19 agosto 2008

Dal Papa un richiamo alla riconciliazione e all'unità per i cattolici cinesi: "Perdona, piuttosto che condannare" (Osservatore)


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Dal Papa un richiamo alla riconciliazione e all'unità per i cattolici cinesi

Perdona, piuttosto che condannare

di Wojciech Giertych
Domenicano, teologo della Casa Pontificia

Il Santo Padre Benedetto XVI, nella sua Lettera ai Vescovi, ai presbiteri, alle persone consacrate e ai fedeli laici della Chiesa cattolica nella Repubblica Popolare Cinese, tenendo conto della difficile situazione interna in seno alla Chiesa che è il risultato di pressioni esterne provenienti dalle autorità politiche, ha scritto: "Si deve tener presente che, specialmente in assenza di un vero spazio di libertà, per valutare la moralità di un atto occorre conoscere con particolare cura le reali intenzioni della persona interessata, oltre alla mancanza oggettiva. Ogni caso dovrà essere, quindi, vagliato singolarmente, tenendo conto delle circostanze" (n. 7).
Benedetto XVI è pienamente consapevole che persecuzioni dirette di lunga data e dolorose restrizioni, meno drammatiche ma ciononostante continue, che sono state imposte alla Chiesa in Cina, l'hanno divisa dal di dentro. Come il Papa accenna nella medesima Lettera, "questo ha condizionato seriamente il cammino della Chiesa, dando adito anche a sospetti, accuse reciproche e denunce, e (ha creato una situazione) che continua ad essere una preoccupante debolezza (della Chiesa stessa)" (ivi).
La difesa dell'autonomia della Chiesa e della sua libertà di predicare il messaggio pieno e non deformato del Vangelo è sempre abbinata con la necessità di trovare un modus vivendi in una determinata situazione sociale e politica. La Chiesa non è in uno stato angelico escatologico, ma è incarnata nel mondo e, così, in ogni Paese e dentro ogni sistema politico i rappresentanti della Gerarchia e del clero hanno qualche tipo di relazione con le autorità temporali, anche se essi devono essere molto cauti per assicurarsi che non compromettono la propria fedeltà a Cristo e che nelle menti dei fedeli il messaggio del Vangelo non diventa identificato con i programmi e le attività dei politici. Ciò è particolarmente importante quando il modo di agire dei politici solleva serie inquietudini morali. In ogni caso, è difficile valutare dal di fuori la linea sottile tra il codardo ritiro da una posizione profetica coraggiosa e una prudente diligenza - di fronte all'oppressione - per mantenere quanto può essere salvato e, addirittura, per estendere il campo dell'attività pastorale della Chiesa. Quanto è eventualmente possibile ottenere in un momento della storia, può essere impossibile in un altro.
Quanto è forse possibile in un Paese, o persino in una parte di un Paese, può essere impossibile in un'altra. Nondimeno, si devono prendere decisioni, e queste decisioni sono espressioni della prudenza politica e pastorale di coloro che portano il peso della responsabilità e valutano il contesto sociale e politico preso in considerazione.
Nel suo messaggio alla Chiesa in Cina, il Santo Padre ha cercato di rivolgersi sia a quanti hanno resistito alle persecuzioni in una maniera eroica e hanno continuato un'esistenza clandestina escludendo assolutamente ogni contatto con le autorità civili cinesi, sia a quanti, facendo forse troppi compromessi, hanno cercato di trarre profitto da quel po' di respiro, dosato con cura, che veniva offerto loro dalle autorità politiche.

Il Santo Padre ha invitato entrambi i gruppi all'interno della Chiesa, senza condannare nessuno, a superare la loro mancanza di mutua fiducia e a costruire l'unità del Corpo di Cristo sulla base del perdono e della riconciliazione e l'unità con la Chiesa universale.

L'ingiunzione del Papa ha evitato accuratamente il lancio di facili accuse e si è astenuta dal dare un giudizio morale di condanna (anche su coloro che non sono in un rapporto canonicamente regolare con la Santa Sede), insistendo sul fatto che nelle valutazioni morali bisogna sempre tenere conto delle vere intenzioni di una persona, che prende difficili decisioni prudenziali.
Questo richiamo di un principio etico fondamentale che rispetta l'intenzione interna di un agente può essere soppesato unitamente con un altro commento, fatto da Giovanni Paolo ii nella sua enciclica Veritatis splendor, dove leggiamo: "La moralità dell'atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall'oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata, come prova anche la penetrante analisi, tuttora valida, di san Tommaso. Per poter cogliere l'oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce" (n. 78).
L'osservazione di Giovanni Paolo ii, che è interamente in accordo con la visione di san Tommaso d'Aquino, ha fatto inarcare alcune ciglia e ha stimolato dibattiti teologici. Ciò è avvenuto primariamente perché essa contraddice una mentalità casuistica, generalmente diffusa, che aspetta che tutti gli atti morali immaginabili abbiano una qualificazione morale chiara, incontestabile e facilmente riconoscibile, che può essere soltanto o buona o cattiva. L'approccio personalistico di Giovanni Paolo ii rispetta la visione e il discernimento della persona che agisce, una visione che è condizionata da circostanze uniche, può essere superficiale o avere profondità, può essere ottimistica o pessimistica, può percepire una potenzialità nascosta in una determinata situazione, può essere aperta nella fede a ispirazioni interne dello Spirito Santo, e può anche, naturalmente, essere erronea.
I due passi sopra citati si riferiscono al principio fondamentale della morale secondo cui, nella valutazione di un atto morale, tre fonti di moralità devono essere prese in considerazione: l'intenzione, l'oggetto morale dell'atto, e le circostanze particolari. Tutti e tre gli elementi devono essere buoni affinché l'atto morale sia buono. Se uno di questi tre elementi è cattivo, l'atto morale finale sarà cattivo. L'insegnamento morale cattolico rigetta con forza il pensare proporzionalistico, che lega la qualificazione morale degli atti unicamente all'intenzione dell'agente, suggerendo che è moralmente lecito accettare un atto oggettivamente cattivo quando è motivato da una buona intenzione proporzionalmente più alta. Le buone intenzioni non giustificano i mezzi cattivi. Certi atti sono intrinsecamente cattivi e nessuna buona intenzione può giustificarli.
La maggiore difficoltà nella comprensione di questo principio sta nella capacità di intendere la natura dell'oggetto morale. Esso può riferirsi a un oggetto fisico (una somma di denaro offerta come dono, o rubata) o a un'emozione che si prova (un sentimento di desiderio o di ira), oppure un'azione che è intrapresa (un'operazione medica o una mossa politica). Tuttavia, l'oggetto morale è qualcosa di più che il mero evento fisico che sta avvenendo. L'oggetto morale, che specifica la qualificazione morale definitiva dell'atto, include anche il contributo della ragione che valuta il futuro atto nella sua cornice circostanziale unica e alla luce dei principi morali oggettivi. La volontà deliberata sceglie l'oggetto insieme con la sua valutazione razionale. Questa valutazione, mentre rispetta i modelli oggettivi di principi morali che sono formulati nella legge morale, cerca di arrivare alla verità della materia, "così come viene vista dall'agente". Quest'ultima osservazione è il punto sul quale Giovanni Paolo ii ha insistito nella sua enciclica Veritatis splendor. Alla fine, il criterio ultimo per la persona che agisce è la sua propria ragione, la quale, includendo la luce della legge morale, cerca il vero bene in una determinata situazione. In circostanze differenti o in un momento di maggiore esperienza, la ragione dell'agente può considerare un'analoga situazione in maniera differente. Ciò è del tutto normale, ma al momento di prendere la decisione l'agente deve agire sulla base della percezione che egli ha in quel preciso momento. Questo, naturalmente, non nega il fatto che l'agente ha bisogno di formare la propria ragione alla luce di principi oggettivi. Un chirurgo che lavora in un ospedale europeo ben attrezzato deciderà di curare un paziente con l'aiuto di farmaci e di cure intensive. Quel medesimo chirurgo, che abbia a che fare con il medesimo paziente che soffre della stessa malattia in un campo di rifugiati nel Congo, può decidere di amputare un arto. Anche se oggettivamente la malattia è la stessa in entrambi i casi, la soluzione scelta che esprime il mirare al vero bene come è percepito dalla persona che agisce, differisce a causa di mutate circostanze e possibilità esterne. Il rispetto per la prospettiva razionale della persona che agisce, sul quale Giovanni Paolo II ha insistito, non è affatto un'accettazione del relativismo morale né la creazione arbitraria di norme morali del tutto personali. È tuttavia un rispetto per la dignità dell'agente, il quale ha bisogno di arrivare con la sua propria ragione al vero bene in una situazione che è sempre in qualche modo unica. Non c'è creatività di fronte a norme morali, che in modo immutato mettono in rilievo i valori morali ed escludono intrinsecamente azioni cattive, ma ci deve essere creatività di fronte agli atti morali. A volte sono possibili più opzioni, che sono tutte buone, benché siano differenti, e una decisione circa l'azione deve essere presa. L'essenza dell'attività virtuosa sta nella capacità di trovare, in una maniera creativa e responsabile, una soluzione che sarà veramente buona e nella quale, come il cristiano ambirà nella sua fede, dovrà essere espressa la carità infusa da Dio. Il fatto che gli atti morali sono soggetti a una lettura personale significa che non possono tutti essere considerati con il freddo atteggiamento di un osservatore che non è coinvolto. Gli atti morali non hanno la stessa qualità oggettiva e invariata che hanno i fatti fisici, osservati dalle scienze empiriche esatte. Essi sono atti umani contingenti e sono, perciò, soggetti al contributo personale della ragione della persona che agisce, mentre si concentra sul vero bene della preannunciata situazione. Questa caratteristica personalistica dell'oggetto morale di un atto significa, pertanto, che le decisioni prudenziali, prese da coloro che hanno la responsabilità di trovare soluzioni politiche, pastorali o personali, non dovrebbero essere facilmente condannate da quanti stanno a guardare e non portano quella responsabilità.
La citazione sopra riportata dell'enciclica di Giovanni Paolo ii si riferisce all'insegnamento di san Tommaso d'Aquino. Nella nota a pie' di pagina si menziona la questione 18, articolo 6 della Ia-IIae della Somma Teologica. In questo articolo l'Aquinate fa rilevare che c'è una relazione mutuamente complementare tra l'atto interno ed esterno dell'agente. Mentre la ragione della persona che agisce, illuminata dalla legge morale, cerca di concentrarsi sul vero bene dell'atto esterno, quella medesima ragione condiziona anche l'atto interno provocando una riflessione sull'intenzione nascosta. Quell'intenzione è in accordo con il più profondo orientamento della volontà umana mentre si concentra verso la felicità suprema in Dio? Entrambe le dimensioni, quella interna e quella esterna, contribuiscono insieme alla definitiva qualificazione morale di un atto. La mentalità casuistica, essendo il frutto di una visione della morale che relegò la riflessione sull'interiorità della persona in un'altra disciplina, intesa come separata e opzionale e chiamata la teologia dalla vita interiore, condusse alla convinzione che la valutazione morale degli atti si riferisce primariamente o persino unicamente alla vita esteriore. Di fatto, entrambe le dimensioni funzionano insieme, e anche quanto sta avvenendo al livello dell'interiorità umana è di decisiva importanza. Il tossicodipendente che ruba è più un ladro o più un tossicodipendente? Visto dall'unica prospettiva dell'atto esteriore, può essere giudicato un ladro. Ma visto da una prospettiva totale che tiene conto della sua umanità, della sua ricerca di felicità e della sua tragedia, egli è più un tossicodipendente. Il suo dramma principale non è il fatto che egli ha rubato, ma il fatto che pone la sua ultima speranza nella dipendenza, la quale lo porta a rubare. Una visione esauriente della moralità cristiana, che Giovanni Paolo ii ha in mente nella sua enciclica, si preoccupa primariamente che la croce di Cristo non sia svuotata del suo potere (1 Cor 1, 17), che il potere della carità divina, dato da Cristo sia incluso, attraverso la fede, tra le disposizioni interiori degli agenti morali. Nell'esame della propria coscienza, devono essere presi in considerazione non soltanto gli atti esterni, ma anche le disposizioni e le intenzioni interne. Sono state pure? Sono state per l'amore di Dio oppure sono state macchiate da altre motivazioni quali l'egoismo o la paura eccessiva?
Il richiamo del principio fondamentale secondo cui in tutti gli atti morali, a parte la luce oggettiva fornita dalla legge morale, hanno un significato decisivo sia la considerazione personale svolta dalla ragione dell'agente sia l'intenzione interiore dell'agente che muove la volontà, sarà utile - si spera - nel leggere la storia recente e nel superare il clima di sospetto e di diffidenza che la vita sotto regimi totalitari spesso genera. La valutazione di spinose questioni, prese nel contesto dell'oppressione esterna, richiede soprattutto rispetto, simpatia e un senso di compassione verso coloro che furono forzati ad agire davanti a dilemmi impossibili. È soltanto in un tale clima di rispetto e di comprensione che le ferite spirituali, inflitte dalla persecuzione, dalla paura e dal sospetto, saranno guarite.

Le parole chiarificatrici di Benedetto XVI alla Chiesa in Cina sono parole di cautela, affinché non vengano commesse gravi ingiustizie da coloro che, vivendo in un contesto sociale differente, applicano criteri semplicistici nelle loro facili condanne.

Esse fanno eco a un insegnamento similare, dato dal Santo Padre ai sacerdoti di Polonia nel maggio 2006: "Il Papa Giovanni Paolo ii in occasione del Grande Giubileo ha più volte esortato i cristiani a far penitenza delle infedeltà passate. Crediamo che la Chiesa è santa, ma in essa vi sono uomini peccatori. Bisogna respingere il desiderio di identificarsi soltanto con coloro che sono senza peccato. Come avrebbe potuto la Chiesa escludere dalle sue file i peccatori? È per la loro salvezza che Gesù si è incarnato, è morto ed è risorto. Occorre perciò imparare a vivere con sincerità la penitenza cristiana. Praticandola, confessiamo i peccati individuali in unione con gli altri, davanti a loro e a Dio. Conviene tuttavia guardarsi dalla pretesa di impancarsi con arroganza a giudici delle generazioni precedenti, vissute in altri tempi e in altre circostanze. Occorre umile sincerità per non negare i peccati del passato, e tuttavia non indulgere a facili accuse in assenza di prove reali o ignorando le differenti condizioni di allora. Inoltre la confessio peccati, per usare un'espressione di sant'Agostino, deve essere sempre accompagnata dalla confessio laudis - dalla confessione della lode. Chiedendo perdono del male commesso nel passato dobbiamo anche ricordare il bene compiuto con l'aiuto della grazia divina che, pur depositata in vasi di creta, ha portato frutti spesso eccellenti" (Discorso ai sacerdoti nella cattedrale di Varsavia, 25 maggio 2006).

(©L'Osservatore Romano - 20 agosto 2008)

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