ci preclude la possibilità di avere rapporti economici, politici, culturali e di sicurezza. Questo è facilmente comprensibile: su questi temi abbiamo quasi lo stesso approccio e ciò non riguarda la religione, che non rappresenta un ostacolo ma può invece aiutare a ricomporre temi e problemi mondiali».
Su questa base, allora, domandiamo all’ambasciatore che significato ha assunto ai suoi occhi questa prima visita del suo Re al Papa. «Sua santità il Papa e sua maestà il Re dell’Arabia Saudita hanno ambedue responsabilità spirituali e morali, rispettivamente verso i cristiani e i musulmani. Perciò da un loro incontro possono derivare soltanto una buona comprensione reciproca e un continuo dialogo tra i capi delle due principali religioni, cioè il cristianesimo e l’islam. Ed è esattamente ciò che è avvenuto, se valutiamo il risultato principale della visita. E comunque noi, cristiani e musulmani, faremo tutto quanto è in nostro potere per aggiornare ciò che si è discusso in questo incontro e tenere l’un l’altro le nostre porte aperte, per parlare e talvolta anche discutere su certe cose. Questo resta il nostro scopo e la nostra speranza. Discutere e non essere d’accordo non dovrebbe crearci alcun problema. Non dobbiamo essere identici nelle nostre credenze religiose per poter servire quell’obiettivo comune che è il genere umano. Stiamo tutti lavorando, lo speriamo, per la pace e la prosperità di tutta l’umanità».
D’ora in poi il Papa e il Re, «attraverso buone parole e tentativi che abbiano spiritualmente un valore simbolico, dovrebbero incoraggiare i propri fedeli a impegnarsi a essere flessibili, comprensivi e amanti della pace. A mio parere ciò contribuirebbe a rendere più stabile la pace nel mondo».

Piena fiducia in papa Benedetto

Anche lo scambio dei doni tra papa Benedetto e re Abdullah è stato una vera sorpresa: il sovrano ha portato in omaggio al Papa una spada d’oro, ornata di pietre preziose. Da parte di un arabo è un dono impegnativo e di certo non casuale. Ne chiediamo lumi all’ambasciatore: «Nella tradizione araba donare a qualcuno un’arma, un oggetto simbolico come una spada, significa riporre in quella persona la fiducia. Chi riceve l’arma potrebbe anche usarla, se lo vuole, contro chi gliela ha donata. Questa è l’origine del simbolismo. E l’episodio del dono al Papa ne è proprio una conferma. C’è gente però che ha pensato che noi stessimo tentando di spaventare la controparte! Non è questo assolutamente il significato. In realtà, ciò dice che speriamo di avere tutti un obiettivo per cui lavorare: pace e prosperità per il nostro popolo e per il resto del mondo. È stato un gesto di profonda fiducia nell’interlocutore. C’è anche da dire» spiega l’ambasciatore «che per noi arabi un’arma può far parte dell’abbigliamento tradizionale».
E conclude: «Se è già successo in altre occasioni che il re abbia elargito un tale omaggio, questa è di sicuro la prima volta che una spada è stata donata a un papa in un atto di affidamento».

Avanti con il “trialogo”

Si è già evidenziato come papa Benedetto e il sovrano saudita abbiano toccato il tema del «valore della collaborazione tra cristiani, musulmani ed ebrei». L’ambasciatore saudita ne mostra però immediatamente il dossier più bruciante: la questione palestinese. «Spero che Sua Santità possa fare un pochino di più perché si realizzi una pace giusta per i palestinesi, che oggi sono vittime a causa di qualcosa che non hanno commesso. L’Europa soffre probabilmente per un peccato del proprio passato, durante la Seconda guerra mondiale. Ma devo dire, senza esitazione, che i poveri palestinesi non hanno nulla a che fare con questa situazione! E non dovrebbero risultarne puniti. Siamo arrivati al punto che talvolta non si può fare a meno di ricordare che, se tutto ciò dovesse continuare, potrebbe verificarsi un altro Olocausto. Questa volta, però, le vittime non sarebbero gli ebrei». Rilanciare il processo di pace israelo-palestinese compete ora alla Conferenza di Annapolis, in Maryland – caldeggiata dagli Stati Uniti –, i cui esiti saranno tutti da verificare. Su questi Al-Jarallah commenta con parole severe: «Dipende da ciò che i nostri amici americani faranno davvero per avere o meno la pace, perché ho l’impressione che gli israeliani non la vogliano seriamente. Sull’assunto che Hamas non riconosce l’esistenza d’Israele, gli israeliani creano insediamenti, confiscano terre palestinesi, mettono in prigione leader politici e membri del Parlamento palestinese. Ho sentito il presidente Napolitano dire che se fosse nato in uno dei campi profughi palestinesi probabilmente si sarebbe ribellato all’occupante. Credo che anche il presidente Andreotti abbia detto qualcosa di simile. Che poi non è altro che quanto aveva pubblicamente affermato pure l’ex primo ministro israeliano Ehud Barak. Fossi stato palestinese, avrei fatto anch’io resistenza armata. Non si può fare a meno di vedere ciò che Israele compie sul terreno, avendo occupato Gerusalemme, inclusa Gerusalemme est che è al cento per cento palestinese. Non credo che gli israeliani possano immaginare di avere sia la pace sia tutta la terra, questo è sicuro».

La moschea e il rabbino

Altrove e ad altri livelli, però, il dialogo con gli ebrei e i cristiani prosegue. E anche questo ha il suo valore. Basta uno sguardo alla moschea romana di monte Antenne, la più grande d’Europa, per capirlo. Del Centro culturale islamico annesso alla moschea, l’ambasciatore saudita è anche presidente. «Anche se il Centro culturale islamico a Roma non ha espressamente a che vedere con le relazioni bilaterali tra la Santa Sede e l’Arabia Saudita», spiega Al-Jarallah, «sta compiendo giustamente la sua parte nel promuovere la pace, con equità e flessibilità, tra i fedeli musulmani che frequentano la moschea. Sta anche raffreddando le questioni più scottanti ogni volta che sorgono. Insomma, fa bene il suo lavoro». Nel marzo dello scorso anno, anche qui per la prima volta, in moschea è stato consentito l’accesso al rabbino capo della comunità di Roma, Riccardo Di Segni, accolto dal segretario generale del Centro culturale islamico Abdullah Redouane. L’ambasciatore Al-Jarallah se lo ricorda bene.

© Copyright 30Giorni, novembre 2007


Abdullah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia

Evento fruttuoso, non solo simbolico

di Abdullah Redouane

Sono trascorsi solo pochi giorni da quando, per la prima volta nella storia, un sovrano del Regno dell’Arabia Saudita ha varcato la soglia della Santa Sede, incontrando il Sommo Pontefice. Sua maestà il re Abdullah bin Abdulaziz al-Saud si fregia del titolo di custode delle sacre moschee di Mecca e Medina, sua santità Benedetto XVI è il successore di Pietro.

Ho ancora negli occhi la lunga, affettuosa, stretta di mano tra i due. La portata dell’evento certo non si esaurisce nei loro titoli ufficiali, che tuttavia credo riassumano assai bene l’eccezionalità, anzi l’unicità di questo incontro, e il segno che esso lascerà nella storia e nel cuore dei credenti. Un segno che io non ho dubbi sarà fruttuoso, e foriero di rinnovata speranza e opera di dialogo. Un dialogo che ha raggiunto, non solo simbolicamente, una delle sue più alte vette.

Questi due uomini, portatori e rappresentanti di due fedi antiche, a loro modo vicine, che ispirano e animano la vita di miliardi di esseri umani, hanno molto vissuto, e molto pensato. La loro età, che li ha portati ad attraversare il secolo passato, con i suoi drammi e le sue speranze di rinascita e di pace, li porta ora, in questo principiare del secolo nuovo, a essere figure-guida in tempi di tormenti e di incomprensioni. Nelle loro dichiarazioni finali leggiamo l’importanza che essi attribuiscono al valore della collaborazione tra cristiani, musulmani ed ebrei per la promozione della pace, della giustizia, dei valori spirituali e morali, specialmente a sostegno della famiglia. Quella famiglia che costituisce la base del vivere comune sia nell’islam sia nel cristianesimo, che è fondamento della società e che oggi è così minacciata. Re Abdullah, durante l’incontro, ha voluto ricordare gli ebrei che, come i cristiani e come noi musulmani, credono nell’unico Iddio, e hanno in Abramo il loro padre. Non sono potuto allora non ritornare con la memoria a un’altra visita, che mi ha visto protagonista e che, con le dovute proporzioni, credo si completi con quella di cui oggi discorriamo: la visita del rabbino capo di Roma al Centro islamico culturale d’Italia. Ebrei e musulmani assieme.
Il Pontefice e re Abdullah hanno voluto affidare alle loro parole, e a chi saprà raccoglierle, un messaggio di pace. Pace per gli uomini, pace per il Medio Oriente. Hanno voluto testimoniare che parlare non solo è possibile, ma anche doveroso. Che dialogare, scambiare idee, cercare soluzioni, non comporta alcuno sminuimento, alcuna perdita di sé, anzi arricchisce. Cristiani e musulmani molto hanno camminato assieme, molto hanno costruito assieme. Se la storia, come spesso si dice e si abusa nel dire, è davvero maestra di vita, essa ci insegna allora che l’uomo, con l’aiuto di Dio, è ancora capace di prendere in mano il proprio destino, e di salvare il mondo e sé stesso, creatura di Dio, creata nella migliore delle forme.

© Copyright 30Giorni, novembre 2007


Parla il vicario apostolico dell’Arabia Saudita, Paul Hinder

«Qualche anno fa non sarebbe potuto accadere»

Intervista con Paul Hinder di Giovanni Cubeddu

«Come pastore dico che l’incontro tra re Abdullah e papa Benedetto XVI rappresenta un evento davvero importante, che contribuirà a creare un clima più sereno tra le nostre due religioni e anche, spero, potrà essere d’aiuto alla consistente minoranza di cristiani che vivono in Arabia Saudita. Ovviamente non penso che tutto cambierà in tempi rapidi, ma il semplice fatto che ci sia stato un contatto tra i più alti vertici è un segnale molto forte di una buona volontà di raggiungere una certa intesa, e, chissà, una collaborazione più profonda. Ora, riguardo alle conseguenze, che possiamo definire politiche – perché rispetto alla nostra situazione quotidiana nel Vicariato apostolico evidentemente sarebbe prematuro in questo momento azzardare pronostici –, cercherò da parte mia di fare quanto è nelle mie possibilità… magari stabilendo qualche contatto ulteriore, per quanto mi sarà possibile. Vedremo». Ecco i primi commenti del vicario apostolico dell’Arabia Saudita, il cappuccino Paul Hinder, alle immagini che vedono assieme papa Benedetto XVI e il custode dei luoghi sacri islamici nel Palazzo Apostolico Vaticano.

In che modo questo incontro può essere il primo passo di una nuova serie di aperture?

PAUL HINDER: Spero che almeno nel mondo sunnita un cambiamento nell’atteggiamento dell’Arabia Saudita possa avere ripercussioni esterne, mentre fino a ora si erano mossi prima gli altri Paesi fratelli. Nella Penisola arabica, tutti o quasi gli altri Stati hanno già, ad esempio, rapporti diplomatici con il Vaticano, e nei loro territori permettono ufficialmente l’esistenza di luoghi di culto cristiani. Però, un cambiamento della posizione saudita potrebbe realmente sollevare da certi timori presenti negli altri Paesi, che finora sono stati sempre attenti a non dispiacere i sauditi. Adesso noi speriamo in qualcosa di nuovo.

Potrebbero ora nascere collaborazioni positive nel suo Vicariato tra musulmani e cristiani anche nella vita quotidiana?

HINDER: Non vivo in Arabia Saudita, e prima di tutto dovrò cercare in prima persona i canali giusti per entrare in contatto con chi ha la sensibilità di recepire e trasmettere il messaggio più opportuno al destinatario. Si procede sempre a piccoli passi e va bene così. E se mai riuscissimo a migliorare, sempre a piccoli passi, la cura pastorale di almeno una parte dei nostri cristiani laggiù, io lo prenderei come un segno che la speranza sta superando la paura. Sarebbe già un grande slancio in avanti.

Ha avuto modo di udire già qualche commento, nel Vicariato, su questa visita del Re al Papa?

HINDER: I nostri cristiani qui negli Emirati, leggendo la notizia sui giornali e vedendo le foto del Re che porta doni al Papa, hanno definito l’incontro «un bel segno»; desiderano «che porti frutti». Per quanto riguarda me, alcuni diplomatici mi hanno fatto già delle allusioni in proposito, e ho notato in loro un certo grado di speranza. Insomma, accadono oggi cose che qualche hanno fa non sarebbero potute succedere.

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