2 agosto 2008

SGUARDO APERTO SULL’ORIZZONTE DEL «FINE VITA» (D'Agostino)


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SGUARDO APERTO SULL’ORIZZONTE DEL «FINE VITA»

FRANCESCO D’AGOSTINO

È vero che nel nostro ordinamento c’è un ' vuoto' normativo ( non es­sendoci una legge sul ' testamento biologico') e che è proprio questo ' vuoto' a rendere così drammatica e indecidibile la vicenda tristissima di Eluana Englaro?
No, non è vero. Non è vero per fredde ragioni teoriche e formali: la teoria generale del diritto ci insegna che, per definizione, in un or­dinamento giuridico i 'vuoti' sono so­lo apparenti, perché un’adeguata in­terpretazione ( restrittiva, estensiva o analogica) delle norme vigenti è in gra­do sempre di colmarli ( di fatto l’as­senza di una legge sul ' testamento biologico' non significa che non sia possibile trattare i malati in coma, ma semplicemente che i medici li cure­ranno non in base a eventuali diretti­ve lasciate dai pazienti stessi, ma in base ai migliori interessi di costoro).
Ma lasciamo pure da parte la teoria del diritto e valutiamo ragioni di altra natura e ben più concretamente so­stanziali. Le società moderne ricono­scono alla medicina uno statuto par­ticolare e privilegiato, legittimandola a intervenire invasivamente sul corpo umano, purché ad esclusivo beneficio della vita e della sopravvivenza dei malati: è quello che comunemente viene definito ' principio di garanzia' e che esclude radicalmente la legitti­mità giuridica ( oltre che morale) di o­gni forma di eutanasia, attiva o passi­va. Nessun fautore di una legge sul te­stamento biologico ha ( fino ad ora!) sostenuto che dovrebbe avere un con­tenuto eutanasico. Ma staccare il son­dino che alimenta ed idrata Eluana Englaro non significa altro se non por­re in essere una pratica di eutanasia passiva.
Si obietta: ma questa era la volontà di Eluana! Ogni persona ha diritto a ri­nunciare a qualsiasi terapia, anche sal­vavita! Non c’è dubbio, a due condi­zioni però, su cui molti fautori del te­stamento biologico disinvoltamente sorvolano: la prima è che la persona sia compiutamente informata in me­rito alla malattia di cui soffre e alle te­rapie a cui intende rinunciare e la se­conda è che per l’appunto di terapie si tratti e non di meri trattamenti di sostegno vitale. È onestamente im­possibile sostenere che Eluana, prima di restar vittima del tragico incidente che l’ha precipitata nello stato vege­tativo, avesse esattamente previsto il suo destino, che fosse consapevole dei complessi dibattiti scientifici sulla possibilità di diagnosticare l’irreversi­bilità del coma persistente e ancor più che fosse correttamente informata di cosa significasse, sul piano medico, sul piano assistenziale e soprattutto su quello etico, alimentare e idratare un malato in coma.
Quando ci si imbatte in questioni di vi­ta e di morte, i discorsi puramente in­diziari andrebbero messi da parte (co­me sensatamente vengono messi da parte, quando, in assenza di un valido testamento formale, sono in gioco questioni ereditarie).
In tal senso, potrebbe essere utile una legislazione puntuale sul fine vita che, seguendo le sagge indicazioni date, or­mai diversi anni fa, dal Comitato Na­zionale di Bioetica, imponga ai medi­ci di prendere in seria considerazione valide dichiarazioni anticipate di trat­tamento lasciate da malati poi caduti in coma, a condizione che tali dichia­razioni, redatte in data certa e nel ri­spetto di adeguate condizioni forma­li, provengano da pazienti competen­ti e informati al di là di ogni dubbio e soprattutto che non li obblighino a porre in essere pratiche attive o pas­sive di eutanasia. Una simile legge, o­ve non offrisse alcun appiglio per es­sere interpretata come un cavallo di Troia per legalizzare l’eutanasia sotto altro nome, potrebbe certamente aiu­tare molti medici ad assumere sagge e delicatissime decisioni sul tratta­mento di fine vita di molti pazienti.

© Copyright Avvenire, 2 agosto 2008

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