10 dicembre 2007

Mons. Gianfranco Ravasi: "Chi non ricorda non vive" (Osservatore Romano)


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Chi non ricorda non vive

Gianfranco Ravasi

È un binomio che spesso ricorre nei saggi che cercano di decifrare i percorsi dell'epoca che stiamo attraversando, e questa coppia di termini viene spontaneamente intesa in senso "polare": infatti, identità, da una parte, e disgregazione, dall'altra, sono come i poli estremi e antitetici della vicenda umana e sociale che stiamo vivendo. Questo è certamente vero ed è su tale percorso che si muove la rassegna cinematografica "Tertio millennio". Tuttavia se si scava più in profondità all'interno di questi due antipodi esistenziali e storici, si può forse individuare in ciascuno di essi quasi due volti anch'essi posti in antitesi.
Partiamo, dunque, dall'identità: è indubbio che essa costituisce un valore positivo che ai nostri giorni si fa sempre più stinto fino a rivelarsi talvolta estinto. Si tratta della propria storia, della memoria, delle radici, di quel passato che spiega il nostro presente: certo, esso trascina con sé anche scorie ma rappresenta la linfa vitale dello stesso nostro essere ed esistere. L'apolide che non ha identità è solo apparentemente libero, in realtà è un disperso, senza grembo e calore. Purtroppo la cultura contemporanea è sempre più smemorata e quindi incapace di "riportare al cuore" - come dice la stessa etimologia del "ricordo" - i suoi valori, le sue ricchezze interiori e comunitarie, la sua fisionomia, dilapidando la sua eredità. Un grande filologo come Giorgio Pasquali nella sua opera Filologia e storia (1920) giustamente annotava che "chi non ricorda non vive".
Detto questo, dobbiamo riconoscere che un aggrapparsi eccessivo ed esclusivo alla propria identità può diventare patologico. Sboccia, infatti, nelle anime la grettezza, nei popoli il nazionalismo, nelle religioni il fondamentalismo, nelle culture l'integralismo. Lo scrittore francese André Gide nel suo Diario osservava che "il nazionalista (come anche il fondamentalista) ha un grande odio e un piccolo amore". Sì, perché la detestazione dell'altro è molto più forte e veemente dell'amore per la propria identità spirituale e civile. Si procede, così, seguendo questa via verso la deriva del rigetto di tutto ciò che non si identifica con se stessi, e l'aggressività con cui si reagisce verso il diverso è, in realtà, segno di paura e di debolezza proprio nei confronti della capacità di tutela dell'identità.
Passiamo all'altro vocabolo, disgregazione. È ben evidente la connotazione negativa: il termine suggerisce dispersione e dissoluzione, un po' come accade quando si staccano le tessere di un mosaico, che a terra creano solo cumuli di colori confusi. Babilonia, la città della divisione, è anche la sede dell'incomunicabilità e dell'incomprensione. Come si dice nel libro della Genesi (11, 7), "confondiamo la loro lingua e non si comprenderanno l'un l'altro".
Fiorisce, così, una sorta di anarchia che impedisce progetti comuni. Il Cacciaguida dantesco, nel canto XVI del Paradiso, ricorda che "Sempre la confusion delle persone / principio fu del mal della cittade". Su questo tema è stato ormai detto tutto il necessario e la sociologia ha condotto tutte le analisi possibili.
Ribadito questo giudizio severo sulla disgregazione dei popoli e delle culture, bisogna però ricordare che sotto questa parola così negativa può celarsi un fermento fecondo. Quella che potremmo identificare come pluralità che si oppone a ogni forma di monolitismo socio-culturale e a ogni globalizzazione imposta e forzosa. Nella disgregazione può, infatti, manifestarsi in forma esasperata un'istanza di disaggregazione che impedisce appunto l'essere gregge o branco senza una coscienza personale e un'individualità creativa. Illuminante è, al riguardo, l'immagine di san Paolo quando, forse ricorrendo a una metafora di genesi stoica, compara la Chiesa a un corpo nel quale si conservano in equilibrio armonico sia l'unità sia la molteplicità, per cui "molte sono le membra e uno solo è il corpo e non può l'occhio dire alla mano: Non ho bisogno di te, né la testa ai piedi: Non ho bisogno di voi" (Prima lettera ai Corinzi, 12, 20-21).
Antonin Artaud, grande teorico del teatro, era fermamente convinto che il cinema "giocasse innanzitutto e soprattutto con la pelle umana delle cose, col derma della realtà", incapace di scavare in profondità, nell'essenza intima delle vicende e dell'essere. Ad onor del vero, la storia del cinema - e, nel suo piccolo, questa rassegna - testimonia che anche quest'arte sa penetrare oltre la superficie degli eventi. E lo fa centrando uno snodo così strategico e drammatico com'è appunto quello che intreccia identità e disgregazione.

(©L'Osservatore Romano - 10-11 dicembre 2007)

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