11 dicembre 2007

"Spe salvi", il teologo ortodosso O­livier Clément: Marx e Nietzsche morti di speranza


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«La nuova enciclica non seppellisce soltanto (come è stato sottolineato) l’ideologia marxista e le sue illusioni, che hanno sconvolto le masse, ma ci libera pure dalla visione nicciana ancora troppo legata al paganesimo ellenico» Parla il teologo ortodosso Olivier Clément

Marx e Nietzsche morti di speranza

DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ

«È un’enciclica ricca, densa, ma al contempo abbastanza lim­pida e chiara. Una sorta di sintesi del genio germanico e di quello latino. Ma il fatto che vengano citati mol­ti esempi di santità d’Africa e d’Asia con­ferisce al documento un forte carattere universale». Prima di esprimersi sulla Spe salvi, il grande teologo ortodosso O­livier Clément ha mi­surato il tempo di una lettura approfondita e attenta anche ai risvol­ti ecumenici dell’enci­clica.

Professore, quali sono le qualità e i temi del­la «Spe salvi» che l’hanno maggiormen­te colpita?

«Chi come me ha pas­sato gran parte della vita a lottare contro il marxismo, ha certa­mente trovato in que­st’enciclica tutti gli ar­gomenti necessari sia per mostrare gli aspet­ti ancora interessanti del marxismo, sia per evidenziarne l’impo­tenza di fondo di fron­te all’uomo e alla sua profondità. In questo senso, è un’enciclica che colpisce e che aiu­ta. Emergiamo da un ventesimo secolo di­vorato dalle ideologie. Occorreva battersi in questo contesto e tro­vare il proprio cammino ed ho l’im­pressione che l’enciclica parli di tutto ciò con molta acutezza. Le grandi atte­se ideologiche che hanno sconvolto le masse sono rimesse al loro posto. Si può forse dire che quest’enciclica segna la fine dell’illusione marxista. Non però in modo duro e crudele, ma a tratti quasi col tono di una constatazione storica. Sono rimasto molto colpito dalla qualità del testo, all’insegna della storia spiri­tuale. Ciò che è spirituale è sempre col­locato in una prospettiva storica, dalla fine del Medioevo fino ad oggi».

La parte iniziale dell’enciclica insiste sul passaggio dal mondo pagano alla speranza della Rivelazione cristiana. Quali impressioni le ha lasciato?

«È il richiamo di una verità storica fon­damentale, il passaggio da un mondo dotato di piccole speranze materiali a un mondo attraversato e trascinato da un’immensa speranza data dal cristia­nesimo. Anche qui siamo di fronte a u­na storia della spiritualità, alle verità del­la storia profonda del­l’Occidente ».

Come l’enciclica pre­cedente, anche la «Spe salvi» cita spes­so parole e concetti del mondo greco. È sorpreso?

«Anche nella nostra e­poca, mi pare la stra­da migliore per chi vuole approfondire le origini cristiane. I Pa­dri della Chiesa parla­vano talvolta latino, soprattutto sant’Ago­stino, ma la maggioranza di essi parlava greco. Le parole che u­tilizzavano e i concet­ti che forgiavano era­no greci. Citare termi­ni greci mi pare il se­gno di una grande o­nestà di storico che u­tilizza le parole come venivano usate in ori­gine. Parole non sem­pre facilmente tradu­cibili e che conviene dunque citare».

Certi filosofi moder­ni hanno cercato di contrapporre cri­stianesimo e tradizione greca. L’enci­clica può essere vista come una nuova risposta a queste interpretazioni?

«Credo che l’essenziale sia sfuggito a fi­losofi come Nietzsche. Quest’ultimo, in particolare, riscoprì un gran numero di atteggiamenti profondi del mondo elle­nico pagano, ma non cercò di com­prendere il senso del pensiero cristiano greco. Credo che Nietzsche e altri non abbiano compreso i termini fondamen­tali del cristianesimo antico che vengo­no ricordati nell’enciclica. La quale ci li- bera dunque anche da una certa visio­ne nicciana. L’apertura sull’avvenire che la parola 'speranza' significa è qualco­sa di totalmente nuovo rispetto agli an­tichi. Nel passato poteva esserci una sor­ta d’eternità, certo, ma non l’idea di un movimento temporale positivo verso u­na realtà ultima. Sono i Padri della Chie­sa ad aver chiarito tutto ciò per primi».

Approfondire le origini è anche un se­gno rivelatore di volontà ecumenica?

«Sì, significa tornare all’epoca dell’unità nel primo slancio della fede, cercando di ritrovarlo nel contesto attuale. Il pen­siero dell’enciclica ha una grande forza. Ci aiuta a comprendere l’essenza della speranza cristiana, mostrandoci anche come essa sia stata nel tempo lenta­mente raccolta ma talvolta anche deformata da altre visioni. Il cristianesi­mo ha in parte perduto la potenza col­lettiva di questa speranza per ridursi spesso a un anelito individuale. L’enci­clica ci indica dunque lo sforzo neces­sario per ritrovare la forza del cristiane­simo e rendere agli uomini di oggi lo slancio verso un avvenire che è insieme nel tempo e fuori dal tempo. Nel tempo e nella trasfigurazione del tempo e del mondo».

Le pietre miliari di questo cammino sembrano le virtù teologali.

«Non ci sono – credo – altri modi au­tentici di presentare il cristianesimo al mondo d’oggi, se non insistendo su que­sti atteggiamenti fondamentali che im­pegnano, illuminano e orientano tutta la nostra vita. Credo che non occorra fare del cristianesimo un moralismo, come è già avvenuto in passato, ma bisogna ritrovare i temi fondamentali. La fede, la speranza, l’amore. Tutto il linguaggio delle origini, così paolino. Quest’enci­clica coincide con un momento spiri­tuale molto importante nella storia u­mana ».

Si riferisce anche al nuovo momento e­cumenico di Istanbul per la festa orto­dossa di sant’Andrea?

«La coincidenza della ricorrenza con la pubblicazione dell’enciclica è il segno di un riavvicinamento in profondità. Credo che il Papa abbia messo l’accen­to sulla prossimità delle due Chiese in u­na speranza davvero comune. La spe­ranza, come mostra l’enciclica, è inse­parabile della comunione».

© Copyright Avvenire, 11 dicembre 2007

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