11 febbraio 2008

Bruno Forte: "Quale avvenire per il Cristianesimo?" (Zenit)


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Quale avvenire per il cristianesimo?


ROMA, sabato, 9 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato da monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, in occasione del dibattito-incontro su "L’avvenire del Cristianesimo", tenutosi il 24 gennaio al Centre Culturel Saint Louis de France di Roma.

* * *

Nel corso di cinque settimane (fra Novembre e Dicembre 2007) il quotidiano La Croix si è interrogato sull’avvenire del cristianesimo in Occidente, rilevando motivi di inquietudine e ragioni di speranza. L’inchiesta offre un quadro, con cui sarà utile che si confronti chiunque abbia a cuore il futuro della causa del Vangelo, specialmente nei paesi di antica cristianità. Vorrei riflettere su questo quadro anzitutto allargando l’orizzonte di lettura e mostrando la singolare coincidenza di alcuni giudizi emergenti dall’inchiesta con diversi modelli interpretativi della crisi dell’Occidente, proposti nel Novecento. Vorrei quindi chiedermi - anche in vista del superamento di questa identificazione assoluta del cristianesimo con la cultura occidentale - quale compito si profili come il più urgente per i cristiani nell’immediato avvenire e quali priorità emergano per l’azione pastorale della Chiesa. Presenterò le mie riflessioni in un dittico: da una parte, la tavola “Occidente e Cristianesimo”, dedicata al conflitto delle interpretazioni e alla rilevanza della “riserva escatologica” della fede; dall’altra, la tavola delle “priorità per l’avvenire della coscienza cristiana”, dove toccherò le vie della “diakonìa”, della “koinonìa” e della “diakonìa”.

1. Occidente e Cristianesimo: il conflitto delle interpretazioni e la “riserva escatologica” della fede

Il destino dell’Occidente si è prestato alle interpretazioni più diverse, spesso tra loro in conflitto. Fra le metafore utilizzate non poche si muovono in direzione di un giudizio tragico, come ad esempio quelle di “tramonto” e di “naufragio”. È Oswald Spengler a privilegiare la categoria di “tramonto”: nata in opposizione alla modernità decadente, la sua opera Il tramonto dell’Occidente [1] ne è in realtà un estremo epigono. Essa intende dimostrare le tendenze dissolvitrici insite nella modernità occidentale, leggendo il processo in atto sotto il segno di un inevitabile declino: le due anime del Faust, la tecnica e la tragica, sono polarizzate a scapito della seconda. La svolta non può essere data per Spengler dalla democrazia, mera dittatura del denaro, né dalle ideologie del progresso schiave della tecnica, come il socialismo, ma da una tensione tragica, che riconcili storia e natura in un nuovo inizio. Non è difficile constatare come queste analisi abbiano potuto produrre terribili frutti, legati a letture ideologiche e violente tanto di destra, quanto di sinistra.
Ben diversa è l’origine della metafora del “naufragio”, scelta da Hans Blumenberg nella sua opera Naufragio con spettatore [2] come chiave di comprensione della condizione attuale dell’Occidente. Punto di partenza è il testo in cui Lucrezio presenta lo spettatore che dalla riva assiste rassicurato a un naufragio [3]: la contrapposizione tra la sicurezza della terraferma e il mare in tempesta, esprime la condizione “classica” dell’esistenza, certa di un punto di appoggio da cui poter guardare la scena della vita e del mondo. È questa certezza che si perde nel tempo della modernità: “Vous êtes embarqué”, dirà Pascal [4]. Il naufrago è ormai lo stesso spettatore: non c’è più lo stabile punto di vista a partire dal quale ci si possa porre come spettatori distaccati. L’onda, sulla quale andiamo alla deriva nell’oceano, siamo noi stessi. La condizione post-moderna, cui è approdato il viaggio dell’Occidente, consiste insomma nel nuotare da naufraghi in mezzo al mare della vita, cercando di costruire una zattera su cui rifugiarci.
I modelli interpretativi della crisi dell’Occidente, che ho voluto richiamare, presentano una convergenza impressionante con molti dei giudizi raccolti dall’inchiesta de La Croix sulla condizione del cristianesimo occidentale oggi: se all’idea di Occidente si sostituisce in essi quella di cristianesimo, la convergenza appare evidente. Ecco solo alcuni esempi di valutazioni, registrate dall’inchiesta a proposito del presente e dell’avvenire della vicenda cristiana: “déclin annoncé”, “pessimisme lancinant”, “enfouissement”, “glissement d’identité”… Sembra quasi che per non pochi Occidente e Cristianesimo si identifichino “tout-court” nella loro parabola di grandezza e di caduta: in questo senso, l’inchiesta ha colto un luogo comune presente in modo pervasivo in molti degli interpreti dell’attuale vicenda cristiana. È giusta, però, questa identificazione assoluta? Ed è giusto trarne la conseguenza che “declino dell’Occidente” significhi senz’altro “declino del cristianesimo”? O, invece, la “riserva escatologica” della fede non comporta sorprese che non sono quantificabili nei termini di un semplice giudizio storico o di una valutazione di processi culturali puramente mondani?
In realtà, è abbastanza facile osservare come proprio dalla dimensione religiosa e trascendente dell’esistenza umana siano nati alcuni dei processi più radicali di trasformazione e di crisi degli universi totalizzanti delle ideologie, che avevano occupato la scena centrale del “secolo breve” in Occidente. Il cristianesimo, lungi dall’identificarsi con la parabola della modernità ideologica, ne è stato spesso la più forte riserva critica. Così, Dietrich Bonhoeffer - il teologo morto martire della barbarie nazista - esprime sulla parabola dell’Occidente negli ultimi due secoli un giudizio estremamente importante per valutare la differenza cristiana. Il fallimento epocale delle ideologie cederà il posto secondo lui a un relativismo devastante, a una vera e propria “décadence”, dove, poiché non si ha fiducia nella verità, la si sostituisce con i sofismi della propaganda. La decadenza priva l’uomo della passione per la verità, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l’ideologia ancora sembrava offrirgli. A trionfare è il nichilismo, in forza del quale gli uomini sfuggono al dolore infinito dell’evidenza del nulla, fabbricandosi maschere, dietro cui celare la tragicità del vuoto. Questa, però, è anche la situazione in rapporto alla quale Bonhoeffer propone la centralità del Dio sofferente e il Vangelo del cristianesimo non religioso, in chiaro e forte contrasto con altre risposte teologiche, a suo avviso ancora malate di ideologia e compromesse con la malia dello spirito moderno.
Analogamente, e nello stesso contesto (Berlino, 1939), il pensatore cattolico Romano Guardini, costretto dal regime nazional-socialista a lasciare l’insegnamento, svolge un ciclo di conferenze su Le cose ultime (1940) [5], che si offre come una testimonianza straordinaria di “scrittura in codice” - o “scrittura reticente” - , che in un linguaggio apparentemente estraneo alle vicende dell’ora veicola un potenziale critico ben comprensibile agli uditori del tempo. Davanti a una visione del mondo che presume di abbracciare l’intero orizzonte della realtà, il messaggio della fede circa le cose ultime si offre come irriducibile ad una spiegazione soltanto intramondana, come quella “riserva escatologica” che funge da campanello di allarme nei confronti di ogni pretesa esclusiva dell’ideologia. Il primato riconosciuto al Dio personale e trascendente, è confutazione dell’obbedienza assoluta predicata al “Führer”. È a Dio solo, giudice dell’uomo e della storia, che va data fiducia ed obbedienza, in vita come in morte. Lungi dal declinare parallelamente al tramonto dell’Occidente, il cristianesimo potrà rigenerarsi nella sua natura evangelica, centrata sulla buona novella del Dio crocifisso e risorto per noi.
È qui che le voci di Bonhoeffer e di Guardini rivelano la loro forza profetica, che le rende significativa testimonianza del ruolo svolto dalla fede cristiana nell’effettivo sviluppo dei processi critici del XX secolo in Occidente: nello scarto fra potere e valore, essi non esitano a scegliere il valore, come hanno fatto i martiri e quanti nella storia hanno opposto resistenza al potere in nome dell’obbedienza a Dio solo. C’è un primato inalienabile del bene e del vero, cui nessun potere di questo mondo ha diritto di sostituire altri primati: e se questo era inquietante e profetico nella crisi europea di sessant’anni fa, non lo è di meno per la cultura debolista e rinunciataria della nostra cosiddetta post-modernità, che con l’abbandono delle sicurezze ideologiche entrate in crisi abbandona sovente la passione della verità e il senso di un orizzonte più grande, capace di fondare l’impegno per la giustizia e il bene e la responsabilità verso altri. Queste voci cristiane ci aiutano così a cogliere la straordinaria rilevanza che il Dio vivo e trascendente ha anche per noi, eredi del naufragio della cultura ideologica dominante fino a pochi anni fa, e bisognosi di una speranza che ci porti oltre le nostre solitudini ed oltre ogni disimpegno possibile.
Sarà questo il compito del cristianesimo prossimo venturo nelle culture dell’Occidente? Sembrano rilevarlo non pochi segnali dell’inchiesta de La Croix: “Le passage d’un christianisme transmis de génération en génération, par une sorte d’appartenance passive, à une foi de libre choix, vécue comme une démarche délibérée d’adhésion, marque aujourd’hui les pays occidentaux hier encore dits ‘de chrétienté’” - “Par dizaines de milliers, dans la plupart des pays concernés, des adultes sont en route pour devenir chrétiens. Ils ne demandent pas le baptême pour adopter un corps de doctrines, mais pour adhérer à une personne qu’ils ont rencontrée comme vivante et source de vie dans leur existence: Jésus, découvert dans les Évangiles, à travers des chrétiens ou à l’occasion d’un moment fort de l’existence”... La diagnosi si condensa dunque in un compito, che tocca ogni credente, come la Chiesa nel suo insieme, e su cui si gioca l’avvenire del cristianesimo in Occidente: “Croire plus, croire mieux”. Era peraltro la sfida intuita più di quarant’anni fa dal Concilio Vaticano II nella Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes: “Legittimamente si può pensare che il futuro della umanità sarà riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza” (n. 31).

2. Un ordine di priorità per l’avvenire della coscienza cristiana: “martoria” – “koinonia” – “diakonia”

Come vivere e trasmettere queste ragioni di vita e di speranza? Come credere di più e credere meglio, affinché il mondo creda? Alcune priorità si profilano per la fede cristiana alle soglie del terzo millennio in Occidente: esse sembrano emergere, peraltro, in vari modi dall’insieme dell’inchiesta condotta da La Croix. Con una terminologia al tempo stesso antica e significativa per l’oggi vorrei ricondurle alle tre urgenze della “martyrìa, della “koinonìa” e della “diakonìa”.

La via della “martyrìa” corrisponde a una rinnovata esigenza di spiritualità emersa nel compiersi della parabola dell’epoca moderna. La modernità aveva contrapposto la verità universale e necessaria della ragione e la verità contingente della vita, favorendo quel divorzio fra riflessione e spiritualità, che aveva reso spesso il discorso su Dio piuttosto arido e intellettualistico, caratterizzando al contempo la spiritualità in senso piuttosto sentimentale ed intimistico. L’epoca post-moderna spinge a superare questo fossato: l’alternativa che la fede oppone alle ideologie sta precisamente nella possibilità di sperimentare un rapporto personale con la Verità, nutrito di ascolto e di dialogo con il Dio vivo.
Lungi dall’apparire come fuga dal mondo, secondo la critica di moda negli anni dell’ideologia rampante, la dimensione contemplativa della vita e l’esperienza spirituale sembrano offrirsi come riserva di integralità umana e di autentica socialità. Concretamente, ciò significa che di fronte alla caduta dei grandi racconti dell’ideologia, propri della modernità, i credenti sono chiamati a testimoniare con la vita che ci sono ragioni per vivere e per vivere insieme e che queste ragioni ci sono state offerte in Gesù Cristo. Si tratta di ritornare al primato di Dio, riconosciuto nella preghiera e celebrato nella liturgia. C’è bisogno di cristiani adulti, convinti della loro fede, esperti della vita secondo lo Spirito, pronti a rendere ragione della loro speranza. Anche in base a queste considerazioni, si può supporre che l’avvenire del cristianesimo o sarà più marcatamente spirituale e mistico o potrà ben poco contribuire al superamento della crisi e al cambiamento in atto nel mondo. Con le parole di André Malraux, fatte proprie da Karl Rahner: “Il cristianesimo del XXI secolo o sarà più mistico o non sarà!”.

Accanto alla via della “martyrìa”, quella della “koinonìa” appare non meno necessaria: essa corrisponde alla nostalgia di unità che, sia pur in forma ambigua e complessa, si affaccia nei processi di “globalizzazione” del pianeta. In particolare, in Europa la disgregazione seguita al crollo del muro di Berlino e l’emergere violento dei regionalismi e dei nazionalismi sfidano le Chiese a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra loro e al servizio dei loro popoli. La “folla delle solitudini” è il prodotto tipico del nichilismo della postmodernità: in rapporto ad essa ai cristiani è chiesto di testimoniare la possibilità dell’essere insieme, tutti responsabili nella Chiesa, del volersi comunione, rendendo la comunità accogliente, attraente, dove ci si senta amati, rispettati, riconciliati nella carità. Il mondo uscito dal naufragio dei totalitarismi ideologici ha come mai bisogno di questa carità concreta, discreta e solidale, che sa farsi compagnia della vita e sa costruire la via in comunione. In questo contesto, emerge una nuova attenzione alla “cattolicità”, intesa sia secondo il suo significato di universalismo geografico, reso più che mai attuale dai processi di “globalizzazione” del pianeta, sia secondo il senso di pienezza e totalità, che rimanda all’integralità della fede e della attualizzazione piena della memoria del Cristo: si può pertanto osare l’affermazione che il cristianesimo futuro o sarà più “cattolico”, e quindi pienamente ecclesiale e comunionale, o rischierà la totale irrilevanza in ordine alla proposta del Vangelo e alla salvezza del mondo.

Infine, la “diakonìa”, la carità vissuta nell’impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato, appare come la terza grande priorità per il cristianesimo agli inizi del terzo millennio. L’intreccio delle sfide della giustizia sociale con quelle dei rapporti internazionali di dipendenza e con la questione ecologica appare con grande chiarezza quando si considerino i processi in atto nell’ottica della “globalizzazione”: i cristiani, presenti nei contesti più diversi del pianeta, sono certamente protagonisti privilegiati per tener desta una coscienza critica attenta a difendere la qualità della vita per tutti e capace di farsi voce specialmente di chi non ha voce e di fronteggiare le logiche esclusivamente egoistiche di molte delle grandi agenzie di potere economico e politico sul piano mondiale. In questo impegno, i credenti non dovranno contare su altri mezzi che su quelli della loro testimonianza e della vitalità della loro fede ed operosità evangelica. Non meno urgente appare il risveglio della coscienza della responsabilità ecologica e l’approfondimento di una spiritualità che tenga insieme l’impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato.

I cristiani saranno insomma sempre più chiamati a farsi servi per amore, vivendo l’esodo da sé senza ritorno nella sequela dell’Abbandonato, costruendo la via in comunione, solidali specialmente ai più deboli e ai più poveri dei loro compagni di strada. L’avvenire del cristianesimo o sarà sempre più marcato dal primato della carità, e quindi dall’impegno per la giustizia e per la pace, o non sarà.

Certo, questo stile di condivisione e di servizio solidale comporterà - sul piano del pensiero, come su quello della vita vissuta - la necessità di prendere posizione e di denunciare l’ingiustizia e il peccato, che ad essa soggiace: amare concretamente gli uomini significa anche capovolgere il loro modo di agire. Si tratta in ogni caso di mettere al primo posto non un interesse mondano o un calcolo politico, ma l’esclusivo interesse alla causa della verità di Cristo e della sua giustizia; si tratta in nome di questo di giocare la vita, compromettendola con la testimonianza, se necessario portando la croce, cercando sempre con tutti la via in comunione. Alla fede vissuta e pensata dei cristiani è chiesta, allora, l’audacia di idee e di gesti significativi ed inequivocabili nella sequela dell’Abbandonato della Croce: il cristianesimo del terzo millennio o sarà più credibile nella testimonianza della fede, della carità e della speranza, o avrà ben poco ascolto nel cuore dei naufraghi del “secolo breve”, che restano - nonostante tutto - alla ricerca del senso perduto, capace di dare sapore alla vita e alla storia, come Cristo nel suo crocifisso amore ha saputo fare per ciascuno, per tutti...

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1. Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeshichte, 2 vol.: 1918, 1922; nuova edizione 1923 (la traduzione italiana è di Julius Evola 1957; riedizione Parma 1991).

2. Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Frankfurt am Main 1979 (traduzione italiana: Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Bologna 1985).

3. Cf. Lucrezio, De rerum natura, II, 1-4.

4. Pensées, in Oeuvres complètes, éd. J. Chevalier, Paris 1954, n. 451 (= 233 Brunschvigc). Blumenberg pone questa frase in esergo al suo libro.

5. Die letzten Dinge, Mainz 19896 (traduzione italiana: Le cose ultime, Brescia 1997).

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