3 febbraio 2008

Intervista al rabbino capo di Roma: "Non c'è cultura senza tradizione" (Osservatore Romano)


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Intervista al rabbino capo di Roma

Non c'è cultura senza tradizione

Monica Mondo

Un'antropologia comune: figli dello stesso Padre. Questo il fondamento che unisce cattolicesimo ed ebraismo, due realtà di fede separate da una lunga e tormentata storia, che ne ha sottolineato soprattutto le differenze. Una visione dell'uomo che cambia lo sguardo sulla realtà, che si fa cultura. A partire da una tradizione.
Anche "l'emergenza educativa", che nasce da "una mancata trasmissione di certezze e di valori", può essere un impegno comune. Per questo il desiderio di coinvolgere Riccardo Di Segni, rabbino capo della Comunità Ebraica di Roma, in una riflessione sulla lettera di Benedetto XVI ai fedeli della città sul problema dell'educazione.
La lettera di un pastore al suo popolo, e di un intellettuale, un maestro per chiunque ami confrontare la ragione con le ragioni della fede. Rav Di Segni si rifà a una sapienza antica, esercitata dall'impegno di essere maestro di Torah, e padre di tre figli: si capisce che leggendo le citazioni del Papa che gli sono proposte pensa a dei volti.
"Non so se ci sia un'emergenza, - ci dice il rabbino - forse non bisogna generalizzare, ma c'è certamente una necessità permanente di educazione e di attenzione al tema dell'educazione, con tante difficoltà, che variano a seconda delle circostanze".

Il Papa parla di "atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene".

Ogni generazione ha questi dubbi. Si pensi a cos'erano le ideologie della prima metà del 1900, in cui interi popoli erano affascinati o violentati da ideologie totalitarie. Non so se oggi dobbiamo essere consolati dalla differenza, ma certo, in altri momenti è stato anche peggio.

Riconosce il peso di una "frattura tra le generazioni"?

C'è un brano profetico che dice: "Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore, perché faccia tornare il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri..." (Malachia, 3, 23-24).
La riconciliazione tra generazioni e la fine dell'incomprensione tra padri e figli è un evento messianico nella Bibbia. Noi questi versi li leggiamo tutti i sabato sera, nella cerimonia della Separazione, che segna l'inizio della settimana. Tanto per ricordarci com'è la situazione, e la non novità, purtroppo, del problema.

Ben povera educazione sarebbe quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte le grandi domande riguardo alla verità".

Direi che il tema della trasmissione dell'educazione è per noi essenziale e fondamentale. L'obbligo dello studio è un obbligo religioso, cioè la vita religiosa si realizza attraverso l'adempimento di una lunga serie di precetti, tra questi lo studio della Torah ha il peso di tutti gli altri messi insieme. Lo studio è un dovere fondamentale, un'espressione della religiosità per ogni uomo, finché ha respiro, ma è un dovere specifico dei genitori nei confronti dei figli. Ha presente il brano evangelico in cui chiedono a Gesù qual è il più grande comandamento, e lui risponde "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente"? (Matteo, 22, 36-37) Ecco, quella è una citazione dal Deuteronomio, che prosegue con "Questi precetti che oggi ti do... li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai..." (Deuteronomio, 6, 6-8). Penso che il Papa che ha una profonda cultura biblica abbia ben presente e attinga a queste radici ebraiche.

"Anche i grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati". È la sfida esaltante della libertà.

Nel mondo ebraico c'è questo imperativo dello studio, dell'educazione, che però è riferito allo studio della Torah. Questa priorità del tema educativo ha fatto sì che il modello ideale nell'ebraismo sia quello del dotto, dell'allargamento dell'impegno intellettuale in generale, che può creare anche qualche equivoco. Non so se vale anche per voi cristiani, ma l'impatto sulla sete della conoscenza è così forte che qualche volta, soprattutto negli ultimi due secoli, c'è stata una sostituzione dell'impegno della conoscenza rispetto alla conoscenza dei temi religiosi. Un popolo di dotti e di scienziati, ma non più dotto nei testi sacri. È un rischio.

Qual è "il giusto equilibrio tra disciplina e libertà"?

Da noi c'è un midrash che gioca con le parole, a proposito di una frase biblica che parla delle parole di Dio incise sulla pietra. Ecco, charùt vuol dire inciso, ma cherùt significa libertà. La legge incisa sulla pietra è la vera libertà. Ovviamente c'è molto da discutere su questo tipo di approccio. La vera libertà è quella di essere sottoposti a una legge... Non solo i più giovani fanno fatica ad accettare, a capire.

"L'educazione non può fare a meno di quell'autorevolezza che rende credibile l'esercizio dell'autorità"

L'autorità deriva dall'autorevolezza. È l'esempio. Se parliamo di maestri, che devono quindi essere maestri di Torah, gli si chiede l'esempio oltreché la dottrina.

"Anima dell'educazione può essere solo una speranza affidabile... Alla radice della crisi dell'educazione c'è infatti una crisi di fiducia nella vita". È così?

Per noi educazione è necessità di continuità. Senza educazione non c'è continuità. Il discorso della speranza quindi è legato, il nostro impegno culturale, religioso, spirituale è scegliere per la vita. "Vedi, oggi pongo davanti a te la vita e la morte, la benedizione e la maledizione... e sceglierai la vita" (Deuteronomio, 30, 15). Anche se Benedetto XVI parla di speranza in termini differenti, facendo riferimento sempre a un fondo di cristologia, bisogna tenerlo ben presente.

"È responsabile chi sa rispondere a se stesso e agli altri... E anzitutto a Dio che lo ha amato". La responsabilità non è allora l'adeguarsi forzato a un dovere. Vale per gli educatori, vale per gli alunni. E ancora: vi preoccupa che i ragazzi vengano posti davanti a idee e scelte sbagliate, presentate invece "come se fossero le nuove frontiere del progresso umano"?

Non ci sono differenze da questo punto di vista nella mentalità odierna da quelle passate. Il dovere è un giogo. Si tratta di vedere come si accetta questo giogo. Ripetiamo sempre nelle nostre preghiere di riuscire a ricevere questo giogo con amore. Quanto all'incontro con diversi educatori ogni insegnante ha una sua linea, una sua disciplina e un suo modo di trasmettere il suo sapere. L'incontro con la diversità può essere fecondo. Esistono diversità positive, stimolanti. Altre molto problematiche. Chi si è formato alla scuola di professori non religiosi ma con grande disciplina laica ha potuto prendere questa forza di impegno come un modello di coerenza. Non è l'opposizione alla fede che mi preoccupa di più, perché, come voi dite, la fede è un dono. Ma l'incoerenza è un modello ben più micidiale dal punto di vista morale.

(©L'Osservatore Romano - 3 febbraio 2008)

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