10 dicembre 2007

Lettura d'obbligo per i visitatori della Cappella Sistina: la "Spe salvi" (di Sandro Magister)


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Lettura d'obbligo per i visitatori della Cappella Sistina: la "Spe salvi"

Il Giudizio finale torna potentemente in primo piano. Un grande libro dà una nuova interpretazione dell'affresco di Michelangelo. E Benedetto XVI, con la sua seconda enciclica, getta nuova luce sui destini ultimi dell'uomo e del mondo

di Sandro Magister

ROMA, 7 dicembre 2007 – Benedetto XVI ha scritto l'enciclica "Spe salvi", interamente di suo pugno, tra l'inverno e la primavera scorsi. Ma ha deciso di pubblicarla alla fine dell'anno liturgico, sulla soglia dell'Avvento, nel tempo in cui le letture della messa aprono lo sguardo sul Giudizio finale.

Al Giudizio finale è dedicata una parte importante dell'enciclica. L'autocritica che il papa chiede al cristianesimo moderno riguarda anche questo capitolo essenziale della fede cristiana, che egli vede "sbiadito", a vantaggio di una visione individualista del destino dell'uomo.
L'idea del Giudizio finale sopravvive nell'arte, più che nella fede. Ma anche gli artisti – fa notare il papa – nel raffigurare il Giudizio non sempre ne hanno espresso il senso pieno ed autentico. Hanno dato più risalto alla "minaccia" che allo "splendore della speranza".
Il Cristo giudice dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina è l'immagine del Giudizio finale più famosa al mondo. Lì, in effetti, "il gesto di condanna di Cristo non solo scuote tutto il suo corpo muscoloso, ma costituisce l'elemento vivificatore dell'affresco. Fa tremare tutto il dipinto fin nei suoi angoli più riposti. Il suo braccio destro alzato nell'atto di condannare è lo stesso braccio che nell'atto successivo scaraventerà tutti i malvagi nella profondità dell'inferno".
Così descrive il Cristo giudice della Sistina Heinrich W: Pfeiffer, 68 anni, tedesco, gesuita, professore di storia dell'arte cristiana alla Pontificia Università Gregoriana, in uno splendido libro pubblicato questo autunno in Vaticano, col titolo. "La Sistina svelata".
Il volume, di grande formato e magnificamente illustrato, consente di vedere e capire – come mai era stato fatto in passato – il senso teologico dei dipinti della famosa cappella papale, che culminano nel Giudizio finale affrescato da Michelangelo sulla parete che sovrasta l'altare.
"Svelando" il Giudizio, Pfeiffer ne mette in luce il senso non solo di minaccia – che è il primo che colpisce l'osservatore – ma di cristiana speranza.
Nella parte destra dell'affresco, ad esempio, c'è un insieme di corpi che sembrano drammaticamente contesi dagli angeli e dai demoni. Ma non è così. Quegli uomini e donne sono peccatori salvati, colpiti dagli angeli solo per essere purificati mentre ascendono alla gloria del cielo, inutilmente trattenuti dai demoni. È la parte dell'affresco che raffigura il purgatorio.
Anche nell'enciclica "Spe salvi" Benedetto XVI restituisce verità al purgatorio: altro capitolo sbiadito nel cristianesimo odierno, sopravvissuto però nell'immortale "Divina Commedia" di Dante.
Dove la fede vacilla soccorrono l'arte e la poesia. È il miracolo di una civiltà con radici cristiane.
Qui sotto sono riportate le pagine scritte da Benedetto XVI, nella sua enciclica sulla speranza, sul Giudizio finale, l'inferno, il paradiso, il purgatorio.
Ma, a corredo, andrebbe letto e guardato anche il volume su "La Sistina svelata", primo di una nuova collana intitolata "Monumenta Vaticana Selecta", con volumi annuali dedicati ai capolavori della sede dei papi. Nel 2008 alle Logge di Raffaello.
Curano l'edizione dei volumi i Musei Vaticani, la Libreria Editrice Vaticana e l'Editoriale Jaca Book, specializzata in libri d'arte.
Oltre che in italiano, "La Sistina svelata" è uscito contemporaneamente in inglese (Abbeville Press, New York), in francese (Editions Hazan, Parigi), in spagnolo (Lunwerg, Barcellona), in tedesco (Belser Verlag, Stoccarda), in polacco (Bialy Kruk, Cracovia). Seguiranno altre edizioni in russo, lituano, greco.
In ogni caso, la lettura di questo volume ma più ancora della "Spe salvi" rifà nuovo lo sguardo con cui contemplare il Giudizio finale. Non solo quello di Michelangelo. Quello di tutti.
Ecco i passi ad hoc dell'enciclica, tratti dai paragrafi 41-47:

Il Giudizio finale, immagine decisiva della speranza

di Benedetto XVI

Nel grande Credo della Chiesa, la parte centrale che tratta del mistero di Cristo [...] si conclude con le parole: "di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti". La prospettiva del Giudizio, già dai primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio. [...] Nello sviluppo dell'iconografia, però, è poi stato dato sempre più risalto all'aspetto minaccioso e lugubre del Giudizio, che ovviamente affascinava gli artisti più dello splendore della speranza, che spesso veniva eccessivamente nascosto sotto la minaccia.
Nell'epoca moderna il pensiero del Giudizio finale sbiadisce: la fede cristiana viene individualizzata ed è orientata soprattutto verso la salvezza personale dell'anima; la riflessione sulla storia universale, invece, è in gran parte dominata dal pensiero del progresso. Il contenuto fondamentale dell'attesa del Giudizio, tuttavia, non è semplicemente scomparso. Ora però assume una forma totalmente diversa.
L'ateismo del XIX e del XX secolo è, secondo le sue radici e la sua finalità, un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale. Un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l'opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. È in nome della morale che bisogna contestare questo Dio. Poiché non c'è un Dio che crea giustizia, sembra che l'uomo stesso ora sia chiamato a stabilire la giustizia.
Se di fronte alla sofferenza di questo mondo la protesta contro Dio è comprensibile, la pretesa che l'umanità possa e debba fare ciò che nessun Dio fa né è in grado di fare, è presuntuosa ed intrinsecamente non vera. Che da tale premessa siano conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia non è un caso, ma è fondato nella falsità intrinseca di questa pretesa.
Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza. Nessuno e niente risponde per la sofferenza dei secoli. Nessuno e niente garantisce che il cinismo del potere – sotto qualunque accattivante rivestimento ideologico si presenti – non continui a spadroneggiare nel mondo.
Così i grandi pensatori della scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, hanno criticato in ugual modo l'ateismo come il teismo.
Horkheimer ha radicalmente escluso che possa essere trovato un qualsiasi surrogato immanente per Dio, rifiutando allo stesso tempo però anche l'immagine del Dio buono e giusto. In una radicalizzazione estrema del divieto veterotestamentario delle immagini, egli parla della "nostalgia del totalmente Altro" che rimane inaccessibile – un grido del desiderio rivolto alla storia universale.
Anche Adorno si è attenuto decisamente a questa rinuncia ad ogni immagine che, appunto, esclude anche l'"immagine" del Dio che ama. Ma egli ha anche sempre di nuovo sottolineato questa dialettica "negativa" e ha affermato che giustizia, una vera giustizia, richiederebbe un mondo "in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato".
Questo, però, significherebbe – espresso in simboli positivi e quindi per lui inadeguati – che giustizia non può esservi senza risurrezione dei morti. Una tale prospettiva, tuttavia, comporterebbe "la risurrezione della carne, una cosa che all'idealismo, al regno dello spirito assoluto, è totalmente estranea".

* * *

Dalla rigorosa rinuncia ad ogni immagine, che fa parte del primo Comandamento di Dio (cfr Esodo 20,4), può e deve imparare sempre di nuovo anche il cristiano. La verità della teologia negativa è stata posta in risalto dal IV Concilio Lateranense il quale ha dichiarato esplicitamente che, per quanto grande possa essere la somiglianza costatata tra il Creatore e la creatura, sempre più grande è tra di loro la dissomiglianza.
Per il credente, tuttavia, la rinuncia ad ogni immagine non può spingersi fino al punto da doversi fermare, come vorrebbero Horkheimer e Adorno, nel "no" ad ambedue le tesi, al teismo e all'ateismo.
Dio stesso si è dato un' "immagine": nel Cristo che si è fatto uomo. In Lui, il Crocifisso, la negazione di immagini sbagliate di Dio è portata all'estremo. Ora Dio rivela il suo Volto proprio nella figura del sofferente che condivide la condizione dell'uomo abbandonato da Dio, prendendola su di sé. Questo sofferente innocente è diventato speranza-certezza: Dio c'è, e Dio sa creare la giustizia in un modo che noi non siamo capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo intuire. Sì, esiste la risurrezione della carne. Esiste una giustizia. Esiste la "revoca" della sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto.
Per questo la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza, quella speranza la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli. Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna.
Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell'immortalità dell'amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l'uomo sia fatto per l'eternità; ma solo in collegamento con l'impossibilità che l'ingiustizia della storia sia l'ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita.
La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr Efesini 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa.
L'immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un'immagine terrificante, ma un'immagine di speranza; per noi forse addirittura l'immagine decisiva della speranza. [...] Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto.
Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore.
Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoëvskij nel suo romanzo "I fratelli Karamazov". I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato. [...]

Gesù, nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (cfr Luca 16,19-31), ha presentato a nostro ammonimento l'immagine di un'anima devastata dalla spavalderia e dall'opulenza, che ha creato essa stessa una fossa invalicabile tra sé e il povero: la fossa della chiusura entro i piaceri materiali, la fossa della dimenticanza dell'altro, dell'incapacità di amare, che si trasforma ora in una sete ardente e ormai irrimediabile. Dobbiamo qui rilevare che Gesù in questa parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella cioè di una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora. [...]

* * *

La Chiesa primitiva ha ripreso tali concezioni, dalle quali poi, nella Chiesa occidentale, si è sviluppata man mano la dottrina del purgatorio. Non abbiamo bisogno di prendere qui in esame le vie storiche complicate di questo sviluppo; chiediamoci soltanto di che cosa realmente si tratti.
Con la morte, la scelta di vita fatta dall'uomo diventa definitiva, questa sua vita sta davanti al Giudice. La sua scelta, che nel corso dell'intera vita ha preso forma, può avere caratteri diversi. Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno.
Dall'altra parte possono esserci persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare da Dio e di conseguenza sono totalmente aperte al prossimo: persone, delle quali la comunione con Dio orienta già fin d'ora l'intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono.
Secondo le nostre esperienze, tuttavia, né l'uno né l'altro è il caso normale dell'esistenza umana. Nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro essenza un'ultima apertura interiore per la verità, per l'amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male. Molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima.
Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno forse di colpo irrilevanti? O che cosa d'altro accadrà?
San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, ci dà un'idea del differente impatto del giudizio di Dio sull'uomo a seconda delle sue condizioni. [...] Paolo dice dell'esistenza cristiana innanzitutto che essa è costruita su un fondamento comune: Gesù Cristo. Questo fondamento resiste. Se siamo rimasti saldi su questo fondamento e abbiamo costruito su di esso la nostra vita, sappiamo che questo fondamento non ci può più essere sottratto neppure nella morte.
Poi Paolo continua: "Se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l'opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell'opera di ciascuno. Se l'opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l'opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco" (3,12-15).
In questo testo, in ogni caso, diventa evidente che il salvamento degli uomini può avere forme diverse; che alcune cose edificate possono bruciare fino in fondo; che per salvarsi bisogna attraversare in prima persona il "fuoco" per diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola dell'eterno banchetto nuziale.

* * *

Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L'incontro con Lui è l'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria, e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa "come attraverso il fuoco". È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio.
Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo.
Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. È chiaro che la "durata" di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il "momento" trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno: è tempo del cuore, tempo del "passaggio" alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo.
Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia, domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine, per tutti noi, solo motivo di paura.
L'incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l'uno con l'altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza "con timore e tremore" (Filippesi 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro "avvocato", parakletos (cfr 1 Giovanni 2,1).

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