2 aprile 2008

Il Papa replica a chi nega la risurrezione. È “storica” e “documentata” (Magister)


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Su segnalazione di Luisa leggiamo:

Il papa replica a chi nega la risurrezione. È “storica” e “documentata”

“Verità storica” e “ampiamente documentata”. Così Benedetto XVI ha parlato della risurrezione di Gesù nella catechesi dello scorso mercoledì di Pasqua. Una verità storica oscurata anche da alcuni che si dicono cattolici, oggi come più volte in passato.

Su questo richiamo del papa, Francesco Arzillo ci ha trasmesso la seguente riflessione:

Il discorso all’udienza di mercoledì 26 marzo, in cui Benedetto XVI ha trattato il tema della risurrezione di Cristo, contiene un’affermazione significativa circa la storicità di questo evento.

Il papa, dopo aver richiamato il passo di Atti 17, 31 (“Dio ha dato a tutti gli uomini una prova sicura su Gesù risuscitandolo da morte”), ha affermato l’importanza di “ribadire questa verità fondamentale della nostra fede, la cui verità storica è ampiamente documentata, anche se oggi, come in passato, non manca chi in modi diversi la pone in dubbio o addirittura la nega”.

Il riferimento a una verità storica “ampiamente documentata” può sembrare un dettaglio secondario, ma non lo è.

Va infatti ricordato che nel contesto attuale la dimensione veritativa dell’annuncio cristiano – e della conseguente riflessione teologica – è posta a rischio da alcune tendenze ispirate a un latente fideismo, teso a porre in secondo piano le classiche impostazioni concernenti i segni di credibilità del cristianesimo.
È vero che la risurrezione di Cristo trascende il mondo presente, perché inaugura il mondo a venire. E tuttavia essa si colloca proprio come perno fondamentale sul crinale storia/fede: ossia come evento saldamente radicato nella storia e certamente non relegabile sul solo versante di una fede potenzialmente passibile di essere ridotta ad una forma di credenza meramente soggettivistica e opzionistica.
Deve riconoscersi che nel nostro secolo il pensiero credente ha riscoperto alcune dimensioni importanti della teologia della Risurrezione ed è pervenuto a un’approfondita e unitaria comprensione del Mistero Pasquale.
Con riguardo a questa nuova consapevolezza teologica, si deve però anzitutto precisare che non sarebbe corretto concepirla come un novum assoluto, sulla base di una lettura “discontinuistica” della storia della teologia: si ritrovano infatti degli spunti estremamente significativi, ad esempio, già nella concezione tommasiana della risurrezione di Cristo come causa efficiente ed esemplare della nostra giustificazione e risurrezione; come pure nella densa teologia del sacrificio del Seicento francese (Condren), secondo cui la risurrezione è un momento del sacrificio, rappresentando il compimento della consumazione della vittima.
Ai fini del presente discorso, però, è ancora più importante rilevare che a questa aumentata consapevolezza teologica è di fatto corrisposta un’attenuata percezione dell’importanza della risurrezione quale “prova”: lo si afferma, in questa sede, senza voler necessariamente individuare un nesso causale tra i due fenomeni, trattandosi di questione da riservare a indagini storiografiche approfondite. Questa situazione, poi, trova riscontro in una complessiva diminuita percezione della rilevanza della tematica dei “preambula fidei” e in particolare delle prove filosofiche dell’esistenza di Dio.

È agevolmente rilevabile che l’uso, nel contesto di queste questioni, delle parole “prova” o “dimostrazione” non è attualmente molto diffuso e suscita perplessità in non pochi ambienti.

Eppure non si può fare a meno di evocare, a questo riguardo, l’importante passo della costituzione Dei Filiusdel Concilio Vaticano I – richiamato anche dall’enciclica Pascendi Dominici Gregisdi Pio X sugli errori del modernismo – che afferma con chiarezza: “Se qualcuno dice che la rivelazione divina non può essere resa credibile con segni esterni, e che perciò gli uomini devono essere mossi alla fede solo dalla esperienza interiore di ciascuno e dalla ispirazione privata, sia anatema”.

Ancora più forti suonano oggi altri passaggi della medesima costituzione, secondo cui la retta ragione “dimostra i fondamenti della fede” (“…cum recta ratio fidei fundamenta demonstret”), e i miracoli consentono che l’origine divina della religione cristiana possa essere “regolarmente provata” (“rite probari”).
Certamente compete ai cultori della teologia fondamentale l’illustrazione del senso di queste enunciazioni, che vanno comunque raccordate con le altre dichiarazioni magisteriali dirette a evitare il razionalismo e salvaguardare la libertà dell’assenso di fede; rimane tuttavia viva l’esigenza di non sottovalutarne la pregnante portata epistemologica e contenutistica.

Che non si tratti di una tematica superata, è poi dimostrato – oltre che dal valore normativo dei canoni del Vaticano I – anche dal fatto che essa è ripresa da diversi passi del recente Catechismo della Chiesa Cattolica.
Né può sottacersi il fatto che il Nuovo Testamento fa ricorso alla dinamica della testimonianza e dell’attestazione, che è una dinamica anzitutto veritativa e non può essere ridotta a fatto meramente esperienziale-emozionale.

Si tratta quindi di un campo decisivo, sul quale si gioca la sfida anche intellettuale che il cosiddetto “mondo laico” propone ai credenti.

A fronte della rinnovata e crescente esposizione mediatica dell’ateismo scientista, non basta proporre un’apologetica della Rivelazione di stampo puramente estetico: l’estetica, se non vuole ridursi a fenomenologia, presuppone una metafisica del “pulchrum”, radicata a sua volta in una filosofia dell’essere.
Neppure è sufficiente far leva sulla metodologia antropologica, che muove dalla “questione del senso”, se non ci si mostra capaci di connettere la questione del senso alla questione del vero.
Ed è significativo il fatto che, nel dialogo, a volte accada che l’interlocutore cattolico – anche autorevole – si mostri restio a riprendere l’apparato metafisico dimostrativo tradizionale nei confronti di una controparte filosoficamente agguerrita, la quale sarebbe invece ben disposta a cimentarsi su un terreno teoreticamente più impegnativo.

Fa piacere rilevare, in quest’ottica, quanto dichiarato dal presidente del pontificio consiglio per la cultura, Mons. Gianfranco Ravasi, sull’ultimo numero di “Famiglia Cristiana“: e cioè che “dobbiamo tornare al confronto tra le metafisiche, come nell’Ottocento, quando la competizione era tra sistema idealistico e cristianesimo, tra marxismo e visione sociale della Chiesa”.
Occorre quindi affrontare alla radice il problema, sul piano filosofico e sul piano storico, mostrando che la pretesa della fede cristiana ha un carattere intrinsecamente veritativo. Ne conseguono importanti riflessi sulla formazione del clero e dei cristiani “impegnati”, con l’esigenza di rafforzare il peso e il significato degli studi filosofici, anche raccordandoli meglio con gli studi teologici.

Lo scopo, in ultima analisi, risiede nella necessità di rendere sempre più chiaro il fatto che il cristianesimo si rivolge non ad una ragione dimezzata, quale complemento opzionale per spiriti deboli, bensì ad una ragione che è riconosciuta ed accolta nella pienezza delle sue capacità, e che rimane tale anche e proprio nel gesto di inchinarsi di fronte al Mistero.

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2 commenti:

Anonimo ha detto...

Mi scuso, il post non è pertinente alla notizia. Leggo ora che un'ora fa a Bologna le femministe ed altri hanno impedito a Giuliano Ferrara di parlare. Già, Bologna arrogante e "papale", bologna la rossa... (così cantava Guccini). Ma anche Bologna la dotta.Complimanti, la "Sapienza" fa scuola. Che tristezza.

Anonimo ha detto...

Il mio post invece vorrebbe essere pertinente all'articolo di Magister.

Ma il vangelo di Giovanni di domenica scorsa non diceva:"Beati coloro che crederanno senza aver visto?".