19 settembre 2008

Il celibato sacerdotale. L'origine delle incomprensioni (Osservatore Romano)


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Una riflessione sulle autentiche radici spirituali della vocazione

Il celibato sacerdotale
L'origine delle incomprensioni


di Antonio Maria Sicari
Carmelitano consultore della Congregazione per il clero

Non è difficile raccogliere un abbondante elenco di critiche alla legge del "celibato sacerdotale".
La Chiesa non le dimentica e non le trascura. Già Paolo vi volle iniziare l'Enciclica Sacerdotalis Caelibatus (1967) esponendo "onestamente" il "coro di obiezioni" che si levava da ogni parte, negli anni dell'immediato post-concilio. Non era forse vero che il celibato dei ministri sacri non era esatto dal Nuovo Testamento? E le ragioni addotte a suo favore dagli antichi scrittori ecclesiastici non erano forse ispirate "a un eccessivo pessimismo per la condizione umana nella carne", con argomenti "non più consoni a tutti gli ambienti socio-culturali, in cui oggi la Chiesa è chiamata a operare"? Che cosa rispondere a chi giudicava indebita la decisione di "far coincidere il carisma della vocazione sacerdotale col carisma della perfetta castità", allontanando così dal sacerdozio "coloro che avrebbero la vocazione ministeriale, senza avere quella della vita nubile"? Che cosa rispondere a chi si diceva convinto che "la preoccupante rarefazione del clero" dovesse essere ascritta "alla pesantezza dell'obbligo del celibato" e accusava la Chiesa di ostacolare con la sua legge "la piena realizzazione del piano divino di salvezza, e mettendo a volte in pericolo la stessa possibilità del primo annunzio evangelico"? Non era forse vero che il sacerdote celibe veniva a trovarsi "in una situazione fisica e psicologica innaturale, dannosa all'equilibrio e alla maturazione della sua personalità umana"? Non era forse vero che il matrimonio "avrebbe consentito ai ministri di Cristo una più completa testimonianza di vita cristiana anche nel campo della famiglia", togliendo occasioni "a disordini e dolorose defezioni, che feriscono e addolorano tutta la Chiesa"?
Che cosa rispondere a chi vedeva nella legge ecclesiastica del celibato "un'ingiusta violenza e un ingiustificabile disprezzo di valori umani della creazione" e temeva che i candidati al sacerdozio giungessero ad accettarla passivamente, con una formazione "in ogni caso sproporzionata all'entità, alle difficoltà oggettive e alla durata dell'obbligo" che dovevano assumersi? A tutte queste obiezioni - già elencate nei primi numeri dell'enciclica (5-13) - Paolo vi diede una risposta puntuale e accorata.
Più di quarant'anni sono ormai passati da allora, ma esse, anziché sciogliersi, si sono forse consolidate ed acuite, anche nella mente e nel cuore di alcuni preti. Ci sembra, tuttavia, che l'urgenza ecclesiale dei nostri tempi non sia quella di investigare ancora sulle obiezioni, ma quella di rintracciare, nell'animo e nell'esperienza degli stessi sacri ministri, le radici "malate" da cui esse potrebbero sempre nuovamente germinare.
La prima radice che occorrerebbe garantire, nella sua originaria sanità, è legata al linguaggio che abbiamo ereditato, e che oggi dovrebbe essere definitivamente ripulito e precisato. La formula "legge del celibato" è antica e consolidata, ma conserva anche una certa ambiguità di cui non si è tenuto abbastanza conto. Dal magistero della Chiesa essa è stata ripetutamente chiarita, abbinando al termine "legge" espressioni che parlano di "libera e perpetua scelta", di "celibato volontario e consacrato", di "dono o carisma del celibato", e altro ancora. Ma ciò non toglie che, nella mente di alcuni, si sia radicata l'impressione sgradevole d'aver ricevuto da Dio la pura vocazione al sacerdozio, ma di essersi poi trovati costretti (o anche solo "stretti") dalla "legge" ecclesiastica, all'accettazione del celibato. Che questa accettazione debba essere "libera e motivata" non impedisce il fatto che l'appello al celibato sembri giungere dall'esterno, in forza di una disciplina ecclesiastica che potrebbe anche non esserci, o potrebbe cambiare col tempo. Su questa impostazione radicalmente scorretta - e vedremo subito perché - tutte le altre difficoltà, soggettive e oggettive, possono sempre attecchire e proliferare nei momenti di prova o di turbamento, e distruggere progressivamente la serenità e la coscienza di un prete. La sensazione dolorosa - anche se teologicamente non riflessa - d'aver dovuto subire un carisma, in forza di una disciplina ecclesiastica, può diventare, col tempo, lacerante e innescare un processo di auto-giustificazione, quando malauguratamente ci si scoprisse trasgressori di una "legge" che lo spirito ha sì inizialmente condiviso, ma solo in quanto legge.
L'errore è sostanziale, e la formula tradizionale "legge del celibato sacerdotale" rischia di perpetuarlo. In realtà, in senso stretto, una "legge" del celibato sacerdotale, così intesa, non esiste.
La legge della Chiesa d'Occidente non assegna il carisma del celibato a coloro che sono chiamati al sacerdozio, ma dice che sono chiamati al sacerdozio coloro che hanno ricevuto da Dio il carisma della verginità consacrata. C'è sì una "legge", ma essa consiste, appunto, nel rivendicare alla Chiesa il diritto di "chiamare al sacerdozio" soltanto quelli che essa vuole e reputa adatti.
Non esiste, infatti, una "vocazione sacerdotale" totalmente dipendente dalla soggettività del candidato che si presenta. Esiste una vocazione sacerdotale solo quando, a offrirsi per il ministero, è la persona dotata di quelle caratteristiche che la Chiesa ritiene necessarie. E, nella Chiesa latina, una delle caratteristiche di chi si offre deve essere quella di sentirsi chiamato anche alla sacra verginità. La questione può essere chiarita con un'affermazione che può suonare paradossale ed è, invece, semplicemente vera: in tutti i nostri seminari, la situazione degli attuali candidati non dovrebbe cambiare affatto se, per pura ipotesi, giungesse un giorno l'annuncio che è stata modificata la disciplina ecclesiastica e che possono essere ammesse al sacerdozio anche le persone sposate. E questo perché si suppone che gli attuali seminaristi si siano "presentati", e stiano preparandosi al sacerdozio, consapevoli e desiderosi di avere anche il carisma della verginità consacrata. Ma è questa la realtà? Il magistero della Chiesa ha cercato di precisare sempre più attentamente questa verità.
Già la Sacerdotali Caelibatus insegnava: "Il sacerdozio è un ministero istituito da Cristo a servizio del suo Corpo Mistico che è la Chiesa, alla cui Autorità perciò appartiene di ammettervi coloro che essa giudica adatti, cioè quelli ai quali Dio ha concesso, con gli altri segni della vocazione ecclesiastica, anche il carisma del sacro celibato" (n. 62; cfr. anche n. 15). L'Esortazione Apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis (1992) conferma: "Il Sinodo, convinto che la castità perfetta nel celibato sacerdotale è un carisma, ricorda ai presbiteri che essa costituisce un dono inestimabile di Dio per la Chiesa e rappresenta un valore profetico per il mondo attuale.
Questo Sinodo nuovamente e con forza afferma quanto la Chiesa Latina e alcuni riti orientali richiedono, che cioè il sacerdozio venga conferito solo a quegli uomini che hanno ricevuto da Dio il dono della vocazione alla castità celibe" (n. 29). Pertanto un candidato al sacerdozio che riconoscesse di "non aver ricevuto dallo Spirito il carisma della verginità" dovrebbe semplicemente concludere di "non avere la vocazione al sacerdozio".
Altra grave questione è chiedersi se la formazione dei candidati al sacerdozio, offerta oggi nei seminari, rispetti davvero questa logica profonda. Il carisma del "sacro celibato" ha un contenuto spirituale proprio, caratterizzato dal "sacerdozio" col quale deve "convenire". Si tratta di una verginità propriamente sacerdotale: dovendo agire "nella persona di Cristo" (nell'annuncio della Parola e nell'offerta del Sacrificio), il ministro si coinvolge "verginalmente", decidendo per "una relazione personale più intima e completa con il mistero di Cristo e della Chiesa a vantaggio dell'intera umanità" (Sacerdotalis Caelibatus, n. 54).
Ma questa sottolineatura, così specifica, non dovrebbe far dimenticare che i tre consigli evangelici (di "verginità-povertà-obbedienza) costituiscono teologicamente un unicum. I tre consigli non sono disgiungibili: nella loro unità essi evocano la fede nella Santissima Trinità (si sceglie di essere poveri davanti al Padre ricco di tutti i doni; obbedienti come il Figlio; vergini per l'amore unificante e fecondo dello Spirito Santo); essi legano intimamente il cristiano al mistero del Figlio incarnato che visse povero, casto e obbediente; essi esprimono con radicalità il dinamismo delle tre virtù teologali; essi conducono alla riscoperta della struttura originaria dell'essere umano e anticipano il mondo nuovo. Non si può "professare" la verginità, senza professare anche la povertà e l'obbedienza. Ciò non significa affatto che i presbiteri debbano diventare monaci o frati, né che debbano esplicitare la loro scelta con voti particolari. Ma il presbitero non potrà davvero vivere verginalmente, se non sceglie di vivere anche, in maniera molto concreta, il consiglio della povertà e quello dell'obbedienza: in modo che il Dio sommamente amato (verginità) diventi anche l'unica ricchezza (povertà), nella continua ricerca della Sua volontà (obbedienza). E come la verginità ha varie dimensioni (spirituali, morali e fisiche), così debbono averle anche la povertà e l'obbedienza del presbitero. La Presbyterorum Ordinis ha parlato di questo lungamente (cfr. nn. 15-17), ma ne ha fatto soltanto una questione di spiritualità personale del prete. Forse è arrivato il momento che la questione venga legata più esplicitamente e organicamente al tema della missione, e che se ne traggano conseguenze anche strutturali, che incidano sulla formazione e la concreta maniera di vivere dei presbiteri. Per l'obbedienza evangelica non può bastare la relativa promessa fatta al vescovo e il rispetto dei pronunciamenti eccezionali dell'autorità ecclesiastica. Occorre che la vita intera diventi un tessuto di obbedienze e che il prete, chiamato ad agire sui fedeli in persona Christi, sperimenti lui per primo l'autorevolezza della persona di Cristo presente in un ministro di Dio, accettando abitualmente su di sé la mediazione autorevole e formativa di un altro sacerdote scelto come guida. Di questa obbedienza oggettiva dovrebbe, poi, far parte anche una concreta abituale verifica della povertà evangelica nella quale il presbitero dovrebbe lietamente, concretamente e socialmente immergersi. Si impone qui - a mio parere - un'ultima evidenza: verginità, povertà e obbedienza (soprattutto la verginità) non sono davvero vivibili al di fuori di una realistica appartenenza comunitaria. Non si tratta di immaginare per il prete forme di vita monastica o conventuale, ma è necessario che la sua appartenenza al presbiterio, sotto la paternità del vescovo, si esprima in forme comunionali di vita che, per gran parte, attendono ancora di essere inventate e che dovrebbero essere operanti fin dagli anni della formazione, coinvolgendo gli stessi formatori.

(©L'Osservatore Romano - 20 settembre 2008)

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