26 agosto 2008

Papa Albino Luciani nell'omelia del cardinale Scola e nella catechesi di Giovanni Paolo II


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Obbedienza ma nella libertà

Pubblichiamo l'omelia che sarà tenuta nella concelebrazione eucaristica dei vescovi del Triveneto del 26 agosto a Canale D'Agordo, in occasione dei trent'anni dall'elezione al pontificato del Servo di Dio Giovanni Paolo i.

di Angelo Scola
Cardinale Patriarca di Venezia

"Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare" (prima lettura, Ezechiele, 34, 15). Ezechiele, cui fa eco il Salmo responsoriale (salmo 22), delinea i tratti del Pastore che prende l'iniziativa e si espone in prima persona: "Io stesso condurrò (...) Io le farò riposare". Oggi siamo qui convenuti da tutta la regione ecclesiastica triveneta, e non solo, per compiere viva memoria del Pastore, forte ed amorevole, che fu il Servo di Dio Albino Luciani, nel giorno trentennale della sua elezione al soglio pontificio.
Il profeta e il salmista tornano continuamente sui principali comportamenti del Pastore-Padre (identificazione questa cara a Giovanni xxiii predecessore di Albino Luciani come Patriarca e come Pontefice): il pastore è colui che ha personalmente cura delle sue pecore, ad una ad una, le raduna da tutti i luoghi dove erano disperse, le fa riposare in un buon ovile, le guida con fermezza per il giusto cammino. In sintesi le asssicura della sua compagnia fedele ed indefettibile ("se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male perché tu sei con me", Salmi, 22, 4). È qui descritta mirabilmente l'esperienza dell'amore oggettivo ed effettivo che fu proprio del grande figlio di questa nobile terra.
Qual è il segreto di questa personalità riuscita, oramai sulla via della santità conclamata dal popolo e già all'esame accurato della Chiesa? Il Papa del sorriso l'han chiamato, quasi ad identificare la cifra di tutta la sua umanità. Ma questo sorriso chiede di essere ben compreso. Esso appare come l'esito, non privo di dramma, di due virtù che il Servo di Dio esercitò in modo eccellente: l'umiltà e l'obbedienza. Lo si vede assai chiaramente ripercorrendo i suoi scritti, soprattutto quelli catechistici - come il suo grande predecessore sulla cattedra di Marco prima e di Pietro poi, Pio x, fu un grande catecheta - e quelli pastorali: "Il Concilio desidera mite obbedienza ed umiltà. Se non si è umili, è impossibile obbedire. Noi dobbiamo avere i sentimenti di Cristo il quale - dice san Paolo - non cercò di piacere a se stesso ed ha obbedito fino alla morte" (A. Luciani, Testimonianze di Cristo. Discorsi alle Religiose, Edizioni Messaggero, Padova 1981, pp. 15 e 49-50). Va subito detto che per Albino Luciani il cemento che tiene unite queste due virtù è la libertà. Questa tocca il suo vertice nella decisione dell'amore oggettivo la cui essenza è il "per sempre". Quasi al termine della sua vita, appena eletto Papa, ce ne dà piena testimonianza: "Io ricordo come uno dei punti solenni della mia esistenza il momento in cui, messe le mani in quelle del mio vescovo, ho detto: "Prometto". Da allora mi sono sentito impegnato per tutta la vita e mai ho pensato che si fosse trattato di una cerimonia senza importanza" (Omelia per la presa di possesso della cattedra vescovile di Roma, 23 settembre 1978).
In ognuno di noi i tratti della vocazione-missione sono accompagnati dal senso della propria personale inadeguatezza, della sproporzione tra il tesoro ricevuto ed il vaso di argilla che lo custodisce. Una sproporzione acutamente vissuta da Papa Luciani cui, tra l'altro, non mancarono sia a Vittorio Veneto che a Venezia incomprensioni e prove.
Egli, appena eletto Pontefice, fece sue queste parole del Papa Gregorio Magno: "Io ho descritto il buon pastore ma non lo sono, io ho mostrato la spiaggia della perfezione cui arrivare, ma personalmente mi trovo ancora nei marosi dei miei difetti, delle mie mancanze, e allora: per piacere perché non abbia a naufragare, gettatemi una tavola di salvezza con le vostre preghiere" (Angelus del 3 settembre 1978).
Questa stessa sproporzione che, se riconosciuta esalta l'umiltà, fu vissuta da Pietro, il primo Papa. Essa contiene un importante insegnamento che noi, in questa occasione straordinaria, dobbiamo saper fare nostro. Di cosa si tratta? Ce lo dice sant'Agostino, i cui scritti furono costante alimento di Albino Luciani. Il compito, la missione che il disegno di Dio affida a ciascuno di noi, non è soprattutto legata alla nostra energia morale, ma all'amore del Signore. Commentando il celebre brano evangelico proclamato poco fa (Giovanni, 21, 15-17) il vescovo di Ippona scrive: "Alla triplice negazione [di Pietro] fa riscontro la triplice confessione d'amore, in modo che la sua parola non obbedisca all'amore meno di quanto ha obbedito al timore (...) Sia dunque prova del suo amore pascere il gregge del Signore, come rinnegare il pastore costituì la prova del suo timore". E aggiunge: "L'amore per Cristo deve tanto crescere in colui che pasce le sue pecore, sino a giungere a quell'ardore spirituale che gli farà vincere anche il naturale timore della morte, in modo che egli saprà morire proprio perché vuole vivere con Cristo" (Agostino, Commentarius in Ioannem, 123, 5).
Ecco la ragione per cui "Il buon pastore offre la vita per le pecore" (canto al vangelo, cfr. Giovanni, 10, 11). Commenta san Tommaso: "Egli consacra loro la sua persona nell'esercizio dell'autorità e della carità. Si esigono tutte e due le cose: che gli ubbidiscano e che le ami. Infatti la prima senza la seconda non è sufficiente" (Tommaso d'Aquino, Super Ioannem, 10, l. 3). Così fece il nostro amato Papa Giovanni Paolo I che fu sorpreso dalla morte dopo soli 33 giorni di pontificato. Per lui l'amore ha un nome ed un volto: quello di Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, crocifisso, morto e risorto per noi uomini e per la nostra salvezza. Di testimoni umili e coraggiosi del Suo amore ha bisogno, oggi più che mai, questo nostro tempo che spesso, per le rapide e profonde trasformazioni cui è sottoposto, sembra aver smarrito i fondamenti dell'umana esperienza. Perché fu un simile testimone Giovanni Paolo I è ogni giorno più amato. Ne è conferma il continuo affluire di pellegrini in questo bel paese dell'Agordino.
Come si manifesta la cura amorevole e ferma del pastore, così efficacemente tratteggiata dal profeta Ezechiele? Far passare dalla dis-gregatio (gregge disperso) alla con-gregatio (gregge unito). È il fermo servizio alla comunione ecclesiale che tanto stava a cuore al sacerdote bellunese, al Vescovo di Vittorio Veneto, al Patriarca di Venezia e al Pontefice Giovanni Paolo I: "Di questa unità noi sappiamo di essere stati costituiti segno e strumento; ed è nostro proposito di dedicare ogni energia alla sua difesa ed al suo incremento" (Allocuzione al Collegio cardinalizio, 30 agosto 1978).
Atteggiamento questo che scaturiva da un acuto senso della Santa Chiesa. Un sentire cum ecclesia che gli permetteva di coglierne in profondità la natura "misteriosa ed insolita" (A. Luciani, Note sulla Chiesa, in "Rivista Diocesana del Patriarcato di Venezia", 58, 1974, p. 660), pluriforme nell'unità, carismatica perché istituzionale, comunionale perché saldamente ancorata al principio petrino. "In questi tempi difficili stare col Papa, difendere il Papa è più sicuro" (A. Luciani, Dopo la "Evangelii Nuntiandi", in "Rivista Diocesana del Patriarcato di Venezia", 61, 1976, p. 166). Il "terribile compito" del Papa, così lo definì appena salito al soglio di Pietro (Radiomessaggio Urbi et orbi, 27 agosto 1978), è di essere al servizio "della missione universale della Chiesa che è quanto dire al servizio del mondo" (ibidem). L'apertura al mondo e, per questo, l'importanza della vocazione dei fedeli laici, è legata per Luciani ad una energica evangelizzazione che implica, nelle debite distinzioni, un'indefessa promozione umana tesa allo sviluppo della verità, della giustizia, della pace, della concordia, della collaborazione tra i popoli. Un impegno verso il mondo che egli definisce "assetato di vita e d'amore" (ibidem). Da qui la sua promozione della famiglia e della vita e la sua costante attenzione al mondo del lavoro e alle realtà di emarginazione.
Quella di Albino Luciani fu veramente una fede a tutto tondo in cui brilla l'essenza piena del cristianesimo. Un cristianesimo unico che chiama tutti alla santità, a partire dallo specifico stato di vita. Santità che egli definiva in modo incisivo come "sequela di Cristo povero, umile e carico della croce" (A. Luciani, Un vescovo al concilio. Lettere dal Vaticano ii, Città Nuova Editrice, Roma 1983, p. 21).
Carissimi, affidando ora la nostra intensa memoria dell'amato figlio di questa terra all'azione eucaristica con cui Cristo ci convoca alla Sua esaltante sequela, non possiamo evitare di metterci in gioco di persona. La Chiesa di Belluno-Feltre ci ha invitato, in questo vespro, a contemplare il volto di Albino Luciani per trarre conforto dalla sua figura, dalla sua vita, dai suoi insegnamenti. Portiamo, quindi, di persona il dono della sua testimonianza a tutti i nostri fratelli uomini, in tutti gli ambienti dell'umana esistenza. La Vergine Maria, che il vostro illustre concittadino venerò intensamente come Mater amabilis, ci assicura con la sua stabile compagnia. Amen.

(©L'Osservatore Romano - 25-26 agosto 2008)

Luciani nel ricordo di Papa Wojtyla all'udienza generale del 22 agosto 1979

Voglio portare i nomi di Giovanni e di Paolo

Il nostro pensiero si rivolge in questi giorni di agosto agli avvenimenti che, nello scorso anno, ebbero luogo proprio in questo mese. Sabato, 12 agosto, la chiesa romana, la città e il mondo intero davano l'ultimo saluto al grande Papa Paolo vi, le cui spoglie furono deposte vicino a quelle di Giovanni xxiii; e i cardinali riuniti a Roma iniziavano i preparativi per il Conclave, fissato per il 26 agosto. Era anch'esso un sabato.
Per la prima volta un collegio così numeroso e così vario si accingeva ad eleggere un nuovo successore di san Pietro. Una gran parte degli elettori, precisamente cento, partecipava per la prima volta all'elezione del Papa, mentre i rimanenti undici vi avevano già preso parte. Eppure fu sufficiente un solo giorno, il 26 agosto, perché Roma e il Mondo ricevessero nella stessa sera la notizia della elezione. Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam, comunicava verso le ore 18 il cardinale protodiacono dalla loggia della basilica.
Il nuovo Papa scelse due nomi: Giovanni Paolo. Ricordo bene quel momento, quando nella Cappella Sistina egli espresse la sua volontà: "Voglio portare i nomi di Giovanni e di Paolo". Questa decisione aveva una sua convincente eloquenza. Personalmente mi è sembrata una decisione carismatica.
Così dunque il sabato, 26 agosto, giorno dedicato alla Madre di Dio (in Polonia si celebra in questo giorno la festa della Madonna Nera di Jasna Góra, cioè di Chiaromonte) si presentò a noi il Papa Giovanni Paolo I.
E fu accolto da Roma e dalla Chiesa con grande giubilo. In questa spontanea gioia vi era gratitudine verso lo Spirito Santo perché, in modo così visibile, aveva diretto i cuori degli elettori e contro tutti i calcoli e le previsioni umane, "mostrava colui che egli stesso aveva designato" (cfr. Atti degli Apostoli 1, 24).
E questa grande gioia e riconoscenza della Chiesa non fu turbata neppure nell'inattesa morte di Papa Giovanni Paolo i. Solo per trentatré giorni aveva esercitato il suo ministero pastorale sulla cattedra romana, alla quale era stato mostrato piuttosto che dato, ostensus magis quam datus, parole che furono pronunciate in occasione della morte di Leone xi, anch'essa improvvisa.
Il pontificato di Giovanni Paolo I, sebbene della durata di meno di cinque settimane, ha tuttavia lasciato un'impronta particolare nella sede romana e nella Chiesa universale. Forse questa impronta non è ancora del tutto delineata: essa viene chiaramente percepita.
Per decifrarla fino in fondo occorre una più ampia prospettiva. Solo con l'andar degli anni, i disegni della Provvidenza divengono più comprensibili alle menti abituate a giudicare soltanto secondo le categorie della storia umana. Un momento però di questo breve pontificato sembra particolarmente eloquente per tutti coloro che hanno guardato alla figura di Giovanni Paolo I, ed hanno seguito con attenzione la sua breve attività. Essa si è svolta in un periodo in cui - dopo la chiusura del sinodo dei vescovi, dedicato alla catechesi (ottobre 1977) - la Chiesa incominciava ad assimilare i frutti di questo grande lavoro collegiale e, soprattutto, attendeva la pubblicazione del relativo documento, che i partecipanti al Sinodo avevano chiesto a Paolo vi.
Purtroppo la morte non permise a questo grande Papa di pubblicare la sua esortazione su quel tema chiave per la vita di tutta la Chiesa. Anche Giovanni Paolo I non ebbe il tempo di farlo. Troppo corto, infatti, il suo ministero pontificale.
Sebbene non sia riuscito a pubblicare il documento dedicato alla catechesi, tuttavia egli è riuscito, è certamente riuscito, a manifestare e a confermare con le proprie azioni che la catechesi è quel fondamentale e insostituibile compito dell'apostolato e della pastorale, al cui svolgimento tutti debbono contribuire e per il quale tutti nella Chiesa debbono sentirsi responsabili: il Papa al primo posto. Giovanni Paolo I non ha potuto promulgare col proprio nome il documento in parola; tuttavia ha avuto il tempo di dimostrare e affermare col proprio esempio che cosa è, e che cosa deve essere la catechesi nella vita della Chiesa dei nostri tempi. Per questo sono stati sufficienti i trentatré giorni del suo pontificato. E quando, tra breve, apparirà il documento dedicato alla catechesi, bisognerà ricordare per sempre che l'intero singolare pontificato di Giovanni Paolo I, ostensus magis quam datus, è stato principalmente un vivo commentario a questo documento e a questo tema. Si può dire che il testamento del Papa sia costituito da tale documento sulla catechesi. Egli, infatti, non ha lasciato altro testamento.
La domenica del 26 agosto - nella ricorrenza del primo anniversario della elezione di Giovanni Paolo I alla cattedra di san Pietro - desidero recarmi nel suo paese natale a Canale d'Agordo, nella diocesi di Belluno.
Lo faccio per un bisogno del mio cuore.
Lo faccio anche per rendere omaggio al mio immediato predecessore (dal quale ho ereditato il nome) e a quel pontificato, attraverso il quale ci parla una verità che è più grande di quella umana. La Chiesa vivente in terra: a Roma e in tutto il mondo è stata illuminata da questa verità che supera quella umana e che nessuna storia può abbracciare ed esprimere, verità, tuttavia, che è stata espressa con grande forza nel Vangelo del Signore: "Il tempo ormai si è fatto breve" (1 Corinzi 7, 29)... "Sì, verrò presto" (Apocalisse 22, 20).
Sembra decisamente che il pontificato di Giovanni Paolo I si possa riassumere in quest'unica frase: "Vieni, Signore Gesù, Maranatha" (Apocalisse 22, 20). L'Eterno Padre l'ha ritenuta la più necessaria alla Chiesa e al mondo: per ciascuno di noi e per tutti senza alcuna eccezione. E su questa frase dobbiamo soffermarci, mentre si avvicina l'anniversario dell'elezione e, tra breve, della morte di Papa Giovanni Paolo I, servo dei servi di Dio.

(©L'Osservatore Romano - 25-26 agosto 2008)

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