18 dicembre 2007

"Spe salvi", Prof. Dalla Torre: "L'«agire» e la speranza"


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"Spe salvi", l'«agire» e la speranza

Il rettore della Lumsa Giuseppe Dalla Torre sul secondo dei "luoghi" indicati da Benedetto XVI nell'enciclica

di Francesco Lalli

Continuano gli approfondimenti dedicati da Roma Sette ai luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza, delineati da Benedetto XVI nella sua enciclica Spe salvi. In quest’occasione trattiamo il tema dell’«agire» con il giurista Giuseppe Dalla Torre, rettore della Lumsa e vice presidente del Comitato scientifico delle settimane sociali dei cattolici italiani.

Nell’enciclica, il Papa rileva come si debba sempre sperare, anche se «per la mia vita o per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più nulla da sperare». In un contesto come quello occidentale in cui la voglia di progettare il futuro si è più che appannata, questo è un messaggio forte…

Si tratta certamente di una dimensione molto carente nella società contemporanea, ma che a mio avviso è andata indebolendosi anche nella comunità cristiana. Nella società la speranza è stata sostituita dall’aspettativa, il che riflette precisamente quella cultura dei diritti senza doveri che è una caratteristica dei nostri tempi. Dico questo perché l’aspettativa significa attendere qualche cosa che ci appare come «dovuto» in una situazione di assoluta passività; si tratta quindi di una delle tante facce dell’individualismo contemporaneo. Ma come sottolineavo all’inizio, anche nell’ambito della comunità cristiana c’è un certo indebolimento, perché la mia impressione è che molto spesso nell’attivismo che contraddistingue il mondo cattolico - volontariato, terzo settore, ecc. - si perda un po’ la motivazione ultima. Il rischio è che le opere sociali si avvicinino per questa strada a quelle di agenzie umanitarie, nobilissime per carità, ma estranee a quella che dovrebbe essere la motivazione del credente: seguire Cristo e la speranza di cui è portatore.

Il Papa evidenzia con forza che «il Regno di Dio è un dono» e che noi «non possiamo costruire il Regno di Dio con le nostre forze». «Tuttavia - precisa - rimane sempre vero che il nostro agire non è indifferente davanti a Dio e quindi non è neppure indifferente per lo svolgimento della storia». Le grandi ideologie attraverso cui l’uomo ha tentato di salvarsi da solo, diventano soltanto delle sbiadite illusioni?

Per capire questo passaggio del Papa credo si debba partire dalla società attuale, ma, anche in questo caso, da qualche debolezza della comunità cristiana che respira l’area del nostro tempo. L’errore delle società che ci hanno preceduto sta nell’aver riposto le speranze in ideologie e dittature che hanno, proprio in nome della speranza, azzerato ogni speranza. Per quanto riguarda la comunità cristiana, vi è invece una tornante tentazione, che è quella di abbandonarsi ad opposti estremismi: da una parte quello di fuggire dalla realtà mondana che ci costringe a sporcarci le mani, dall’altro, pensare che con l’impegno possiamo modificare a tal punto le strutture terrene che la prospettiva escatologica finisce con lo sfumare o l’annacquarsi. La soluzione naturalmente sta nel camminare nel mezzo. Da questo punto di vista Benedetto XVI ci richiama ad emendare le strutture mondane di peccato sapendo, però, che ciò non esaurisce l’orizzonte del nostro ambito terreno. La speranza del venire dopo la storia, dove tutto sarà perfetto e non più perfettibile, è la vera dimensione della prospettiva cristiana.

Tra le indicazioni diciamo così «operative» dell’agire, Benedetto XVI indica quasi come prioritario «liberare la nostra vita e il mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro», e «scoprire e tenere pulite le fonti della creazione». Una sottolineatura che sembrerebbe avere un carattere prevalentemente ecologista…

Si tratta di un’indicazione che è si colloca nella scia propria del Vaticano II, in altre parole di un «agire» in senso temporale. Il Papa insiste giustamente su questo, indicando in fondo un’azione che possa liberare il nostro mondo da tutto ciò che è d’impedimento alla speranza del futuro e di oscuramento alla verità. Il riferimento alle istanze ecologiche, quindi, da una parte ha un valore pratico - che non deve sorprendere, anche perché attenzione per la vita non significa solo attenzione per le tematiche bioetiche - dall’altro appare anche come una felice metafora sulla nostra responsabilità nel rimuovere le cause che inquinano le coscienze. Mi pare evidente il riferimento alla Deus caritas est, dove egli parlava di una ragione purificatrice in grado di liberare da tutta una serie d’incrostazioni culturali che pesano sulla storia del mondo.

In un’altra parte dell’enciclica ci viene ricordato che la speranza cristiana non è individualista. Anche alla luce della recente Settimana sociale, come si coniugano speranza e bene comune?

Qui il paradigma di riferimento è la comune figliolanza da Dio. Non a caso recitiamo «Padre Nostro» e non «padre mio». Dio ci ha insegnato a pregare come fratelli. Il che acquista una dimensione antropologica forte, significativa, data dal fatto che l’uomo ha la consapevolezza della perfezione dell’umano e dei personali limiti e difetti. Di conseguenza, il bene comune e l’efficacia del risultato nasce dal fatto che ci si muove insieme. In questo senso, uno dei frutti più significativi dell’ultima edizione delle Settimane sociali è stato proprio il forte raccordarsi delle diverse realtà associative per un impegno comune all’interno della Chiesa.

© Copyright RomaSette, 17 dicembre 2007

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