5 dicembre 2007
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CHIESA
MONSIGNOR ANGELO AMATO COMMENTA LA NUOVA ENCICLICA DI BENEDETTO XVI "SPE SALVI", SECONDA DI UNA TRILOGIA SULLE VIRTÙ TEOLOGALI
SALVATI DALLA SPERANZA
Alberto Bobbio
Per i cristiani, sperare è credere in Gesù redentore, che accompagna l uomo per tutta la vita. «A guidarli non è la politica, ma l'amore. Si devono impegnare nel mondo, sapendo che lo fanno per tendere alla vita eterna. Questa è la differenza con le speranze "corte"».
«È la seconda enciclica di una trilogia sulle virtù teologali», dice monsignor Angelo Amato, segretario della Congregazione per la dottrina della fede. Ha lavorato per anni con il cardinale Joseph Ratzinger e ora spiega la seconda enciclica del Papa.
Eccellenza, possiamo aspettarci una terza enciclica sulla fede?
«Così lascia intravedere il Papa. Io sono quasi sicuro che completerà il ciclo».
Cos’è la speranza per Benedetto XVI?
«È la redenzione e comincia su questa terra. Lo dice già all’inizio e subito fa un esempio, che tutti capiscono, quello di Giuseppina Bakhita, santa, canonizzata da Giovanni Paolo II il 1° ottobre 2000, schiava, picchiata, comprata e venduta cinque volte, finché finisce a casa del console italiano Legnani, che la porta in Italia e qui incontra la fede cristiana, un altro "padrone", Dio, che le offre l’amore. La speranza era nata in lei e l’aveva redenta».
Allora si può dire anche che la speranza è una persona, Gesù?
«Certo, e Gesù accompagna l’uomo per tutta la vita. Il Papa spiega che il messaggio cristiano di speranza non è solo un’informazione, non è solo la comunicazione di cose che si devono sapere, ma dice che è "performativo", qualcosa che ha a che fare con un’educazione che produce fatti e cambia la vita».
Come lo spiega?
«Con l’esempio delle prime comunità cristiane. Vivevano con uno stile fondato sulla speranza, erano riuscite a costruire una comunità nuova. Non era facile vivere in quell’epoca. I primi cristiani ci riuscivano, perché sapevano che la loro vita non sarebbe finita nel vuoto, sarebbe stata redenta».
E qui cita Spartaco e comincia il ragionamento sulle cosiddette speranze "corte", rivoluzionarie, che riprenderà parlando del marxismo...
«Spartaco aveva cercato di fare la rivoluzione e aveva fallito e il Papa ne approfitta per osservare che Gesù non è un combattente della liberazione, perché ciò che guida i cristiani non è la politica, ma l’amore, cioè l’incontro con una speranza più forte di tutte le sofferenze sociali».
Ma si devono impegnare nel mondo?
«Sicuramente, sapendo che lo fanno per tendere alla vita eterna. Ratzinger non la cita, ma si riferisce alla Lettera a Diogneto, quella che dice che i cristiani non sono diversi dagli altri popoli, lavorano nel mondo, non sono del mondo, tuttavia sono l’anima del mondo».
Dopo i primi capitoli, il Papa comincia a discutere di teologia e filosofia politica. Non è un po’ troppo difficile?
«L’impianto dell’enciclica è profondamente radicato sulla parola di Dio e sul linguaggio biblico, con un supporto ermeneutico abbastanza raffinato. Certo, ci sono discussioni culturali elaborate, ma sono indispensabili per capire il suo ragionamento. Dunque, chi nella comunità ha più strumenti culturali deve spiegare agli altri cosa dice il Papa».
Perché richiama la figura di Cristo come filosofo e come pastore?
«Perché così era rappresentato dai primi cristiani: con il libro in una mano e nell’altra il bastone. Insegna come vivere rettamente e poi va con l’uomo. E qui fa la distinzione tra la sostanza della fede che abbraccia l’uomo e lo accompagna verso l’eternità e le altre sostanze, quelle materiali, utili alla vita, ma che non la esauriscono. Occuparsi delle sostanze materiali non ci esonera dalla testimonianza della speranza più alta».
Per questo motivo discute le tesi che sostengono le speranze "corte"?
«Sì, non intende ritirarsi, anzi va allo scoperto e dà una valutazione, ovviamente critica, della Rivoluzione francese e della Rivoluzione proletaria. Considera quella di Marx ed Engels una buona analisi della situazione sociale, ma ne denuncia l’errore fondamentale nelle soluzioni proposte e non per nulla cita Lenin. Il risultato è stato devastante: non si è tenuto conto della libertà».
C’è una critica anche alla scienza...
«Non alla scienza, ma alla speranza fondata sulla scienza e sul progresso, alla presunzione che questa sia la via per la perfetta libertà. Lui invece, come ha fatto molte volte, spiega che ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra».
Anche con la ragione, oltre che con la fede, si può capire il martirio?
«Il martirio è un concetto che la ragione può illuminare, non si tratta di qualcosa di fideistico. I martiri hanno sopportato la privazione di tutte le sostanze, anche del corpo, ma non della sostanza della fede. Non è fondamentalismo religioso. Sono stati uccisi perché non volevano privarsi del bene più prezioso».
Benedetto XVI dice che la preghiera è importante per capire la speranza. Perché?
«È il modo per stare ancorati alla mano di Dio nel cammino della vita per migliorare il mondo. Ma nell’enciclica viene respinta l’idea di un cristianesimo individualista, rifugio in una dimensione di salvezza privata. Mette in rilievo, insomma, l’importanza della Chiesa come luogo dove imparare insieme a camminare nella speranza. E poi offre una definizione di escatologia, cioè della dottrina sui destini ultimi dell’umanità, che va contro ogni millenarismo, ogni idea che di fronte al male non bisogna fare nulla, ma attendere solo il regno di Dio. Il Papa spiega che la vita eterna implica un continuo impegno di rinnovamento del mondo. E su questo invita i cristiani a fare anche autocritica. Dice, senza tanti giri di parole, che il cristianesimo moderno deve sempre di nuovo imparare a comprendere sé stesso a partire dalle proprie radici».
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