4 febbraio 2008

Origini e significato di uno dei motti del giornale del Papa: da Giustiniano all'Osservatore «unicuique suum»


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Origini e significato di uno dei motti del giornale del Papa

Da Giustiniano all'Osservatore «unicuique suum»

Sante Polica
Docente di Storia e istituzioni di età medievale
Università di Roma Tor Vergata

Riflettere sul significato originario e autentico del motto unicuique suum, in esergo alla testata de "L'Osservatore Romano" e giustapposto all'evangelico non praevalebunt, può rivelarsi esercizio tutt'altro che inutile, anche alla luce di episodi non rassicuranti quali la forzata rinuncia da parte del Papa all'incontro con gli studenti e i docenti all'università di Roma La Sapienza.

La decisione di ricorrere ad esso socchiude infatti più di uno spiraglio su quali fossero lo spirito e gli intenti che accompagnarono la nascita del quotidiano della Santa Sede in un periodo di scontri davvero aspri con il nascente Stato italiano. Se verrà liberato dalle incrostazioni dei secoli, e rimosso dai contesti impropri nei quali risulta spesso calato, il motto apparirà infatti allora esclamazione contingente ma forte, al limite della messa in guardia e della rivendicazione; una testimonianza genuina dei tempi in cui sorse questo giornale, che non potevano certo dirsi tempi ordinari, correndo l'anno di grazia 1861, e cioè l'anno della nascita del Regno d'Italia, e del conseguente distacco a suon di plebisciti di importanti regioni dallo Stato della Chiesa.
Ma perché la riflessione si riveli fruttuosa, occorrerà procedere con ordine, anche se ciò vorrà dire, paradossalmente, iniziare il discorso dalla fine: quando l'unicuique suum ci appare immerso nei colori e nelle forme di teorie di tipo teologico e trascendente come quelle che si respiravano nelle biblioteche di Costantinopoli al tempo di Giustiniano imperatore (VI secolo dopo Cristo) in cui, ad opera dei suoi giuristi, si elaborava il Corpus iuris civilis: teorie che evocavano immediatamente la giustizia, una giustizia da perseguire in terra come riflesso di quella divina, che rimandavano al desiderio di questa e alla necessità del suo esercizio. Si trattava, com'è evidente, di un contesto universalistico e totalizzante: peraltro contiguo, molto contiguo a quello evocato dal motto nelle menti dei moderni e dei contemporanei; che si sono spinti fino all'abiezione di farne un uso in senso atrocemente ribaltato, collocandolo - purtroppo è accaduto - in traduzione sul cancello d'ingresso di un lager nazista.
Radicalmente estraneo e le mille miglia lontano da quest'ultima profanazione, l'originario unicuique suum va tuttavia visto in un contesto diverso anche dall'atmosfera trascendente in cui lo avevano calato a forza i bizantini, i quali - più che obbedire a intenti interpolatorii - ne avevano in quel caso frainteso il vero significato. Un contesto di ambito più circoscritto e concreto, meno astrattamente irenico: non lontano da quello nel quale venne collocato da "L'Osservatore Romano" circa duemila anni dopo la sua prima formulazione, con una scelta doppiamente esatta, perché sagace e al tempo stesso filologicamente corretta.
Per vedere le cose più da vicino: se i redattori giustinianei lo avevano scelto nientemeno che come apertura dei loro Digesta, ciò era certamente avvenuto per conferire al motto un chiaro valore simbolico e referenziale. "La giustizia è la volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo diritto", recitava il passo: il che equivaleva a dire che il primo e il più generale dei principi della scienza giuridica era il principio di giustizia; e che conseguentemente la giustizia doveva considerarsi fonte del diritto e oggetto di una disciplina eminentemente sapienziale, la vera philosophia, nella quale il sapere giuridico doveva venir messo al servizio di uno stile di vita.
Ora, il punto è che tutto ciò risultava molto lontano dalla più genuina tradizione giuridica romana, quale si era evoluta dalle XII tavole fino alla grande giurisprudenza del II-III secolo dopo Cristo: anche tralasciando la radicatissima avversione che i giuristi romani, al contrario di ciò che comunemente si crede, nutrivano per i meccanismi definitori, va notato come la parola stessa "giustizia" risulti di norma rigorosamente espunta dal loro lessico e dal loro bagaglio teorico. Esporne le complesse motivazioni ci condurrebbe troppo lontano. Qui limitiamoci a ricordare come il testo giustinianeo riecheggiava anche il noto e fortunatissimo passo delle Istituzioni di Ulpiano (composte tra il 212 e il 213) dove da "giustizia" (iustitia) veniva fatta addirittura derivare l'etimologia del termine "diritto" (ius): diritto che sarebbe consistito nella "disciplina razionale del buono e dell'equo", contenente, come principale tra le sue prescrizioni, quella di "attribuire a ciascuno il suo".
Nel sorprendente passo di Ulpiano si opera infatti un duplice colpo di scena: in primo luogo la derivazione di ius da iustitia, che è con tutta evidenza una falsa etimologia, o meglio un'inversione etimologica portata a termine a freddo e certo con piena consapevolezza. E in secondo luogo l'esibizione insistita della nozione di iustitia: che era, come si è già accennato, del tutto estranea alla tradizione del pensiero giuridico romano. Naturalmente nel far ciò Ulpiano doveva avere dalla sua molte e buone ragioni: rivolgendosi a studenti alle prese con i primi rudimenti della scienza giuridica (perché tali erano le Istituzioni) egli intendeva trasmettere loro - anche stravolgendo le etimologie - quello che riteneva essere ai suoi tempi il principio essenziale della vera philosophia intesa come guida allo stile di vita del giurista. Stile che si traduceva, allora, nel tenere la schiena dritta di fronte al potere legislativo dell'imperatore, fattosi ormai debordante: uno stile difficile da raggiungere e mantenere. Per cercare di riuscirci, era necessario appellarsi, come fa Ulpiano, ad un sofferto giusnaturalismo razionalista, del quale la dialettica principe - giurista potesse innervarsi, per trovare all'interno di essa un limite all'arbitrio del primo.
Ma chi e che cosa c'era all'origine di questa catena che ha come anello centrale una giustizia - divinizzata dai Bizantini, posta dai giuristi imperiali all'origine del diritto - della quale si è sottolineata la forte estraneità al sistema giuridico romano antico? In realtà quello giustinianeo suona come clamoroso recupero, attraverso i giuristi Gaio e Ulpiano, di un passo ciceroniano della Rethorica ad Herennium che recita così: Iustitia est aequitas ius uni cuique retribuens pro dignitate cuiusque. Si tratta di un passo che sarebbe stato sviluppato dai grandi giuristi romani fino all'inizio del III secolo esclusivamente sul versante dell'equità: è infatti il concetto e il termine di "equità" - al contrario di quello di "giustizia" - ad avere una lunga storia nel pensiero romano; comparendo originariamente soltanto nell'aggettivale neutro aequum, spesso in coppia con bonum, ricopriva antichissime e poliedriche valenze, non solo e non tanto giuridiche, e traduceva in sostanza il modello greco di epieikeia come si era venuto costruendo, non senza oscillazioni, in Aristotele, dall'Etica nicomachea alla Retorica.
Ora, la caratteristica sia dell'aequitas che dell'aequum et bonum è quella di figurare solo come una parte del diritto: quella che richiama aspetti della realtà da ricondurre a concetti come "flessibilità", "aderenza al caso concreto", e simili. L'aequitas è quindi vicina allo ius civile e alla sfera dell'economia (distributiva), e - perché no? - anche della politica. Ma questa stessa aequitas risulta palesemente inadeguata se deve venire identificata con quel principio di portata universale, dall'evidente fondo stoico, che abbracciava il ius non in una sua specifica parte, ma nella sua "interezza": se deve cioè identificarsi in quella "giustizia", che traduceva i termini greci dike e dikaiosyne, quella che era appunto fondata sull'"attribuire a ciascuno il suo" sullo sfondo dell'eternità, perennemente.
L'operazione ciceroniana, tutto al contrario, restava saldamente ancorata alla necessità di adeguare ai tempi nuovi l'originario diritto proprietario, divenuto poi diritto della città e ormai assimilato allo ius civile; e proprio per far questo esplorava i campi semantici relativamente contigui di "equità" e di "giustizia", appoggiandosi decisamente al primo e ad incunaboli di giusnaturalismo.
Se non m'inganno, è precisamente in questo spirito - recuperando quindi le profonde, originarie e autentiche motivazioni ciceroniane - che il motto unicuique suum è stato adottato e prescelto per comparire sulla testata de "L'Osservatore Romano". Sarebbe interessante conoscere ad opera di chi, e sapere se il percorso che ha condotto a questa scelta ha lasciato tracce oppure no; e nel caso, cercare di ricostruirlo. Quello che non sembra dubbio, invece, è l'intento di fondo: con un forte richiamo al significato quiritario della proprietà, da porre qui in relazione stretta e forte con il complesso concetto ciceroniano di res publica, la voce del giornale intendeva richiamare i nemici del potere temporale dei papi all'osservanza di norme di equità, lamentando la già avvenuta effrazione di alcune di esse, e spingendosi sulla base di questa considerazione a minacciare - forse - nei confronti dei Savoia la rottura dell'alleanza tra trono e altare, tipica della Restaurazione.
È andare troppo oltre su questa strada, se si legge nell'unicuique suum anche una sorta di avvertimento - invettiva alle varie monarchie d'Europa? Certo da quelli di Cicerone i tempi erano molto cambiati, pur assistendo anche questi a sovvertimenti epocali: ma anche a non volersi spingere così lontano, sembra difficile negare che il senso del motto, lungi dall'evocare remissivamente una superiore giustizia, intendesse farsi denuncia di sopruso e grido di richiamo per una più attenta osservanza dei diritti e degli interessi di ciascuno.

***

Il cambio di grafica del 2 gennaio 1862

Nel primo numero del 1862 "L'Osservatore Romano" inserì per la prima volta nella testata i due motti unicuique suum e non praevalebunt. La prima pagina di quel numero datato 2 gennaio è quasi interamente occupata da un editoriale intitolato "La nostra epigrafe" nel quale si ripercorrono i primi mesi di vita del quotidiano e gli obiettivi perseguiti - "Combattere coi deboli, perché coi deboli stava il diritto e la giustizia; combattere contro i forti, perché con essi si accompagnava l'iniquità e l'ingiustizia" - e si spiega la scelta dei due motti.
In particolare, sull'unicuique suum, si legge: "Se la bandiera della rivoluzione è il furto, la nostra deve esprimere l'idea contraria. Noi proclamiamo la riverenza ai diritti, l'ossequio alle autorità, l'obbedienza alle leggi, il mantenimento dell'ordine, il rispetto delle proprietà. Noi scriviamo sulla nostra divisa il simbolo d'una legge essenzialmente ripugnante alla legge della rivoluzione, l'unicuique suum.
In tal modo il campo è distinto: nessuna alleanza, nessun consorzio è possibile fra le due parti, né l'una può vincere, senza il completo esterminio della sua nemica.
A chi è dunque destinato il trionfo?
Eleviamoci un istante al di sopra del mondo materiale, contemplando col pensiero le leggi immutabili che lo governano".

(©L'Osservatore Romano - 3 febbraio 2008)

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