19 agosto 2008

Il romanzo postumo della giornalista scrittrice scomparsa due anni fa: "Un secolo di storia a casa Fallaci" (Osservatore)


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Il romanzo postumo della giornalista scrittrice scomparsa due anni fa

Un secolo di storia a casa Fallaci

di Giulia Galeotti

"Ora che il futuro s'era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l'inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza: cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire. Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico di persone che da un lontano giorno d'estate costituiva il mio Io". Così inizia l'ultimo romanzo di Oriana Fallaci. L'ultimo, in senso cronologico e assoluto.
È il romanzo postumo, quello costruito pazientemente, mattone dopo mattone, per anni. Interrotto e poi ripreso; interrotto ancora, e nuovamente ripreso. È un meraviglioso collage, Un cappello pieno di ciliege: partito dai racconti che si tramandano in famiglia generazione dopo generazione - tra episodi di cui si va fieri riferiti nei minimi dettagli, passaggi su cui si passa via veloci, improvvisi silenzi e vuoti di memoria - suffragato da sopralluoghi e minuziose ricerche condotte dall'autrice, combinando la storia ufficiale con quella documentata dai registri delle anime e dai dati delle anagrafi; integrato da passaggi inventati e romanzati ("posso ricostruirla senza sforzo sul filo dell'immaginazione"), giacché in ogni racconto v'è sempre qualcosa che sfugge al reale, senza però per questo essere falso; animato dall'impellente fuoco di capire, di sapere e di comprendere chi-sono, perché-sono-come-sono. Così, con la maestria che abbiamo imparato ad apprezzare nel tempo, la Fallaci racconta oltre un secolo di storia dei suoi antenati, ripercorrendo negli anni tra il 1773 e il 1889 gli alberi genealogici delle quattro famiglie che hanno dato vita ai suoi nonni, ai suoi genitori, e infine a lei ("nascere non è forse un eterno ricominciamento e ciascuno di noi il prodotto d'un programma fissato prima che incominciassimo, il figlio d'una miriade di genitori?").
Quasi come un ritornello, ritorna la casuale precisione e la caotica necessarietà di ogni singolo rigo che viene raccontato: se un certo momento non fosse esistito, se quel particolare passo non fosse stato compiuto proprio in quel modo e in quel momento, io non sarei qui - ripete, con un sospiro di sollievo, la voce narrante. Esattamente come tutte le storie di tutte le famiglie, è una saga che riga dopo riga, attimo dopo attimo, ha rischiato continuamente di non esserci.
Perché se Montserrat (lo confesso: la mia preferita) non fosse imprudentemente uscita per la città di Livorno il 27 giugno 1796 al settimo mese di gravidanza, la Fallaci sarebbe stata un'altra Fallaci. Se Caterina non avesse indossato un particolare copricapo vendendo "tubi di decenza" a Rosìa o se Anastasia non fosse stata macerata dal pentimento di quel gesto compiuto nella notte del 31 dicembre 1864 (sono le arcavole preferite dall'autrice), la Fallaci sarebbe stata un'altra Fallaci.
Nella folla di antenati (già imparentati alla lontana prima che Edoardo Fallaci e Tosca Cantini si sposassero), non è tutto luminoso ("quanti antichi documenti ho sfogliato per spiegarmi il Giobatta di cui mi vergogno"). Vi sono delle figure che la Fallaci non capisce ("non la capisco Teresa. Mi sembra di rincorrere un fantasma che non vuole essere disturbato, una parte di me che non vuole essere rivelata"). E vi sono personaggi decisamente negativi, figure vigliacche e pavide, anime che compiono gesti terribili, crudeli e scellerati. Eppure, anche se a volte fa fatica a comprenderli, la Fallaci si sforza di immedesimarsi in ciascuno di loro. E lo fa anche quando è difficile, terribilmente difficile ammettere - innanzitutto a se stessa - che nelle proprie vene scorre anche qualche goccia di quel sangue ("possibile che debba ringraziare anche te per il dono d'esistere, d'essere nata?").
Due anni dopo la sua morte, dunque, Oriana Fallaci torna a parlarci, a raccontarci, a stregarci. Ed è proprio lei. Lei con il suo modo di parlare, di raccontare, e di stregare. Se è strano sentire la Fallaci alle prese con anni e secoli lontani, ecco però che segni inequivocabili della sua penna ce la fanno riconoscere: il modo di raccontare e lo stile, la scelta di rivolgersi direttamente al lettore, l'uso che fa delle lingue straniere. Con un romanzo che è, al contempo, intimo e collettivo. Una saga di amore e di passioni, una epopea di nascita e di morte che intreccia la vita intima di quattro famiglie alla storia collettiva. Oltre ottocento pagine con gli sconfitti della storia, con quanti però - proprio perché sconfitti - sono anche e soprattutto coloro che quella storia la fanno, sasso dopo sasso, senza clamore.
Immergendosi nel vortice del romanzo, sembra che il vero discrimine tra sconfitti e vincenti, la vera differenza che segna le esistenze dei tanti personaggi, non sia data né dai soldi, né dalla ricchezza, né dal potere. In fondo, nemmeno tanto dal coraggio.
Il vero discrimine sembra la capacità di pensare, e con la capacità di pensare, quella di leggere e di scrivere, o, almeno, il viscerale desiderio di farlo. Queste le figure che si salvano, che salvano.
Un cappello pieno di ciliege è un suggestivo inno all'eredità che ognuno di noi porta con sé. Inscritta nel suo dna, sotto e sopra la pelle, è quell'eredità che sgorga improvvisa quando meno te lo aspetti, ma è anche quell'eredità che ti accompagna, fedele, nel tempo. Quella che riconosci, e quella che ti spiazza.
È un romanzo postumo, dunque, l'ultimo romanzo della Fallaci. E, forse, poteva solo essere un romanzo postumo Un cappello pieno di ciliege. Un romanzo che mentre ridà la vita a chi - pur priva di un certificato di nascita e, quindi, di morte - ha contribuito a darla a te, restituisce la voce e il pensiero anche di chi quel romanzo l'ha scritto, lasciandocelo in eredità.

(©L'Osservatore Romano - 18-19 agosto 2008)

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