22 dicembre 2007

La convivenza pacifica non si attua con il dialogo buonista, abbinato ad una testimonianza di basso profilo tanto per non urtare la sensibilità altrui


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L’INIZIATIVA «AD GENTES»

UN’URGENZA NUOVA ALLA MISSIONE

GEROLAMO FAZZINI

Se c’è una cosa alla quale Benedet­to XVI ci sta abituando, è misurar­ci con le domande importanti, decisi­ve. Che hanno a che fare con la verità di Dio e dell’uomo.

Nel discorso di ie­ri alla Curia romana, il Papa ha tocca­to una questione cruciale, particolar­mente dibattuta.
Sintetizzabile così: è lecito ancora oggi 'evangelizzare'? Non dovrebbero piuttosto tutte le re­ligioni e concezioni del mondo con­vivere pacificamente e cercare di fare insieme il meglio per l’umanità, cia­scuna nel proprio modo?.
L’interrogativo è ben poco accademi­co.
In una fetta dell’opinione pubbli­ca, specie dall’11 settembre in qua, si è fatta strada l’idea che la pretesa uni­versalistica delle religioni implichi ne­cessariamente uno sconfinamento nella violenza dei loro seguaci.

A sen­tire non pochi intellettuali, parrebbe che il fondamentalismo (con tutti gli effetti collaterali connessi) sia la deri­va ineluttabile di ogni credente che si professi tale e abbia la 'pretesa' di pro­porre ad altri le sue proprie convin­zioni. Per tutta risposta, certuni pro­pugnano quindi un dialogo buonista, meglio se abbinato a una testimo­nianza di basso profilo (con la scusa di non ferire la sensibilità altrui), come la ricetta per garantire una convivenza pacifica.

Anche nel mondo missionario, che pure nel suo complesso dà indubbia­mente una splendida testimonianza di coraggiosa dedizione alla causa del Vangelo, di tanto in tanto paiono far­si strada tentazioni del genere.

Si confonde, talvolta, la doverosa docilità allo Spirito («che soffia dove vuole») con un atteggiamento 'rinunciatario'. Quasi che l’annuncio fosse un optional rispetto alla mera 'presenza'.

Certo, non si può non prendere atto delle salutari provocazioni di quei teo­logi che amano parlare di «scambio nel segno della reciprocità», in cui il non credente dà al credente e vice­versa, in una reciprocità di doni mi­steriosamente guidata dallo Spirito. Ma il punto è che se un cristiano con­sidera Gesù come Salvatore di tutti, e il suo messaggio non un prontuario di regole bensì una buona notizia per ciascuno, inevitabilmente non può che divenirne testimone.
Prima con la vita e subito dopo con le parole. Be­nedetto XVI lo ha affermato ieri con espressioni di rincuorante semplicità ed efficacia: «Chi ha riconosciuto una grande verità, chi ha trovato una gran­de gioia, deve trasmetterla, non può affatto tenerla per sé».
Al convegno missionario di Montesil­vano, qualche anno fa, padre Vittorio Farronato, comboniano in Congo, se ne uscì con questa felice espressione: «Una volta l’urgenza missionaria ve­niva dal pensare che 'se non arrivo a battezzarli, vanno all’inferno'. Oggi l’urgenza viene dal bisogno, e dal di­ritto, che ogni persona, ogni popolo ha di gustare com’è buono il Signore». Che è un altro modo per dire la desti­nazione universale della salvezza. E­vangelizzazione, potremmo dire, co­me possibilità di garantire il diritto concreto alla vera felicità (natural­mente di un tipo speciale di felicità, non certo quella contrabbandata co­me tale dalla new age).
C’è da sempre chi ritiene questo ap­proccio troppo intimista. No, dice il Papa: il Vangelo è qualcosa di estre­mamente concreto, una «buona noti­zia sulla dignità dell’uomo, sulla vita, sulla famiglia, sulla scienza e la tec­nologia, sul lavoro umano, sulla de­stinazione universale dei beni della terra e sull’ecologia: dimensioni nelle quali vengono date risposte alle sfide del tempo».
È accaduto ad Aparecida in Brasile, la primavera scorsa. Accade ogni volta in cui, lungo la storia, la Chiesa pren­de sul serio l’appello del suo Maestro: essere se stessa, diventando così lievi­to del mondo.

© Copyright Avvenire, 22 dicembre 2007

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