10 agosto 2008

La lezione di Sydney: "Cos'è la laicità per il Cristianesimo? Scoppola e Benedetto XVI a confronto" (Fontana)


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La lezione di Sidney

Cos'è la laicità per il cristianesimo?
Scoppola e Benedetto XVI a confronto


Stefano Fontana

Una delle versioni più accreditate di laicità la fa consistere nel sentirsi partecipi di una comune umanità prima di aderire ad una confessione religiosa o ad un’altra. E’ questa la definizione che di laicità ha dato, poco prima di morire recentemente, lo storico italiano Pietro Scoppola, figura di alta moralità e di profonda fede.
Nel libro “Un cattolico a modo suo”, a pagina 93 egli afferma: «Essere laici significa sentirsi partecipi di una comune umanità prima ancora di aderire a qualsiasi credo religioso (…) essere laici implica un atteggiamento di fronte alle cose e alle persone che ci circondano viste nella propria identità e non rispetto ad un obiettivo a loro esterno».

Confesso che non riesco bene a capire la laicità intesa in questo modo. La fede cristiana non è qualcosa che si aggiunga dopo o sopra l’umanità dell’uomo. Almeno a me non sembra che le cose stiano così. La creazione è già una rivelazione ed è già una salvezza. Non è che si sia compiutamente uomini e poi si scelga per l’uno o per l’altro credo. Questa scelta del cristiano è un tutt’uno con il suo essere uomo. Egli pensa che la rivelazione e la vita di grazia svelano in profondità cosa voglia dire essere uomo. La “nuova creatura” che ne nasce è qualcosa di veramente nuovo e non può spogliarsi della dimensione della fede per tornare a vivere come se questa non fosse. La vita di fede non è un “obiettivo esterno” alla identità umana e chi crede non può non vedere gli altri e se stesso nella luce di Cristo. Il cristiano crede di non potere essere uomo senza Cristo. Non vanta nessun merito per sé, ha solo una gran voglia di dirlo anche agli altri. Ciò non vuol dire non riconoscere i diversi livelli di autonomia delle realtà umane. La fede non si sostituisce a questi altri livelli, ma la luce che ne proviene li investe tutti, addirittura con l’ambizione di chiarire a loro stessi la loro natura o identità. In altre parole le identità non risaltano di più se considerate senza la fede, ma al contrario. La stessa “comune umanità” risalta maggiormente, anziché il contrario, alla luce della fede cristiana.

Il 19 luglio Benedetto XVI è tornato a parlare di queste cose nell’Omelia alla cattedrale di Saint Mary a Sidney. Egli ha detto che “ci troviamo in un mondo che vorrebbe mettere Dio da parte”.

In nome dell’autonomia umana “il nome di Dio viene oltrepassato in silenzio, la religione è ridotta a devozione personale e la fede viene scansata nella pubblica piazza”. Di fatto, guardare tutti in base alla sola umanità e alle varie identità, significa “mettere Dio da parte”, ossia pensare che sia possibile “incontrarci da uomini” senza Dio. Ma è veramente possibile farlo? Questo, continua il Papa, “può perfino offuscare la nostra stessa comprensione della Chiesa e della sua missione”. Infatti, se il suo messaggio all’uomo “si aggiunge” come qualcosa di esterno, la Chiesa non annuncia più una vita nuova, ma dei correttivi alla vita umana di sempre.

Secondo Benedetto XVI, poi, questo può indurre a indebolire “il suo potere [della vita di fede] di ispirare una visione coerente del mondo”. Se si considera la fede come una “aggiunta” di cui non tenere conto quando si parla e agisce laicamente, come potrà esserci questa coerenza? E’ inevitabile che la fede venga ridotta a “devozione personale”. Quando però questo avviene è l’uomo che ne fa le spese, infatti “in Cristo Gesù, Parola incarnata, giungiamo a comprendere la grandezza della nostra stessa umanità”. Come sarà allora possibile intendere la laicità come un incontro in ciò che è comunemente umano, se proprio (e solo) Cristo ci dice veramente cosa significhi pienamente essere uomo e quale sia il destino di ogni uomo?

Quando ci si incontra con gli altri uomini nella pubblica piazza non si può prescindere dal problema della “verità” di questa comune umanità, altrimenti ci inganniamo a vicenda o ci nascondiamo nel nominalismo. Non si può prescindere dal fatto che esistono “visioni che gareggiano per conquistarsi le menti” – a dirlo è ancora il Papa a Sidney – nei cui confronti bisogna attuare un “dialogo rigoroso”.

Questo dialogo “rigoroso” io lo interpreto così: nel rispetto della verità dell’uomo che Cristo ci ha mostrato. La fede cristiana, nel proporsi come vera, pone il problema della verità e spinge la ragione stessa a porselo, sia in rapporto alla fede sia in rapporto a se stessa.

Senza la garanzia della fede gli uomini credono di incontrarsi in una “comune umanità” salvo scoprire che è quella politicamente corretta.

© Copyright L'Occidentale, 3 agosto 2008

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