11 luglio 2007

Messa tridentina: i commenti di Vian, Baget Bozzo, Castrillon Hoyos e Cardia


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Vero interprete liberale del Concilio, il Papa lascia pregare anche in latino

Alan Patarga

Roma. L’accusa mossa con maggior frequenza a Benedetto XVI, dopo la pubblicazione del “motu proprio” sulla messa in latino, è quella di spingere la chiesa cattolica “verso il passato” e di “tradire lo spirito del Concilio Vaticano II”.
Gian Maria Vian, storico della chiesa e ordinario di Filologia patristica alla Sapienza di Roma, spiega al Foglio che quella di Ratzinger è invece una scelta “che poco ha a che vedere con il latino e molto con una corretta interpretazione del Concilio, il cui spirito è inserito dal Papa nel solco della tradizione cattolica, non in antitesi ad essa”. Secondo lo storico, Benedetto XVI – con il documento pubblicato ieri sull’unicità della chiesa cattolica e con il “motu proprio” sul Missale Romanum – si sta invece dimostrando l’interprete più liberale e meno assolutista del Vaticano II: “La decisione di rendere liberamente fruibile la versione in latino del rito romano – dice Vian – è innanzitutto una prova di pluralismo all’interno della chiesa, soprattutto per amore della sua unità. Liberalizzando l’uso del latino, per cui un gruppo di fedeli che lo vorrà potrà chiedere al proprio parroco di celebrare la messa con il messale di san Pio V nella versione del 1962 di Giovanni XXIII, Ratzinger impedisce infatti tanto ai ‘progressisti’ quanto ai ‘tradizionalisti’ di poter sventolare quella importantissima assise cristiana come una propria bandiera. Liberalizzare significa impedire che la liturgia, e quindi anche la preghiera, diventi un elemento di divisione anziché un momento elevato e solenne.
Il fatto che esista una forma ordinaria vernacolare, pertanto, non impedirà più il ricorso alla forma di celebrazione ‘straordinaria’,
come la definisce lo stesso Pontefice, che è quella tridentina. Negli ultimi quarant’anni, questa esclusione di fatto ha portato a divisioni nella comunità cristiana anche a causa di una ‘ermeneutica della discontinuità’ che Benedetto XVI sembra voler smentire una volta per tutte. Il passato, spiega il Papa con questi suoi atti più recenti, è vivo ed è un elemento importante della nostra fede. Non si può considerare negativo quel messale con il quale milioni di fedeli hanno pregato per secoli, così come non si può cedere a quella lettura della storia della chiesa che vede nell’ultimo Concilio un ‘nuovo inizio’, quando invece esso è parte della tradizione cattolica e ne è, semmai, un momento di sintesi, non di accantonamento”.
Anche don Gianni Baget Bozzo, che da anni, nella chiesa dei santi Vittore e Carlo a Genova, celebra la messa seguendo i libri liturgici riformati da Papa Roncalli nel 1962, dice al Foglio che è la corretta interpretazione del Concilio il vero obiettivo del Pontefice.
“La pretesa di chiudere con la liturgia preconciliare – ci spiega poneva il problema di mettere in discussione tutta la tradizione cattolica precedente. Ratzinger, che è un patrologo, non viene meno alla tradizione misterico-mistica della liturgia e le assegna un valore fondamentale: quello di costituire uno degli elementi di continuità della chiesa, che non è soltanto una società umana, ma che in quanto corpo mistico di Cristo nasce dalla rivelazione.
Ora, ciò che è verità rivelata, non può essere messo in discussione: riconoscendo che la liturgia latina non è stata abrogata dal Concilio Vaticano II, e che quest’ultimo non è stato una rottura con il passato, ma una sua rilettura per andare avanti, Papa Benedetto spiega a tutti i cristiani che non può esserci stata una rivoluzione che ha smentito la rivelazione. La fine del comunismo ha tolto il terreno al progressismo teologico che vedeva invece nel Concilio la più clamorosa rottura della chiesa cattolica con il proprio passato”.
In un’intervista che sarà pubblicata sul prossimo numero del mensile 30Giorni, anche il cardinale Dario Castrillon Hoyos, presidente della commissione pontificia Ecclesia Dei, commenta il motu proprio “Summorum pontificum” di Benedetto XVI, e alla domanda
se la messa di san Pio V sia stata mai abolita dal Novus ordo, risponde: “Il Concilio Vaticano II non l’ha fatto, e successivamente non c’è stato mai nessun atto positivo che lo ha stabilito. Quindi formalmente la Messa di san Pio V non è stata mai abolita.
Fa specie comunque che coloro che si ergono a interpreti autentici del Vaticano II ne diano una interpretazione, in campo liturgico, così restrittiva e poco rispettosa della libertà dei fedeli, facendo sembrare oltretutto quel Concilio addirittura più coercitivo del Concilio di Trento”.

© Copyright Il Foglio, 11 luglio 2007


Né dividere né mortificare

Se il latino torna per arricchire

Carlo Cardia

Il cristianesimo non conosce una lingua sacra, perché ogni parola e ogni lingua è santa quando si rivolge al Signore. L'universalità della Chiesa si fonda anche sull'universalità del linguaggio di ciascun uomo, perché la preghiera viene dall'intimo della coscienza e si esprime nei modi e nelle forme che sono elaborati nella storia, ed è diretta a Dio che unifica tutto il genere umano.
Si può leggere in questo quadro la decisione di Benedetto XVI che con il Motu proprio Summorum Pontificum permette la celebrazione della liturgia, quale forma più alta di preghiera, secondo il rito latino tradizionale senza alcune limitazioni del passato.
La lingua classica torna ad avere un suo posto nei riti liturgici, per il clero, per i fedeli, senza per questo contrapporsi alle lingue nazionali, ma si unisce ad esse per rispondere a quell'esigenza di pluralismo che la Chiesa ha sempre tenuto in considerazione e che oggi si manifesta nella polifonia dei cristiani di tutto il mondo.
Può crescere l'armonia nelle diverse componenti della Chiesa. Una armonia fondata sulla possibilità di pregare secondo la sensibilità culturale, e linguistica, di ciascuna comunità, e di ciascun fedele. Si completa la polifonia del popolo di Dio con una lingua, come quella latina, che non appartiene al passato ma testimonia un cammino e una cultura che sono propri dell'Europa, dell'Occidente, di tanti altri popoli. Si arricchisce il rapporto con altre comunità cristiane che nel latino vedono il deposito religioso e umanistico che ha contribuito ad edificare e diffondere la Chiesa.
Quindi il latino torna non per dividere ma per unire e arricchire. La riforma di Benedetto XVI unisce la comunità cristiana perché nessuno si deve sentire, neanche indirettamente, mortificato per una sensibilità che avverte interiormente. La arricchisce perché conferma che il suono della preghiera, e della liturgia, non cambia secondo il suono delle parole e della lingua nelle quali viene pronunciata.
Chi recita il Pater noster, sa che esso (in latino, in italiano o altra lingua) ha lo stesso suono dell'invocazione a Dio per accostarsi a lui e manifestargli i bisogni più profondi dell'uomo, perché è il suono dell'interiorità e della confidenza non quello della grammatica o della sintassi. Il Papa conferma oggi che ogni lingua del mondo è degna e meritevole di rivolgersi a Dio e di elaborare preghiere, e tra tutte le lingue, anche il latino ha una sua legittimità cresciuta nella storia dell'umanità e della Chiesa, nell'interiorità di tanti fedeli.
Forse sentiremo ripetere da qualche parte osservazioni critiche, di tipo sociologico o politologico, che cercheranno nel Motu Proprio di Benedetto XVI motivazioni e finalità nascoste, o interpreteranno l'innovazione in termini di conservatorismo culturale. A queste osservazioni si potrebbe rispondere che, tra gli effetti indotti della riforma, ci sarà anche quello di salvare la lingua latina dal definitivo declino. Ma sarebbe una risposta povera. È meglio dire, con tutta franchezza, che le osservazioni profane sulla lingua della liturgia, fuori della comprensione di ciò che è la preghiera, non hanno senso, sono estranee alla nostra materia.
La nostra materia riguarda tutti coloro che sanno, o vogliono, o desiderano, pregare e accostarsi alla liturgia cristiana. Per costoro, usare la lingua italiana, la lingua della propria nazione e del proprio popolo, o celebrare la Messa in latino risponde allo stesso identico bisogno di avvicinarsi a Dio, di colloquiare con lui, di interrogarsi nella propria intimità, di cercare una dimensione più alta e insieme vicinissima all'uomo.

© Copyright Avvenire, 11 luglio 2007

1 commento:

Anonimo ha detto...

L'autore del secondo commento non sembra molto addentro alle "cose di chiesa": il latino si dovrebbe giustapporre alle altre lingue... in nome del pluralismo???
Le esigenze di pluralismo... sarebbero sempre state ascoltate dalla chiesa???
Fortunatamente è vero il contrario!!!
Si è sempre promossa l'unità del popolo di Dio anche con mezzi esteriori come la lingua!
Tutti i pronunciamenti del Magistero sono concordi, anche quelli del CVII!
Il volgare è stato introdotto per esigenze pastorali, non certo in nome del pluralismo!
Il pluralismo è un concetto smaccatamente profano!
Bisogna andarci piano anche col dire che la Summorum Pontificum è per la libertà dei fedeli o cose simili... la libertà di scegliere l'usus tridentinum è prima di tutto dei sacerdoti!
Essi soli hanno il diritto di scegliere la modalità in cui celebrare, nei limiti di quanto disposto dalla Chiesa!
I fedeli possono solo manifestare le loro legittime aspirazioni. Il clero elargirà loro la possibilità di tridentine colere perchè è stato disposto dal Pontefice, non perchè si debba "ascoltare la base" come nella politica profana!
E il Pontefice assegna motivazioni un pò diverse da quelle "libertarie" che ogni tanto si accampano qua e là...