9 dicembre 2007

"La fede dei semplici", commento di Baget Bozzo alla "Spe salvi"


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La fede dei semplici

di Gianni Baget Bozzo

Ora si capisce bene che ci voleva un teologo tedesco perché si potesse riparlare, nella Chiesa cattolica, di temi divenuti laterali nella teologia e nella predicazione come quello della vita divina conferita al cristiano: un'esperienza della vita eterna che dura oltre la morte. Ormai sembrava che la vita cristiana, anche nella sua dimensione spirituale, fosse necessaria per vivere bene il tempo e che l'azione nel mondo fosse il solo spazio consentito al cristiano per essere tale. Ciò riconduceva inevitabilmente il cattolicesimo a essere una prassi sociale, e soprattutto una prassi assistenziale, una motivazione etica.

Solo un teologo tedesco poteva, in una solenne enciclica, avere l'autorità per riproporre sia ai teologi che ai fedeli l'autorità del medesimo linguaggio. La Chiesa è divisa tra il linguaggio dei teologi e il linguaggio dei fedeli, con il prete incaricato di fare la mediazione tra due lontananze.
Questa enciclica del Papa conforterà dunque la fede dei semplici credenti, che hanno creduto alla vita eterna nel tempo e nell'eternità come una continuità ininterrotta: e quindi all'immortalità dell'anima, con cui la Chiesa, sino a qualche decennio fa, aveva espresso il punto di contatto tra il tempo e l'eternità.

L'evento dopo il Vaticano II fu che il luogo della teologia cattolica passò da Roma alla Germania, proprio nel Paese in cui Martin Lutero aveva sostituito l'autorità del prete con quella del teologo, commentatore della Scrittura. E qui avvenne, nella teologia cattolica, l'operazione radicale: la definitiva sostituzione della metafisica, e quindi di San Tommaso, con l'antropologia, il trascendente sostituito, secondo il genio tedesco che ha avuto il suo maestro in Immanuel Kant, dal trascendentale. Ne venne che un rasoio implacabile si pose non soltanto sulla metafisica, ma su tutto il linguaggio cristiano che riguardava il Mistero e trascendeva il limite della ragione. La svolta antropologica di Karl Rahner divenne la forma di tutte le teologie, particolarmente di quella politica e della liberazione. Ma non fu tanto il ruolo di quelle teologie in quanto propositive che fu praticamente nullo, ma il fatto che, con esse, scendesse una censura sul linguaggio del Mistero cristiano, negando quella metafisica che aveva sino ad allora garantito il linguaggio come possibilità. Papa Wojtyla era passato per la via tedesca, in quella della filosofia di Max Scheler, ma era rimasto nella metafisica e nella mistica, discepolo di san Tommaso e san Giovanni della Croce, che mi sembrano ora marginali nella teologia di Ratzinger.

L'enciclica è, al tempo stesso, il documento di una personale teologia, non più centrata sulla metafisica e sul tomismo, ma decisa a riprendere il linguaggio dei Padri della Chiesa, cioè il linguaggio del primo millennio cristiano quale modo per esprimere il mistero della vita divina del credente nella comunione ecclesiale. Così egli riesce a non passare per la tradizione teologica romana che fu della Chiesa preconciliare ed è rimasta quella dei Papi che lo hanno preceduto: egli avanza l'idea di ritrovare il linguaggio cattolico nella sua verità dogmatica senza mediazioni filosofiche, soprattutto senza quelle metafisiche. Ratzinger vuole usare la Chiesa dei Padri per saldare la rinuncia alla metafisica fatta dalla teologia tedesca dopo la guerra. Si muove così con cautela ed è significativo che non riprenda il linguaggio dell'anima. Ma afferma la cosa fondamentale: che la fede e il battesimo comunicano la vita divina, secondo l'antica espressione comune ai Padri a partire da Ireneo: «Dio si è fatto uomo perché l'uomo diventasse Dio».

Il tema fondamentale della Chiesa che nacque dal paganesimo fu che Cristo dava la vita eterna, la vita oltre la morte perché infondeva nei credenti la sua realtà di Figlio di Dio. Ma la Chiesa antica, come la Chiesa attuale, manteneva la differenza tra il giudizio sul singolo e quello sul mondo, e quindi poneva un'escatologia intermedia per quello che veniva chiamato il paradiso delle anime.
Benedetto mantiene questa distinzione, parla del purgatorio e persino dei suffragi per le anime del purgatorio, cioè legittima una prassi del popolo credente che ha continuato ad essere praticata laddove è stato possibile; non sempre, perché in parecchie Nazioni i preti non accettano più messe per i defunti. Da qui è implicita una domanda dell'anima che Ratzinger lascia inesplorata ma che continuamente suppone. Possiamo chiamarla immagine di Dio o persona, è il castello interiore di Santa Teresa D'Avila, è il Fondamento di cui parla la mistica renana, è la dimensione interiore dell'uomo che sfocia nella comunione con la Chiesa e con il mondo, ma che può farlo perché essa abita in Dio e Dio abita in lei.

È interessante notare come Benedetto usi il pensiero tedesco per dare il linguaggio a temi così tradizionali come il giudizio finale. E' la dialettica negativa di Adorno che gli serve per mostrare il senso di un giudizio finale sulla giustizia nella storia, sulle vittime e sui carnefici, che solo Dio può dare perché conosce il segreto dei cuori. Ma che cosa sia la resurrezione della carne Benedetto non lo dice, anche se è difficile per la teologia dire qualcosa che trascende interamente la storia del mondo. L'immagine di un universo pieno di corpi risorti sfida l'immaginazione, ma il corpo glorioso di cui parla San Paolo è una realtà in cui Dio si trasfonde nell'uomo e gli comunica se stesso.
E il Papa parla anche dell'inferno, ma qui si sente l'influenza benigna di Von Balthasar per cui l'inferno era vuoto. Benedetto non dice questo, lascia la conciliazione tra amore divino e giustizia divina al mistero del giudizio di Dio.

© Copyright Ragionpolitica, 4 dicembre 2007

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Non riduciamo la teologia di Benedetto a fede dei semplici
di Pietro De Marco

http://www.loccidentale.it/node/10315

Anonimo ha detto...

Grazie della segnalazione :)
Provvedo subito.