24 aprile 2008

La danza di Beethoven per il Papa (Osservatore Romano)


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La danza di Beethoven per il Papa

di Marcello Filotei

"Ieri Goethe e io, tornando a casa, incontrammo la famiglia imperiale al completo; la vedemmo venire da lontano e Goethe lasciò il mio braccio per fare ala; ebbi un bel dirgli che non volevo, ma non mi riuscì di farlo muovere. Io allora mi calcai il cappello in testa, col cappotto abbottonato e le braccia conserte continuai il mio cammino. Molte persone del seguito si sono scostate al mio passaggio, l'arciduca Rodolfo si è tolto il cappello, e anche l'imperatrice mi ha salutato per prima. Tutti mi conoscevano. Tutta la processione è sfilata davanti a Goethe che stava col cappello in mano in un profondo inchino. Dopo gli ho dato una lavata di capo, non l'ho scusato".
La veridicità della lettera spedita da Beethoven a Bettina Brentano è tutta da dimostrare, ma l'umore del compositore nell'estate del 1812, quando aveva appena finito di scrivere le linee essenziali della Settima sinfonia era quello. Un uomo solo, che ha appena avviato un nuovo periodo creativo. La piena acquisizione della forma è conclusa con il ciclo che va dalla Quarta alla Sesta. La frattura con l'aristocrazia è consumata, il distacco dal mondo circostante è completo, accentuato dalla sordità. L'individualismo è maturo e non ancora temperato dall'universalismo della Nona. Apoteosi della danza, la definì Wagner, e certamente lo è ma non solo. In particolare l'allegretto, quasi una processione funebre, pone l'ascoltatore di fronte a un'inquietudine profonda e Oleg Caetani - che giovedì 24 alle 17 presso l'Aula Paolo VI dirigerà l'Orchestra sinfonica di Milano Giuseppe Verdi nel concerto che il presidente della Repubblica italiana offre in onore di Benedetto XVI in occasione del terzo anniversario dell'inizio del pontificato - di fronte alla necessità di indagare il dubbio.
La Settima e l'Ottava, scritte quasi contemporaneamente, sono in diverso modo lo specchio dell'isolamento, che per ora trova la sua risposta partendo da motivi interiori, prima di sfociare nell'universale messaggio della Nona e della Missa solemnis. Nella Settima l'inquietudine si esprime nella esasperazione del ritmo che attanaglia la melodia, nell'Ottava, attraverso un improbabile tentativo di recuperare una serenità settecentesca nostalgicamente desiderata anche se, nell'intimo, disprezzata.
L'uomo è geniale, sa di esserlo, ma non è un sollievo. Nemmeno le vacanze risollevano l'umore. "Di Töplitz non c'è molto da dire: poche persone e tra questo piccolo numero nulla di notevole, perciò io vivo solo - solo! solo! solo!", scrive all'amico Karl August Varnhagen von Ense. Non è interessato agli onori e alla vita mondana, indegna dei grandi uomini: "a Goethe garba troppo l'aria di corte, più che a un poeta non si convenga". Il sapere, l'introspezione, la capacità di vedere il mondo con occhio distaccato, lontani della bella vita, sedotti solo dalla conoscenza, senza ancora una prospettiva esistenziale precisa, ma lontani dal nichilismo. Tutto questo c'è nella Settima, assieme ai prodromi di quello che seguirà, come sempre avviene, e al pieno dominio delle forme classiche acquisito con i lavori sinfonici precedenti.
La sordità è quasi completa, musicalmente se ne giova il ritmo, mentre la consapevolezza di se stessi sfocia in un senso di superiorità che è tollerabile solo negli artisti che segnano veramente la storia della loro disciplina: "re e principi possono ben creare dei professori e dei consiglieri segreti e appendere loro titoli e decorazioni, ma non possono creare dei grandi uomini, degli spiriti che s'innalzino al di sopra della turba del mondo; questo è un compito che bisogna lasciare agli altri e perciò bisogna tenerli in rispetto. Quando due uomini come Goethe e me si trovano insieme, questi gran signori debbono rendersi conto di quello che è per noi la grandezza".
Anche Brahms, nel suo Canto del destino (Schicksalslied) cerca nel testo di Hönderling una risposta. Il coro de "La Verdi", preparato da Erina Gambarini, si troverà di fronte a versi che, nello spirito dell'antica mitologia, contrappongono l'eterna beatitudine degli dei al tragico destino degli uomini abbandonati a se stessi. Il compositore, accoglie lo stimolo giustapponendo di quadri tra loro contrastanti, ora relativi al mondo degli dei ora al mondo degli uomini, ma trova una ricomposizione. Laddove il testo si conclude con un inquietante "per anni nell'incertezza" la musica continua riprendendo la sezione iniziale che descrive le beatitudini divine. Il contrasto si riconcilia in ambito metafisico. Brahms ha già trovato la sua strada, Beethoven dovrà attendere ancora prima di arrivare alla Nona.
Entrambi propongono un gioco di specchi tra umano e divino, una sorta di avvicinamento al tema al quale segue immediatamente un allontanamento. Un procedimento che serve a prendere possesso del materiale, mantenendo al contempo una distanza che consente uno sguardo oggettivo. Un processo simile a quello che Luciano Berio adotta nel 1975 nelle Quattro versioni originali della "Ritirata Notturna di Madrid" di Luigi Boccherini. Qui il gioco di specchi si moltiplica, una sorta di musica al cubo con un compositore che riscrive un pezzo di un altro compositore che a sua volta gioca con un motivetto spagnoleggiante, forse spagnolo ma che importa. Berio sceglie quattro versioni delle variazioni scritte da Boccherini, le sovrappone, le orchestra, aggiunge un pizzico di percussioni e il gioco è fatto: artigianato di altissimo livello. Passa la banda per le avenidas madrilene, davanti i clarinetti e in fondo gli ottoni. Li vediamo da lontano, li sentiamo sfilare, i timbri cambiano mentre i musicisti camminano, il suono prima ci travolge poi si allontana, restano gli echi, un diminuendo, il silenzio: il gioco è finito, o magari è appena cominciato.

(©L'Osservatore Romano - 24 aprile 2008)

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